isTANZe politiche. Danza contemporanea, spazi e spettatori in WITH di Paola Bianchi community

contemporaneo

Che la questione del contemporaneo riguardi la relazione fra artisti e pubblico, operatori, istituzioni e spazi è cosa nota. Lo si vede ad esempio, proprio in questi giorni, con il caso dell’Angelo Mai che porta alla ribalta il problema della resistenza culturale in un contesto nazionale troppo preso da altro per capire e sostenere davvero le realtà artistiche e il patrimonio culturale.

Ed è proprio in questo frame che va collocata l’attività svolta dal 2009 dal [collettivo] c_a_p per diffondere e promuovere la danza contemporanea nel riminese, territorio dove i membri del collettivo risiedono e dove, forse con meno clamore rispetto alle realtà dei teatri occupati in Italia ma di certo con grande spirito di servizio, portano avanti l’idea di “normalizzare” la programmazione del contemporaneo e di non relegarlo nei percorsi ad hoc e risicati di una stagione teatrale.

Un esempio efficace in questa direzione è la realizzazione (7 marzo 2014) del progetto isTANZe al Teatro Diego Fabbri di Forlì, all’interno della stagione del contemporaneo con la direzione artistica di Lorenzo Bazzocchi (Masque Teatro) e Claudio Angelini (Città di Ebla).

isTANZe va visto come un atto politico che assume almeno tre direzioni: la prima motiva l’esistenza e la persistenza del collettivo con l’avvio di un nuovo percorso teso a riflettere e agire sulla mancata destinazione di spazi per la danza contemporanea; la seconda spinge la danza a occupare il teatro a partire dalla messa in discussione della centralità del rapporto palco/platea a favore dell’estensione della performance all’edificio teatro; la terza riguarda più esplicitamente il lavoro dello spettatore.

Questa fase del percorso  isTANZe è stata affidata a Paola Bianchi cui è stato chiesto di abitare il teatro Diego Fabbri in tutti gli spazi agibili escludendo l’uso tradizionale del palcoscenico. Per farlo Paola ha dato vita a WHIT_plurale, una tappa del progetto di creazione utopica UNTITLED _ senza titolo | senza diritti in cui vengono affidati i 5 “ruoli” che Paola esegue da sola nella fase intitolata WITHOUT-quintetto in solo ad altre 4 coreografe danzatrici – Ruhena Bracci, Sara Simeoni, Valentina Buldrini, Marina Giovannini – secondo un processo drammaturgico piuttosto complesso di cui abbiamo avuto modo di parlare durante l’incontro Converso dopo lo spettacolo.

incontro forlì

foto di Marco Valerio Amico

Il progetto UNTITLED ha come focus l’idea dell’impossibilità della simultaneità dello sguardo, parte cioè da un presupposto relativista ma non nichilista secondo cui è impossibile vedere tutte le cose contemporaneamente. Un principio questo che va collegato all’attitudine transmediale di Paola Bianchi e che consiste nell’usare la letteratura come base per la coreografia (D’Ars 216). Già questo è un aspetto da sottolineare poiché mette insieme la tecnologia della scrittura, cioè il medium che sgancia la comunicazione dal corpo e che serve per elaborare i contenuti e le informazioni, con l’immaginario letterario da cui scaturiscono figure e caratteri da rendere coreograficamente, cioè in  maniera analogica.

La sfida consiste allora nel rendere evidente l’improbabilità della comunicazione che, paradossalmente, ci fa stare in relazione proprio grazie al linguaggio anche se poi ognuno l’informazione non può che produrla da sé.

Ed è proprio questo che succede con WITH perché si tratta di un lavoro stratificato sia dal punto di vista della sua costruzione sia per le sue implicazioni politiche, si diceva, ma anche più direttamente legate alla creazione delle coreografie, alla fruizione, all’uso dello spazio.

Il lavoro origina da 5 romanzi, individua 5 figure, attribuisce le figure alle 4 +1 (Paola) coreografe/danzatrici senza che venga richiesto loro di leggere i testi originari ma piuttosto di utilizzare alcune tracce scritte da Paola: piccolissimi blocchi coreografici più o meno uguali per tutte e una serie indicazioni sui diversi caratteri da incarnare.

Sara Simeoni ha lavorato su Anatomia della ragazza zoo di Tenera Valse e sulla la figura che si chiama Alea,  Rhuena Bracci su La vita accanto di Mariapia Veladiano e su Rebecca, Valentina Buldrini è Michela di Volevo essere una farfalla di Michela Marzano, Marina Giovannini è Margherita di Sangue del suo sangue di Gaja Cenciarelli, mentre Paola Bianchi tiene per sé la crudele Alice de La compagnia del corpo di Giorgio Falco.

