Spiazzamenti comunicativi. Prove di intervista in Second Life

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Che Second Life sia un luogo di osservazione delle possibilità altrimenti della comunicazione mi sembrava di averlo capito. Ieri sera ancora di più. Ho avuto modo di condurre, termine assolutamente inappropriato come cercherò di spiegare fra poco, un’intervista che – a parte l’oggetto in sé che non è il punto qui, visto che la ricerca non è “mia” – fa molto pensare dal punto di vista metodologico. In vista dell’intervista che avrei dovuto fare stasera ho pensato di entrare in SL per seguire quella programmata con la conduzione di Valentina-Tilde, per vedere dove ci si trova, dove e come si proiettano le immagini per la foto-stimolo, ecc. Volevo anche trovare il profilo del mio intervistato.

Non ho fatto in tempo a connettermi che già mi sono trovata una card con un “ehi prof.” (perché poi?) e il mio contatto in IM. E io che pensavo che toccasse a me farmi viva.

La conversazione è iniziata subito e abbiamo negoziato – questa la dico per lui qualora mi leggesse – sulle modalità dell’incontro. Mi sono accorta che sapeva già delle cose sul mio conto, ho anche temuto che fosse uno studente, un amico sotto mentite spoglie. Macché. Ho dovuto constatare di avere semplicemente a che a fare con un “nativo” e che tutto quello che potevo fare era emularlo un po’. Vedere il suo sito, riguardarmi la sua anagrafica. Almeno ho capito di non conoscerlo di persona. Abbiamo deciso di anticipare l’intervista. Inizialmente voleva tipparmi perché dove si trovava aveva anche da fare, voleva venire accompagnato e alla mia domanda “perché?” ha risposto “perché no?”. Dopo vari scambi di battute, soprattutto sue, e di sfide verbali varie si è convinto. Cavalleria in SL?

Gli snapshot mandati rappresentavano un bel avatar maschio che si aggirava per un’interessante land, ed era questo che mi sarei aspettata. Nel locale adibito per le interviste in unAcademy, mentre stava terminando l’altra intervista, G. è arrivato. 

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Indovinate qual è? Sì, quello nero, poi azzurro, poi rosa. Tutto il tempo Liu ha interagito con Pallina rimbalzina, così si è definito per la serata. Fatto domande ma anche fornito risposte. Aspettato che il suo intervistato facesse domande sul sigaro di Joannes, salutato Deneb, costruito oggetti (uno finito pure sulla testa di Liu con la battuta: “è il peso delle immagini”!). I risultati ci sono. Per la ricerca intendo. Sta di fatto che Pallina ha giocato sulla sua superiore alfabetizzazione alla comunicazione in SL e mi ha messo di fronte: alla possibilità di una relazione fra osservatore e osservato completamente scompaginata. Andrebbe mostrata durante una lezione di metodologia. Ne è uscita una forma dialogica molto più complessa che ha prodotto un suo dominio consensuale, una zona franca su cui comunicare ma che ha chiesto a me di assumere il più delle volte la posizione one-down, per dirla con la pragmatica, e di accettare delle regole che in SL possono essere diverse. Io dovevo fare in modo di proiettare le immagini e invece ci ha pensato lui, anzi ha “riprodotto” lì “in diretta” le cose da vedere (vedete quel pianeta sulla testa di Liu?), io chiedevo a lui del suo viaggio ma poi mi ci voleva portare e far fare a me l’esperienza di cui mi doveva parlare. Frizzi e lazzi non finire. Burlonaggine e prese in giro che mi sembravano bonarie, ma che fatica! Ho pensato che fosse un intervistato reticente, così si dice in questi casi, ma invece – su questo mi hanno fatto riflettere in modo diverso Joannes e Junikiro – si è trattato semplicemente di un intervistato ad altissimo grado di competenza comunicativa in SL (e direi non solo ma qui non c’entra). 

Anche se si tenta spesso di emulare la real life, mi sembra abbia voluto dirmi G., in SL bisogna muoversi e comunicare diversamente, cercare lo spiazzamento. Eggià, perché non mi sono trasformata in pallina anche io?

Violenza contro le donne. C’entra anche l’immaginario

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Laura risponde a Roberta.

Anche perché avevo già deciso che rispetto alla giornata contro la violenza sulle donne non possiamo esimerci da dire qualcosa. Almeno dal dare un segno di presenza. E se il tema non circola fra i blog vorrà dire che non è considerato tema di conversazione. Ma si vedrà.

Se il caso che tratta Roberta mi fa pensare, ancora una volta, alle dinamiche individuate da Pierre Bourdieu e alla ormai classica definizione di Morin, anche questa ultracitata da me, delle donne come elementi barbari della società (il che spiega la condanna delle donne al film, alla regista, ecc.), quello che alimenta la mia idea di violenza sulle donne è legato prevalentemente alle forme (becere) dell’immaginario.

Ad esempio, l’immagine scelta per questo post non è altro che un manifesto affisso l’anno scorso all’entrata della sede dei nostri corsi di laurea a Pesaro che pubblicizza il locale estivo ospitato nel cortile, Il Canto Pirata. Parla anche troppo da sola no?

