Ho scoperto giocando? Le mie memorie del SL Discovery Game

Ebbene sì, c’ero anch’io alla “caccia al tesoro” organizzata per i principianti-newbie di SL. Basta leggere sul sito e sul blog dell’unAcademy per farsi un’idea delle impressioni del gruppo che ha partecipato al gioco. Per quanto mi riguarda, sempre tenendo conto che per me si tratta sempre di stare sulla soglia fra il partecipare e il cercare di capire le cose della comunicazione, l’esperienza si è caratterizzata per almeno un paio di dimensioni che poi si connettono.

La prima è quella della sfida personale: più con se stessi che con gli altri, visti più che altro dei come compagni di avventura. La dinamica di condivisione, anche della paura di fare la figura degli imbranati, si sostanzia nella dinamica delle comunicazioni: in IM, private con alcuni, pubbliche con tutti gli altri, poi con gli helper (grazie a Mae ma anche a Joannes). Come dire: fare la spola fra delocalizzazione e rilocalizzazione.

Se il gioco – quel gioco – è una forma di socializzazione ad un ambiente, questo processo richiede di non essere da soli, non sempre almeno, perché c’è un meccanismo performativo in atto che assomiglia molto a un rito di passaggio. Serve uno sciamano, un conduttore del gioco, e noi l’avevamo, comporta delle fasi di separazione (di allontanamento dalla nostra base, la UA, di passaggio nel limen del teletrasporto verso luoghi sconosciuti), il superamento degli ostacoli (cercare le cose, i fantomatici freebie, imparare ad aprire scatole – sembra facile! – vestirsi, ecc.), per poi tornare, reintegrarsi, ritrovare gli altri. Finalmente.  Ha ragione Huizinga: il gioco è una cosa seria.

L’altra dimensione riguarda il reale attraversamento degli spazi, cioè l’immersione, ma anche le difficoltà di movimento che ho sentito veramente come fisiche, insieme a certi blocchi della comunicazione (forse dovuti alla connessione) che mi hanno disturbato parecchio ma che mi sembra confermino, appunto, la qualità immersiva di SL.

Infine, allora le dimensioni sono tre, c’è l’apprendimento attraverso il “fare”. Divertente sì, ma che di certo non va a scapito della dinamica di osservazione di secondo ordine che innesca.

Ogni tanto ho ceduto e invece di concentrarmi sul gioco per imparare ho fatto delle mosse solo per vincere, o meglio per dimostrare che ce la potevo fare. Ma il conduttore del gioco non me le ha passate. E io ho perso.

Forme becere dell’immaginario

infermiera internet

Questo manifesto pubblicitario rappresenta una forma becera dell’immaginario. Non solo per la pessima qualità dell’immagine e di un concept “fatto in casa” ma per questa ragazza bella ma non abbastanza, l’accavallamento di gambe alla Basic Instinct dei poveri; la messa insieme di più stereotipi: l’infermierina e/o dottoressina sexy, il connubio donne e motori, anche se qui i motori sono di altro genere ma insomma ci capiamo.

L’ho visto mentro ero in macchina, non ho potuto resistere. Ho capito anche perchè c’è qualcuno che la chiama blog therapy.

Arte in SL. Note sull’incontro con Gerosa all’unAcademy

unconference_gerosa_3.jpg

Anche se i malanni e la connessione audio terribile mi hanno impedito di seguire come avrei voluto l’incontro con Mario Gerosa/Frank Koolhas, qualche idea e soprattutto qualche domanda me la sono fatta. Tra l’altro, grazie ai tempi morti dal parrucchiere e grazie alla mia capacità di resistenza alle tentazioni (leggere le riviste di gossip invece di un libro), sono arrivata alla conferenza un po’ preparata dalla lettura del libro Second Life.

Troviamo il resoconto di GBA sull’incontro sul blog dell’unAcademy nel post Prima conferenza di Ua: conversazioni tra avatar per cui mi limito ad alcune considerazioni.

Per come la vedo io, e da quel che ho capito quando se ne parla fra di noi, SL è uno spazio della comunicazione, cioè del sociale. Corrisponde a un immaginario – quello della videocultura globalmente intesa – che è noto e perciò stesso ben riconoscibile, per certi versi imprescindibile. A questo immaginario rimandano anche le forme estetiche prodotte in SL. Si tratta di vedere allora come gli artisti, ognuno a modo suo, combinano i linguaggi che hanno a disposizione per produrre forme inedite: ma questa è una questione dell’arte tout court non dell’arte in SL. Senza dimenticare poi che anche la comunicazione artistica è ricorsiva, rimanda ad altra comunicazione, cita, riproduce, si pone come comportamento recuperato (per dirla con la teoria della performance).