Senza voler dar vita a dei personaggi ma piuttosto a dei caratteri il metodo di lavoro di Paola consiste

nel partire dai testi da cui ricavo immagini che per me sono forti e su cui poi lavoro senza cercare la linearità della narrazione. (…) Ho consegnato alle coreografe un pezzettino piccolissimo di coreografia scritta, cioè con la descrizione a parole del movimento e questo ha fatto sì che ognuna interiorizzasse lo stesso movimento scritto in un modo personale, inserendolo autonomamente nella propria coreografia. (…) Infatti sono andata una volta alle loro prove soltanto per capire come collocare la loro azione nello spazio. Le nostre sono 5 coreografie autonome e modificate in relazione allo spazio (Paola Bianchi).

Questo è un passaggio che sposta la questione drammaturgica, sempre centrale nella ricerca di Paola Bianchi, “nella testa di chi guarda” (Bianchi) ma anche nell’idea di un corpus organico da cui emerge il lavoro, che non a caso pone nel sottotitolo la parola “plurale”.

Le 5 performance hanno rispettivamente una durata di 10 minuti e vengono eseguite in loop per un’ora circa. Gli spazi coinvolti del teatro sono vicini fra loro e le azioni avvengono contemporaneamente per cui sta allo spettatore decidere e costruire il suo percorso di visione, il tempo di permanenza nel campo di una performance o di un’altra, percependo nettamente che – essendo impossibile la simultaneità dello sguardo – deve scegliere da solo come procedere. Un dato che, a bene vedere non riguarda soltanto lo spettatore ma le stesse performer.

WITH rhuena bracci

Ruhena Bracci – foto Paolo Pollo Rodighiero

Per me è stato molto divertente lavorare in questo modo perché si parte da un materiale asciutto, netto, predefinito. C’è già tutto un lavoro dietro alle spalle con cui vai in sala prove e che non hai fatto tu ma che è veramente molto chiaro. Ho scelto di non leggere il testo. Lo farò dopo. Ma ieri mentre provavo nello spazio è emersa una parola nuova, una cosa che non sapevo ed è cambiato tutto. È emersa un’informazione in più su mio personaggio che non sapevo e questa unica parola ha cambiato la mia posizione rispetto al lavoro che stavo facendo, nel senso che la coreografia era sì quella ma con un nuovo contenuto… un +1. Era interessante anche sapere che altre coreografe lavoravano parallelamente su altri personaggi e che alla base ci fosse un progetto, un filo logico a tenere insieme il lavoro. Ho scelto di andare in sala partendo da un input forte, presente. Ho scelto di partire da un punto scritto da Paola e di fissare ogni giorno esattamente quello che immediatamente usciva: punto di partenza-creazione-tenuto, il giorno successivo: creazione-tenuto. Non è rimasto tutto però alla fine avevo il materiale su cui lavorare (Rhuena Bracci).

WITH sara simeoni

Sara Simeoni – foto Paolo Pollo Rodighieri

A me è piaciuto molto lavorare a distanza. Poi anche il personaggio che Paola mi ha dato era azzeccato, rimandava a cose che da qualche parte in me c’erano… Sono andata in maniera molto disordinata anche se le cose che Paola mi ha scritto erano anche quelle che cercavo nella mia ricerca, poi ho cominciato a buttare fuori molto materiale. Mentre lavoravo mandavo dei video per stare in connessione, cioè per mantenere un rapporto di vicinanza a distanza. Poi ci siamo viste con Paola, ho distrutto tutto quello che avevamo fatto. (…) Nel lavoro ci sono una parte improvvisata e una fissata, cioè che mantengo su una cosa che provo. Non fisso il movimento ma cerco di essere presente sempre perché la difficoltà e il rischio che è che ogni volta che arrivo in un certo punto della coreografia improvviso un’azione ma devo ritrovare lo stesso tipo di sensazione, la stessa vibrazione. Per cui mi serve la scrittura per avere degli appigli ma poi sperimento in scena. Per me l’effetto era dato dalla relazione con queste stanze, dalla percezione della presenza di Valentina dall’altra parte della tenda, la presenza del pubblico, a volte più numeroso a volte con poche persone per cui  la relazione era sempre diversa. Non mi interessa “eseguire” ma in queste stanze belle si è creata una sorta di intimità che però mi ha permesso di stare “sveglia” sempre (Sara Simeoni).

WITH valentina buldrini

Valentina Buldrini – foto Paolo Pollo Rodighieri

Ho avuto queste indicazioni tanti mesi fa e le ho lasciate sempre lì. Continuavo a leggermele non sapendo da dove partire. Accettavo che qualcuno mi avesse dato delle informazioni per iniziare qualcosa ma in fin dei conti non accettavo fino in fondo questa cosa, continuavo a guardare e mi dicevo che presto avrei cominciato. Le sentivo distanti e non capivo se iniziare a improvvisare, come faccio di solito, o se chiedere uno sguardo esterno. Mi dicevo che qualcosa sarebbe dovuto succedere. Ed è successo che questa indicazione su un personaggio molto legato alla vita notturna, molto ricca di incubi si associasse a dei miei episodi di sonnambulismo che sono ricominciati dopo diverso tempo… Così sono partita un po’ da quello che mi succedeva di notte e la mattina mi mettevo a provare su questo, insieme alle indicazioni che avevo. Pian piano mi sono accorta che questo materiale che mi sembrava distante in realtà mi corrispondeva parecchio… (Valentina Buldrini).

Valentina sta appesa per le braccia a delle corde e i suoi movimenti sono condizionati da questa trazione. La sua presenza è accompagnata da un video (Enrico De Luigi) di cui abbiamo chiesto spiegazioni.

Questa è la “consegna”. Ho riportato la sequenza scritta del movimento in quella forma. La parte scritta data da Paola è quella in video, più precisamente la parte a terra, mentre la parte in piedi la eseguo appesa alle corde. Ho slegato le due parti dandogli dei linguaggi un po’ diversi. È stato interessante per me perché è stato un modo differente di affrontare un lavoro. Questo lavoro mi ha messo di fronte alla necessità di smontare le cose che faccio di solito. Sono andata a ricercare in un luogo particolare per me che è quello dei sogni e che mi ha dato delle informazioni per la creazione di un’azione che, guarda caso, aveva a che fare con i sogni. Gli incubi facevano proprio parte di quel materiale e qui le cose si sono intrecciate (Valentina Buldrini).

WITH marina giovannini

Marina Giovannini – foto Paolo Pollo Rodighieri

Ho letto quello che Paola mi ha mandato e non mi sono preoccupata molto. Questi scritti arrivati in due fasi e non avevo bene idea di come sarebbe andato avanti il lavoro. Ci sono state delle indicazioni e degli scritti che descrivevano un po’ un personaggio. Li ho letti e ho lasciato che venissero assorbiti per poi tradurli in movimento. A volte sono stata un po’ didascalica rispetto a quello che leggevo, a volte sono andata tutta da un’altra parte mi sono affezionata a delle parole, a delle piccole descrizioni di questo personaggio ed è venuto fuori un mio immaginario su questa persona. Ci sono state delle frasi che mi hanno particolarmente stimolato. Nel mio caso l’indicazione per questa Margherita era “cammina molto” e, siccome capita che ci siano piccole cose che sono nell’aria e che ritornano, qui anche solo il camminare o spostare il peso da un piede all’atro è una piccola descrizione che ha colpita ed è quella su cui ho più lavorato. Poi ci ho lavorato, ho cambiato, pensato, eseguito l’azione come l’avevo pensata ma poi non tornava… Effettivamente è un lavoro molto strano: è collettivo ma hai lavorato in solitudine, sai che contemporaneamente ci sono altre 5 persone che stanno facendo una cosa che tu hai visto solo oggi. C’è questo senso di solitudine estrema però stai condividendo qualche cosa anche solo con il pensiero… È una situazione inusuale e particolare. Sì, un po’ immaginavo l’idea di abitare un teatro, il fatto che ci saremmo dislocate fra gli spazi e anche quello mi lavorava dentro. Immaginavo che mi sarei relazionata in uno spazio di un certo tipo e rimanevo aperta a quest’ipotesi per cui non ho voluto fissare troppo il movimento ma ho trovato i miei meccanismi per fissarlo sapendo che lo avrei regolato sullo spazio (Marina Giovannini).

Nell’obiettivo di trattare gli incontri con il pubblico come momento di condivisione del processo creativo, abbiamo chiesto a Paola di fornire anche a noi alcuni esempi delle tracce scritte da collegare alle diverse prospettive di osservazione da cui le coreografie hanno preso vita. E così cominciamo a riconoscere le associazioni:

Valentina/Michela: i suoi sogni sono incubi, una ragazza assassinata, il precipitare nel vuoto, un ragno che le cade in testa, un uomo che le tappa la bocca, se parli ti schiaccio.

Marina/Margherita: cammina molto, cammina in punta di piedi per non fare rumore; il suo corpo non è lì, si sente improvvisamente al posto sbagliato nel momento sbagliato, annaspa nel vuoto di parole e di azioni.

Sara/Alea: è neutro, soltanto quando si accoppia diventa maschio o femmina.

Ruhena/Rebecca: ha tutti i pezzi a posto però appena più in là, o più corti, o più lunghi o più grandi di quello che ci si aspetta, la bocca sottile che pende a sinistra in un ghigno triste ogni volta che tenta un sorriso.