Domanda: qual è il sistema deputato a decretare l’adeguatezza di un’opera? Sarei portata a dire che lo possa fare il sistema sociale dell’arte, a meno che SL non sia un sistema sociale a sé con un suo sistema dell’arte che decide cosa è arte e cosa non lo è. Ma questo ancora non lo so, direi proprio di no.

Certo è che in SL sperimentiamo forme del possibile altrimenti (della realtà della first life) che possono ispirare la creatività estetica e dell’architettura ad esempio – come sostiene Fabio/Asian – e che dipendono dalla possibilità di volare, teleportarsi, prescindere dalla forza di gravità (se così non fosse sarei morta 100 volte).  

Se non ho capito male per Gerosa la frontiera più interessante riguarda la qualità estetica dell’avatar. Questo è interessante perché vuol dire che, com’è nella logica della rete, ognuno può lavorarci su. Fare del suo avatar un’opera d’arte insomma, che poi a ben vedere questi erano i presupposti delle Avanguardie per cui, ancora una volta, “niente di nuovo sotto il sole”. Il dubbio sorge spontaneo di fronte a certi avatar femminili che più che tentare un’estetica dell’apparizione sembrano cogliere l’occasione per costruirsi un’immagine sexy, molto mainstream.  

Il che rimanda alla questione della moda. SL non mi sembra per niente una fucina di idee nuove per il fashion. Vorrei anche vedere in quale produzione Miuccia Prada si sarebbe ispirata ai videogiochi e simili perché proprio non mi viene in mente. In ogni caso mi sembra che il rapporto possa essere visto per lo meno in termini di determinazione reciproca proprio perché dobbiamo ragionare nel contesto di un immaginario meta-territoriale sulla base del quale la moda si avvale, per poter cambiare sempre, delle fonti più svariate (dalla strada alle sub-culture, dal cinema ai videogiochi, ecc.) per poi diventare essa stessa catalizzatore potentissimo dell’immaginario e dei comportamenti. 

Trovo invece che SL sia uno spazio interessante per la performance: sia per i casi come l’omaggio in forma di “cover” ai grandi performer del passato realizzato dagli 0.1.org, sia per la realizzazione di eventi basati sul coinvolgimento dei partecipanti. Ma si vedrà.

Per ora mi aspetterei che la si smettesse di applicare la distinzione reale/virtuale. SL sta proprio a dimostrare la sua inadeguatezza.

Le immagini del suono

R. Paci Dalò a Teatro e Spettacolo, foto dal mio cellulare di R. Bartoletti

Il seminario tenuto da Roberto Paci Dalò, direttore artistico di Giardini Pensili, compagnia attiva nell’ambito delle performing art dal 1985, ha permesso di inquadrare uno scenario complesso della spettacolarità facendo il punto, o meglio problematizzando, concetti e temi che fanno ormai parte della semantica della performance contemporanea.

Multimedialità, ad esempio, ma anche interattività, cioè quelle parole che rimandano a delle pratiche della spettacolarità e della sua “fruizione” che poggiano sulle logiche e sulle grammatiche tecnologiche. Questo si sa. Ma che appunto richiedono la messa a punto di drammaturgie capaci di definire anche livelli di priorità di una forma sull’altra. Il tutto per non cadere nella semplicistica unione dei formati che la comunicazione mette a disposizione anche degli artisti.

L’idea delle “immagini del suono”, insieme al montaggio come scansione del tempo, sta ad indicare la necessità a volte di concentrarsi su un unico rapporto medium/forma perché un suono, una musica, una canzone evocano immagini, cioè sono forme per l’immaginario.

Sentirò domani cosa ne pensano gli studenti di Teatro e Spettacolo.

La foto è un po’ mossa, lo so, ma è colpa del mio cellulare. L’ha scattata per me R. Bartoletti.

“Portare Il Capitale in scena è una pazzia!” Marx, il teatro e l’osservazione di secondo ordine

Nell’ambito di Vie Scena Contemporanea Festival  è andato in scena uno spettacolo molto interessante. In realtà c’erano diverse cose da vedere ma siccome mi tocca dover selezionare le mie trasferte teatrali, mio malgrado ovviamente, la scelta è caduta su Karl Marx/Das Kapital: Erster Band del collettivo tedesco Rimini Protokoll   e non mi dispiace neanche un po’, anzi.