Ruhena, ci spiega Paola, ha lavorato in parte su questa asimmetria ma non del tutto, ha lavorato anche di trucco facendosi questa bocca un po’ aspra ma non cattiva perché la sua figura non è cattiva ma ha delle piccole deformità mentre il mio personaggio è cattivo crudele, è una ragazzina di 16-17 anni della periferia del nord est che pesa 110 chili.

WITH paola bianchi

Paola Bianchi – foto Paolo Pollo Rodighieri

Ecco allora che l’impossibilità della simultaneità dello sguardo, come concetto guida dell’intero progetto, rimanda alla condizione originaria della comunicazione fra essere umani, del piano individuale per cui ognuno non può che partire da sé nella processo enattivo – cioè produttivo – dell’informazione: le tracce scritte hanno una loro qualità “numerica”, che viene compresa grazie alla codifica del linguaggio ma la traduzione in movimento, in azione coreografata passa per forza dalla soggettività e si trasforma in qualcos’altro.

Io stessa ho lavorato sulle stesse indicazioni per mio lavoro singolo. Vedere come quelle indicazioni che io mi ero data sono diventate attraverso di loro è straordinario. È interessante vedere cosa abbia generato in loro una partitura che è una descrizione precisa del movimento. Il tempo è diverso, i modi per eseguire lo stesso movimento sono diversissimi… (Paola Bianchi).

Ed è questa anche la base per ridefinire il rapporto con lo spettatore. Vero movente, come sottolinea Claudio Angelini, con il supporto di Ivan Fantini che ha partecipato attivamente alla conversazione, di una progettualità organizzativa del teatro che cerchi di uscire dalle logiche, certamente più facili, del mero intrattenimento.

In questo lavoro ho dato estrema fiducia agli spettatori, anzi vi ho dato in mano la cosa dicendovi di farne quello che volete. Avremmo anche potuto costruire un percorso di fruizione delle 5 performance, definendo i passaggi, i tempi, ecc. ma in questo modo avremmo costruito noi una “storia”. Invece abbiamo deciso soltanto di far partire i gruppi di spettatori da 5 punti diversi del teatro, per motivi logistici, lasciando poi la possibilità di decidere il tempo e il modo di guardare le performance. Questo è un modo per lavorare in relazione con la persona piuttosto che con il “pubblico”. È il singolo, infatti, ad aversi rimandato molto mentre eseguivamo le nostre partiture proprio perché essendo così vicini si è potuto creare un rapporto molto forte (Paola Bianchi).

La realizzazione di WITH nello spazio del teatro Diego Fabbri, cioè di “un luogo violentemente pensato per un certo tipo di visione e un certo tipo accoglienza” (Angelini), pone quindi come centrale il cortocircuito fra la dimensione creativa e quella politica che chiama in causa non solo la gestione dello spazio in chiave drammaturgica, la fruizione di un lavoro, l’esperienza interiore di ognuno ma la più generale responsabilità dello spettatore (ancora Angelini) e la riscoperta di un modello educativo all’arte e alla cultura da intendersi nuovamente come parte quotidiana delle nostre vite.

Sarà quindi interessante vedere la forma che prenderà WITH in uno spazio diverso come il Teatro degli Atti di Rimini il 4 aprile 2014, nell’ambito delle azioni C_A_P 07 Area laterale.

Deviazioni di danza 3

c_a_p-05-deviazioni

Ha chiuso veramente in bellezza il 30 novembre al Teatro Massari di San Giovanni in Marignano la rassegna di danza contemporanea c_a_p05 deviazioni con la programmazione di due lavori che messi vicini – grazie alla sensibilità artistica ma evidentemente anche organizzativa di Paola Bianchi, Valentina Buldrini e Chiara Girolomini – permettono di cogliere un senso poetico unico, difficile da esplicitare – se non nella dimensione “al femminile” dei due spettacoli – ma piuttosto tutto da “sentire”.

corpo libero1

Con il suo A corpo libero, progetto nato in occasione del concorso GD’A Veneto 2009, Silvia Gribaudi regala agli spettatori 15 minuti intensi ed esilaranti per riflettere con ironia sul corpo e in particolare sulla condizione femminile (del corpo).

Durante l’incontro a fine spettacolo è stata proprio Silvia a spiegare come l’idea sia nata nel momento in cui si è accorta che con il passare del tempo perdiamo un po’ di controllo delle nostre carni e che perciò mettere in scena questo passaggio può essere un modo per accettarne gli esiti inevitabili.

a-corpo-libero3

La presa di coscienza della nostra datità corporea non è una cosa scontata, e non lo è soprattutto in una cultura come quella occidentale in cui si sono pervicacemente sganciati il corpo e l’anima per dare, si sa, molta più importanza alla seconda. Qui invece il focus è proprio sulla “gioiosa fluidità del corpo” e così facendo Silvia Gribaudi ci vendica tutte.

a-corpo-libero4_alvise-nicoletti1

Su un altro versante, non meno importante, il corpo viene trattato al di là dello stereotipo fisico della “ballerina” per riconsegnare la danza, almeno potenzialmente, all’umanità che da sempre si esprime anche non verbalmente e attraverso il movimento.

corpolibero5

Una chiave di lettura che può essere collegata ai progetti con donne over 60 o in strada – da seguire TOYS?moveon – e in cui il coinvolgimento della gente, ora che come pubblico “spontaneo” ora come danzatore improvvisato, diventa il vero movente della performance.

clown1

Con il suo Clown Giovanna Velardi, in scena nella seconda parte della serata con Giuseppe Muscarello (membro della compagnia Giovanna Velardi fondata a Marsiglia nel 2000), costruisce una storia per “personaggi danzanti” che rimandano, soprattutto nella prima parte dello spettacolo, all’immaginario della tradizione popolare e dei pupi siciliani ma anche alla Commedia dell’Arte come pure a certa tradizione folcloristica francese. E d’altronde la stessa Giovanna, palermitana con il periodo di formazione passato in Francia, incarna la commistione di culture che caratterizza la sua terra d’origine.

clown bella

Lasciati per il tempo di un cambio di costume in compagnia di un pupazzo arlecchino sul palco ci ritroviamo nella seconda parte dello spettacolo con un clown femmina alle prese con un clown maschio, figure ideali per mettere a tema quella che Niklas Luhmann ha definito la normalissima improbabilità dell’amore.

clown lui lei

I linguaggi sono quelli della clownerie che abbiamo visto da piccoli al circo: lo scherzo, anche con il pubblico, la presa in giro, le scaramucce fra i due, un po’ di cattiveria e di violenza… tanto da farci credere che, nell’apice tragico dello scontro tra i due, la femmina cada vittima del maschio.

clown lui piange

Ma poi per fortuna si rialza e il gioco riprende fino a coinvolgere gli spettatori che vengono scavalcati e un po’ strapazzati, infine ingaggiati in una battaglia a colpi di palline di gomma colorata. E così la tragedia, trasformata in farsa, per questa volta può essere evitata.

clown in mezzo gente

Fra gli elementi che tengono insieme i due spettacoli – e a ben vedere i lavori che hanno composto la rassegna – emerge con una certa chiarezza, grazie anche agli scambi con i coreografi nel dopo-spettacolo, il ruolo dello spettatore ormai definitivamente integrato nel dispositivo della messa in scena. Non perché debba fare chissà cosa ma perché, da un lato, è pensato già sul piano drammaturgico dai coreografi come l’attualizzatore delle potenzialità semantiche dello spettacolo e, dall’altro lato in maniera ancora più cruciale, perché la performance contemporanea riparte oggi, e pensa se stessa a partire da quel cambiamento di senso della posizione nella comunicazione (rimando a Giovanni Boccia Artieri) che dipende dalla logica della rete (Internet) e che rende più esplicita la compartecipazione di tutti alla generazione dei contenuti. Senza per questo dover rinunciare alla complementarietà della relazione scena-sala e alla sua magia.

Deviazioni di danza 2

La seconda tappa di c_a_p05 deviazioni – ieri, 16 novembre 2012 al Teatro degli Atti di Rimini – è caratterizzata dalla presentazione di due lavori accumunati da un ragionamento intorno al corpo e all’osservare che attinge a forme di pensiero decisamente raffinate e stimolanti.

MINDSCAPE (story). Descrizioni e storie di Massimiliano Barachini, in scena con Jacopo Jenna, pone la questione del corpo come punto di vista soggettivo sul proprio sé che, al di là delle questioni sull’identità cui potrebbe far pensare, sembra piuttosto una questione legata al tema della riflessività. Forma dell’osservazione che qualifica l’esperienza teatrale – del teatro inteso come dispositivo al di là dei generi – e la qualità (anche) spettatoriale del performer.

Un aspetto che, durante l’incontro con gli artisti alla fine dello spettacolo, Jacopo Jenna – il doppio-gemello di Barachini – ha sottolineato e messo in relazione al pubblico e alla ricerca costante del “tuning” fra i due performer e gli altri.

Posso iniziare descrivendo me stesso che danza, nel momento in cui inizio a danzare, o anche nel momento in cui inizio a danzare, o anche nel momento in cui immagino me stesso danzare: il modo in cui preparo il mio corpo-mente per fare un’azione, il modo in cui la mia mente reagisce all’azione che faccio, il mio pensiero, il mio sentire, le emozioni, le invenzioni dell’immaginazione.

(Massimiliano Baracchini)

Su questa base la coreografia organica di Barachini è una “macchina creativa” incentrata sull’improvvisazione e sulla performance in una complessa interazione fra i livelli analogico e numerico della comunicazione, cioè fra il corpo e la parola con cui questa coreografia costruisce il suo livello meta comunicativo.