Chi mi conosce, anche gli studenti, sa che non mi interessano né la critica teatrale né tanto meno quella artistica, non è il mio mestiere e lo lascio fare a chi è capace. Teatro e spettacolo mi interessano dal punto di vista della comunicazione performativa e delle sue ricadute sull’immaginario. Per descrivere lo spettacolo, che in realtà si presta ad essere meglio definito proprio nei termini della performance per le sue modalità di costruzione, mi avvalgo, per comodità e chiarezza, delle descrizioni trovate nel catalogo del festival con qualche mia aggiunta.

Otto persone dalle competenze diverse, non attori di professione, ma persone che vivono in maniera diversa l’influenza del pensiero marxista. Un maoista che racconta la sua esperienza in Cina, l’impiegato cieco di un call center, collezionista di dischi di musica popolare tedesca, che vuole partecipare a Chi vuol essere milionario, uno storico che ripercorre la storia e i numeri delle edizioni tedesche de Il Capitale ed e colui che dichiara “Portare Il Capitale in scena è una pazzia!”, una traduttrice che racconta di come i giovani della DDR fossero refrattari a studiare obbligatoriamente il russo, un uomo d’affari fallito che negli anni Sessanta era membro dell’Unione tedesca degli studenti socialisti e andava in giro a bruciare i soldi, un lettone che racconta di essere stato trattato appena neonato come “merce” da una donna polacca che lo avrebbe comprato per aiutare la giovane madre in difficoltà a emigrare, infine un giovane comunista con le sue certezze e speranze per il futuro dell’umanità. 

Sono dunque performer che mettono in scena se stessi, rendono comunicativi i loro vissuti a partire da Il Capitale – di cui viene fornita una copia ad ogni spettatore che può seguire le parti evidenziate e tradotte in italiano –  e che ci fanno seguire il filo rosso di un plot che intreccia costantemente, e non senza humor, i contenuti dell’opera con i racconti di vita vissuta, con le biografie delle persone in scena. Un lavoro di traduzione che si gioca già nella traduzione in cuffia dal tedesco e, soprattutto, nella messa a tema di vite segnate dall’ideologia marxista e che attivano un processo continuo di osservazioni di osservazioni: del lavoro teatrale sui protagonisti, di questi sulle loro vite, di noi che guardiamo la scena e le vite raccontate (e riflessivamente anche le nostre). Assistiamo insomma a un gioco di scambio fra realtà vissuta e realtà della scena che è il significato stesso della performance (di tutte le performance). E che è l’aspetto che a me interessa di più.

Però c’è anche l’elemento di “efficacia” che non va sottovalutato e che riguarda il linguaggio politico, nel senso ampio del termine, di un lavoro come questo che rimanda alle funzioni storiche di un certo teatro a partire però, direi, dalla consapevolezza delle osservazioni di secondo ordine.

Un percorso che si inserisce nella storia dei tre registi che sono l’anima del collettivo, attivo dal 2002, e che sono noti per aver realizzato eventi come: (dal catalogo) “la lettura dal vivo di una seduta del Bundestag dalle 9 del mattino a mezzanotte; un Wallenstein in cui i versi di Schiller sono stati sostituiti da una discussione su potere e tradimento tra ex politici della CDU e veterani della guerra del Vietnam; Cal Cutta un evento in cui i performer stavano fisicamente a Calcutta ed erano collegati tramite telefoni cellulari con gli spettatori a Berlino”. A quest’ultima performance avrei proprio voluto esserci.

Tappeti volanti e panorami sardi. Il mio primo viaggio in SL

snapshot sardigna 

Devo ammetterlo, sto vivendo un periodo di iniziazioni. Ieri sera, ho chiesto a Giovanni, di continuare l’addestramento di Liu in SL visto che si sta avvicinando la data della conferenza di Mario Gerosa all’unAcademy e non vorrei arrivare e non essere neanche capace di sedermi. E così, ovviamente dopo Grey’s Anatomy, eccoci puntuali all’appuntamento. Soli soletti decidiamo di farci un giro. Dopo tentativi di volo e figure ridicole da parte mie, ci teletrasportiamo in Sardigna e troviamo il gentilissimo cicerone Ambrose Birke (una ragazza con un gonnellino in tartan niente male) che ci propone una visita guidata. Dopo avermi spiegato 5 o 6 volte come sedermi sul tappeto-volante di artigianato locale, finalmente inizia il giro turistico.