20121117-080540.jpg
(Massimiliano Barachini, Jacopo Jenna e Paola Bianchi del collettivo c_a_p)

Barachini costruisce la sequenza di movimenti descrivendola con le parole, Jenna segue i passi, in accordo con le dinamiche evolutive del genere e il suo sconfinamento nei territori poliedrici e multimediali delle arti performative in genere, e facendolo mettono in crisi la naturale ambiguità dell’immagine. Ma questo – come ha ribadito Barachini – serve per avvicinare lo spettatore, per aiutarlo a capire attraverso la retorica dell’engagement.

In questa accezione della coreografia come “descrizione dell’attimo che muta” nel fluire di parole e movimento, intese a loro volta come “forme diverse di un unico sentire”, si rintraccia il riferimento a Deleuze e Guattari e l’idea del corpo senza organi, campo di forze orientate al desiderio e non organizzato, perciò, almeno in ipotesi, meno bonificabile dalle istanze sovra-individuali della società che ci contiene. In questo senso l’utilizzo di forme e movimenti presi dalle arti marziali e dal tai chi possono essere considerate parte di uno sguardo orientale teso a rappresentare l’elevazione del corpo/mente.

E ancora di prospettive dell’osservazione sembra parlarci Simona Bertozzi che con Bird’s Eye View prepara il terreno al paesaggio ludico di Mimicry, quarto episodio del progetto Homo Ludens.

Qui evidentemente il rimando teorico è agli studi classici sul gioco di Huizinga e ancor più esplicitamente la classificazione dei giochi di Roger Caillois che comprende, oltre la mimicry (ovvero la maschera in cui il giocatore gioca ad essere qualcosa o qualcun altro), l’agon (la competizione), l’alea (la sorte), e l’ilinx (la vertigine).

Lo spettacolo è da intendersi quindi come una “serie di spunti coreografici” che si presenta però come una particolare forma della narrazione che mette in rapporto il corpo con lo spazio a partire dalla metafora del volo e perciò del cambiamento prospettico del punto di vista.

Basta affidarsi al testo di Simona Bertozzi per capire:

Prima l’uccello è nel corpo, nel segno tattile, fragile e maestoso al contempo, degli arti e delle declinazioni del capo. Si erge alla verticalità ma assottiglia il sostegno. Destruttura e disarticola la caduta, scompare ma per risollevarsi in volo.

Poi il punto di vista è aereo. Si vede da lontano. Il corpo si assottiglia. Somiglia alla bidimensionalità di una sagoma. Sono i dettagli circostanti che definiscono il suo perimetro. Suoni, colori. Al posto dell’estrema mobilità, è la proiezione dello sguardo che vorrebbe accogliere più unità e microcosmi possibili.

Bird’s eye view è un volo solitario per necessità visionaria e visiva, ma radente, arioso, ampio e geometrico per desiderio di vicinanza con altri corpi. L’orchestrazione del volo necessita del calore e del sostegno di un paesaggio umano che predisponga le nuove regole del gioco. Che non dubiti della propria follia, che si affascini e si affezioni alla difficoltà gratuita del ludus.

20121117-080725.jpg
(con me Simona Bertozzi e Massimiliano Barachini)

Questo volo – per tornare al racconto di Simona Bertozzi durante l’incontro – si inserisce nel più generale processo di ricerca sul corpo-paesaggio e se la visione aerea è quella che serve a costruire le mappe, allora mappare il corpo e il suo posto nello spazio è il gioco della danza e, si sa, del suo essere una cosa seria.

Deviazioni di danza 1

È iniziata ieri sera al Salone Snaporaz di Cattolica la rassegna di danza contemporanea c_a_p05 deviAZIONI. La direzione artistica del progetto è del [collettivo] c_a_p – noto a questo blog e molto vicino a chi lo scrive – formato da Paola Bianchi, Valentina Buldrini e Chiara Girolomini e nato nel 2009 con l’intento di promuovere e diffondere la cultura della danza contemporanea.

E potrebbero sembrare proprio le deviazioni del corpo e della sua immagine il filo conduttore che lega i due lavori scelti per inaugurare la rassegna.

Con Joseph Alessandro Sciarroni costruisce una drammaturgia dell’osservazione che utilizza la webcam e gli effetti di Photo Booth del Mac per giocare sia con la propria immagine, deformandola e sdoppiandola, sia con i confini dello schermo, mentre le canzoni su cui danzare sono scelte dalla libreria di iTunes. Già da qui la relazione con il pubblico è costruita intorno al dispositivo del guardare dato che Sciarroni dà le spalle sul palco ma è visto di fronte nella proiezione video e così quello che vediamo noi è quello che vede lui, in una dinamica riflessiva garantita dal linguaggio e dalle affordance tecnologiche.

Processo potenziato nella seconda parte della performance dal collegamento online con gli utenti di Chatroulette, sito che mette in contatto visivo uno o più utenti che sono insieme con uno o più partner (sempre insieme) in remoto. Con i rischi che comporta.

Ieri sera, dopo qualche passaggio da un chatter ad un altro, due o tre ragazzi in linea dalla Finlandia hanno accettato di guardare qualcuno che davanti a loro si è travestito da Batman e ha eseguito per loro la sua coreografia fino a svelare “la diretta” teatrale e la presenza del pubblico in sala.

Una forma di engagement dello spettatore quindi, basata sulla costruzione di un’esperienza che senza mai perdere il ritmo e la forma teatrale, fa della realtà dei pubblici connessi una chiave di lettura efficace non solo dello spettacolo ma del mondo in cui viviamo.

(Si vedano ad esempio le recensioni sul sito per approfondire, fra cui Graziani e Tringali).

Un mondo che nella visione di Grazia Capri e del suo Per voce sola, il secondo lavoro in programma, è fatto anche di solitudine, violenza, costrizione. Il che potrebbe farci pensare ad un’altra interpretazione del concetto di deviazione.

Quello di Grazia Capri è uno sguardo prima di tutto al femminile ma è solo un punto di partenza per rendere universale il tema della violenza.

La danzatrice si muove all’interno di un perimetro quadrato, tracciato dal nastro adesivo sul palco, e fra pareti invisibili senza però poterne uscire, nonostante i tentativi: tirarsi su per i capelli, mettersi in verticale…

In definitiva il lavoro definisce al meglio la sua qualità iconografica e visuale grazie all’alternarsi fra il movimento per lo più a terra e con pesanti cadute e le figure statiche prese in prestito dallo yoga per rappresentare i tentativi di auto sollevamento/bootstrap di corpo e mente dalla condizione costrittiva.

Insomma lo schermo frontale, spazio e confine delle azioni di Sciarroni, è “proiettato” sul pavimento che delimita e limita le azioni di Capri in un gioco speculare che sembra legare i due lavori e l’immaginario che li contiene.

Nell’incontro con il pubblico, che la rassegna prevede come “azione” finale per ogni serata, abbiamo potuto dialogare con Paola Bianchi, Alessandro Sciarroni e Grazia Capri sugli spettacoli e sulle curiosità che la dimensione analogica della danza dischiude per forza e perciò sul senso che emerge, fatalmente, in quella relazione magica fra agire dell’artista ed esperire dello spettatore che resta l’elemento fondante di ogni performance.

La danza contemporanea e il suo pubblico. c_a_p 04 CoAzione

Domani al Teatro Rosaspina di Montescudo (RN) parteciperò alla prima delle azioni previste dal [collettivo] c_a_p per il 2012 – c_a_p 04 CoAzione – per ragionare e promuovere, soprattutto a livello locale, la danza contemporanea. In continuità con le iniziative che il collettivo porta avanti dal 2009, cioè da quando si è costituito con le coreografe e danzatrici Paola Bianchi, Valentina Buldrini, Chiara Girolomini e con la fotografa Valentina Bianchi, la giornata di domani sarà l’occasione per presentare i risultati di una piccola survey esplorativa sul pubblico della danza che abbiamo lanciato lo scorso anno durante l’azione c_a_p 02 INAZIONE. Ne ho parlato qui.

Emanuela Conti, docente di marketing e interessata allo studio del marketing dello spettacolo, ed io abbiamo collaborato con il [collettivo] alla messa a punto del questionario e all’analisi dei dati aventi per oggetto lo spettatore teatrale e il suo orientamento nei confronti della danza contemporanea, a partire dall’ipotesi, confermata dai risultati, secondo cui è possibile osservare sul territorio una domanda potenziale di danza contemporanea superiore all’offerta di spettacoli.

Prima dei numeri però ci saranno i corpi e le parole. O meglio la danza di Paola Bianchi con Erbarme Dich e Stefano Questorio con The Angelic Conversation. Prima Conversazione con Derek Jarman cui seguirà l’incontro con i due danzatori, una conversazione sul loro lavoro a partire dalle domande che il pubblico vorrà rivolgergli.

Foto Valentina Bianchi

Il pubblico italiano,diversamente da quello straniero, non è abituato al “dibattito” dopo lo spettacolo. Tuttavia ci si lamenta spesso della difficoltà di comprensione del lavoro artistico contemporaneo, come emerge tra l’altro anche dall’analisi dei commenti liberi previsti nel questionario, che non potendo essere “detto” resta tutto nell’ambiguità dell’immagine. Ovviamente questa è la ricchezza del simbolico artistico al quale abbiamo evidentemente bisogno di potere (e sapere) andare, lasciandoci un po’ prendere dall’esperienza della fruizione che è cognitiva ed emotiva insieme.