Sulla descrizione dettagliata non mi soffermo, tante sono le indicazioni storico-culturali che l’appassionata e competente Ambrose ci ha fornito.

Il punto centrale per i miei interessi, e per il mio lavoro, è la pratica di questo viaggio. Da tempo provo a utilizzare il termine di immaginario performativo per indicare modalità, anche turistiche, di percepire le immagini in maniera “sensibile” e che trova nell’esperienza fondata sulla logica tattile la sua spiegazione.

Oltre questo ritrovo – questa volta in prima persona e c’è una bella differenza – l’entità di esperienze immersive a metà fra la fruizione artistica dell’arte interattiva e il viaggio appunto che permettono di cogliere ambiti di possibilità sempre a metà, sempre sulla soglia, di efficacia e intrattenimento.

Volare, trovarsi immersi in panorami cangianti, in nebbie fumose, passare attraverso canguri psichedelici (complimenti alla grafica Irix, se non sbaglio il nome), entrare in un bellissimo auditorium ancora da inaugurare o in un locale all’aperto, immergersi nelle acque, planare in un nuraghe ricostruito (in pieno Heritage Tourism), percorerre paesaggi intercalati da video esplicativi… è qualcosa che riguarda e che rende visibili i processi dell’immaginario  e della comunicazione in maniera inedita e che richiede chiavi di lettura non scontate.

Red Flag. Mestruazioni 2.0

Il dibattito sul caro tema delle mestruazioni aperto nella blogosfera non soltanto femminile – io per ora ho letto su Chiara, poi su Elena, poi su Stefano, poi su Feba che ha lanciato l’argomento – mi è stato segnalato da Giovanni che ringrazio (anche per avermi insegnato varie cose utili e per aver postato il primo commento).

Ora: l’argomento è interessante per osservare le pratiche espressive dell’immaginario. Se il sangue mestruale è oggetto di un tabù ancestrale – basta leggersi i passaggi dedicati da Gilbert Durand ne Le strutture antropologiche dell’immaginario alla irrimediabile femminilità dell’acqua,  legata alla luna e appunto all’archetipo mestruale – è proprio per questo che si presta a essere un tema affascinante per la comunicazione e visibile nelle performance di artiste come Judy Chicago (l’immagine della Red Flag è sua), Carolee Schneemann, e altre ovviamente. Si vede tutto nel sito nel sito del Museum of Menstruation in rete. Come dire: i modi più diversi occorrono per metabolizzare simbolicamente l’ineluttabile del femminile.

Per quanto riguarda me, e il quotidiano o sarebbe meglio dire il mensile: grazie a chi ha inventato la red flag (ho visto una volta su una rivista che devo aver accatastato da qualche parte un servizio dedicato ai mestieri strani e ho letto con riconoscenza degli addetti alla supervisione degli assorbenti interni. E che paura la sindrome da shock anafilattico che ha impedito a molte di noi di tentare per anni e di andare al mare con i pantaloncini, i gonnellini, i pareini… giusto per non far capire a tutti di essere “in quei giorni”).

A parte poi l’effetto che mi rende più simile a Liu Lunasea (il mio avatar, scarso pure quello nel muoversi in rete) ciò a cui penso con terrore è la vasta gamma di dolori che ne conseguono. Mal di testa fra tutti. Viva l’Imigran.

Un nuovo inizio

Sarà che il 17 è un numero che non mi dispiace, sarà che ho partecipato al Festival del Blog di Urbino (essendo anche del LaRiCA) e perciò molto sollecitata dalla conversazioni intorno a me, che ho pensato di cogliere la sfida o meglio l’invito di alcuni a sfruttare uno spazio come questo non tanto per dire la mia ma per trattare dei temi e sperare che gli altri ne parlino con me.

Un’idea che le interviste svolte in quell’occasione ai blogger (adesso Granieri mi sgrida) – deformazione del ricercatore che si trova a essere allo stesso tempo coinvolto e distaccato nelle cose – hanno reso in qualche modo necessaria.  

Come spesso mi accade la mia partecipazione agli eventi è un po’ liminale ma è anche vero che l’oggetto di questo blog è la performance – il cui carattere è proprio la liminalità – per cui può essere che i conti tornino.

Non so ancora fare niente: template, blogroll, ecc.  e non mi ha preso neanche il primo link che avrei dovuto mettere. Mi ci vorrà del tempo, intanto provo a cominciare.