I residui del pensiero analitico occidentale, razionale e positivista, sono rintracciabili in una predisposizione culturale dalla quale facciamo fatica a sottrarci e che ci porta ad avvicinarci più agevolmente a un processo drammaturgico narrativo, lineare, verso l’interpretazione di significati che pensiamo essere trasmessi prima che costruiti dall’atto della comprensione. Cioè da noi.

Ecco perché i due artisti non si sottrarranno alle domande del pubblico per dare spiegazioni sulle loro scelte espressive e sul loro lavoro. In accordo con quell’idea di “percorso di visione” che può essere seguito nel sito a sostegno dell’idea secondo cui vedere – nel senso di fare esperienza della performance artistica – è quello che serve per conoscere, per scoprire o alimentare un interesse. Nello stesso tempo attivare una conversazione è il modo per confrontarsi sui contenuti e per potenziare la relazione che nella performance dal vivo fa sempre la differenza.

Un’azione, la prima, per la danza e per l’arte contemporanea. C_A_P02inazione

Cosa ci fanno 16 danzatori “ammassati” su un piccolo ma ospitale palcoscenico di un altrettanto piccolo teatro, il Massari, di una piccolo paese della Romagna, San Giovanni in Marignano, di domenica pomeriggio? Danzano insieme, ognuno  la “sua” performance, si incrociano e quasi si scontrano, realizzando uno spettacolo corale e senza musica, se non quella dei loro movimenti e respiri, per dire una cosa semplice e chiara: mancano gli spazi per la danza contemporanea perché le “nostre” istituzioni sono miopi e disattente.

E’ da qui che è partita l’inziativa di ieri, 21 novembre 2010, ideata e coordinata dal collettivo c_a_p.

Lo scenario è quello della crisi del mondo in cui viviamo e dello stato della cultura italiana, si sa, ma che declinato sul nostro territorio, Rimini in particolare, assume i caratteri di una frustrazione diffusa che riguarda non soltanto gli artisti e gli operatori ma gli spettatori che per seguire teatro, danza, arte contemporanea (con la sua ricchezza e complessità) devono emigrare, sempre o quasi.

E’ da qui che si è partiti per riflettere un po’, loro (gli artisti) e noi (il pubblico e qualche operatore) sulle strategie e le azioni che potrebbero essere messe in campo per provare ad uscire, almeno un po’, da questa impasse.

1. Monitorare il pubblico che già va a teatro sui suoi gusti? Provare a “misurare” l’interesse e la curiosità verso la danza contemporanea così da avere in mano dei “numeri” che convincano gli amministratori? Eppure l’idea della pluralità dell’informazione e della segmentazione dei pubblici, che piace tanto per la TV, dovrebbe riguardare a maggior ragione quelle manifestazioni culturali che potrebbero essere anche di nicchia. Sebbene le realtà dei festival e le buone pratiche di certi luoghi all’estero soprattutto dimostrino che poi tanto di nicchia l’interesse per il contemporaneo non è.

2. Proporre progetti educativi, a base volontaria se proprio non si può fare di meglio, da portare nelle scuole? Non basta che Amici sdogani la danza, o anche quella che ne potrebbe essere una remota idea, per formare degli spettotori attenti. Piuttosto servirebbe spostare l’attitudine abbastanza evidente al “fare” prima che al sapere verso il piacere ritrovato dello stare a guardare.  Non solo workshop allora ma educazione alla spettatorialità al di là del pregiudizio legato all’idea del “dover capire” di matrice razionale (lineare, narrativa) e trasmissiva (tipo emittente-ricevente, stimolo-risposta) che anche i giovani sono costretti a portarsi dietro.

3. La pubblicità non convenzionale ha attinto a mani basse dagli artisti perciò non si offenderà se gli artisti, che il non convenzionale ce l’hanno nel dna, riutilizzano le forme del guerriglia marketing, dell’ambient, del virale per esporre idee, creare incidenti artistici sul territorio “reale” e sul territorio “reale mediale” che, ormai lo sappiamo, supporta e non smonta la irriducibile dimensione dal vivo anche se non è più la fonte unica di fruizione dell’arte e dello spettacolo.

Senza contare inoltre che il cambiamento del senso della posizione nella comunicazione legato alle logiche del web ci abitua a pensarci come generatori di contenuti e a innescare circuiti utili alla diffusione di materiali, notizie, cose da vedere, da leggere, e così via. Utili, se non si fosse ancora capito, anche alla promozione dell’attività spettatoriale.

Intanto si sono formati i nodi di una rete che mi auguro riesca a svilupparsi, cosa che succederà soltanto se la giornata di ieri non sarà una parola vuota.