L’ultima che ho visto (e ritagliato) riguarda una pubblicità di biancheria intima – Christies – in cui una bellissima ragazza viene ripresa di tre quarti in modo da vedere sia il viso che il sedere con perizoma nero infiocchettato, nell’atto così sexy di lavare i piatti in una cucina finto rustico con tanto di guanti di gomma rosa. Sotto il grembiule nero, ovviamente, niente. Qualcuno mi deve spiegare anche il claim: insolite variazioni. Ne avevo già parlato commentando un post molto interessante delle Gatte di Via Plinio, relativo alla campagna contro l’uso (becero) del corpo femminile in pubblicità. Riprende un’idea non nuova, penso ad esempio a una foto sul calendario Pirelli (mi pare) con Eva Erzigova e a tante altre immagini donna angelo sexy del focolare. Come dire: non facciamoci mancare niente!

Insomma io trovo violente queste forme della comunicazione. Chi mi conosce sa che trovo violenti anche gli esiti nefandi dei pantaloni a vita bassa.  

Tempo fa ho avuto modo di lavorare con il prof. Paolo Curci e con l’amico Gian Maria Galeazzi  (Psichiatria delll’Università di Modena e Reggio Emilia) a una ricerca sul fenomeno dello stalking. Da cui sono uscite un paio di pubblicazioni di cui vado fiera. Non tanto per quello che ho fatto ma per aver fatto parte di un gruppo che si è occupato di un tema ancora poco trattato. La legge contro lo stalker è venuta dopo. Io mi sono occupata prevalentemente della parte dedicata al rapporto con i media – dai casi di star-stalking, alla cronaca, al cinema, alla letteratura – potendo osservare come e in che modo il termine stalking cominciasse a entrare nella semantica.

Sta di fatto che le vittime di stalking sono prevalentemente le donne e si tratta di una patologia della relazione. È iniziata anche la serie di film sull’amore violento (quella condotta da Camilla di MTV), c’è lo spot del ministero e va segnalato anche lo spot radiofonico “istruzioni per i signori uomini”.

Insomma il tema c’è, ma i comportamenti?

Non solo Sant’Antonio. Accetto la meme-catena

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Di solito non accetto le catene di Sant’Antonio. Ma questa sì, molto volentieri.

Accetto quindi la sollecitazione di Giovanni. 

Cosa ti ha spinto a creare un blog?

Il primo motivo è la necessità di entrare nelle conversazioni. Poi sperimentare una piattaforma della comunicazione che mi sarebbe potuta essere utile anche per studio e lavoro.  

Il tuo primo post?

Un nuovo inizio. Un post per motivare l’attivazione del blog. 

Il post di cui ti vergogni di più?

Fondamentalmente tutti. Forse Red Flag. Mestruazioni 2.0 per il tema in sé e per le inevitabili declinazioni sul personale. 

Il post di cui sei più fiero

Di nessuno in particolare. Se devo scegliere: Forme becere dell’immaginario, anche, soprattutto, per i commenti.  

Chissà ne può venir fuori qualcosa di interessante da integrare la piccola ricerca che abbiamo iniziato durante il Festival dei Blog a Urbino… 

Nel frattempo io rilancio a Giulia, Valentina, Mae, Elena, Mario.

Forme becere dell’immaginario 3

Io non posso certo considerarmi una nativa mediale però sono consapevole del fatto che ciò che sappiamo del mondo in cui viviamo lo sappiamo dai media e che in quel contesto dobbiamo osservare le forme dell’immaginario collettivo contemporaneo. 

Mi sembra che il dibattito sul rapporto fra media mainstream e non mainstream, con particolare riferimento alla Rete, porti verso posizioni apocalittiche pericolosissime.

Che la Rete sia contesto di produzioni becere dell’immaginario si sa, e se vengono chiariti i termini di questa deriva possibile troviamo letture e interpretazioni più utili nella Rete che fuori. Penso ad alcuni post che ho letto nei media mondo (qui, qui, qui) ma anche qui. So che dall’articolo di Romagnoli, che chi era in treno con me quel venerdì ricorda ancora insieme al mio brontolio, si è innescato il “dibattito”. Potere della ricorsività della comunicazione.  Sta di fatto che la realtà che un certo giornalismo costruisce della Rete non va per niente bene.

Su un altro fronte dell’informazione, quando Venditti dice, da Fazio, che la solitudine c’è in chi sta davanti a Internet usa la sua veste pubblica – associata a un successo che non ho mai capito ma è questione di gusti – per enfatizzare una posizione apocalittica in vista del recupero di una qualche umanità perduta che francamente ha stancato.

Bisogna conoscere le grammatiche della rete, in Internet secondo me si è dentro più che davanti, per esprimere giudizi lapidari e soprattutto non dimenticare che la solitudine è ovunque: dagli anziani soli con le loro bandanti a miliardi di altri casi… Oggi è anche la giornata mondiale per i diritti dell’infanzia. Mi viene da pensare a forme di violenza, sfruttamento, tristezza, squallore che non sono certo nate con la Rete. Ma che anche lì possono essere viste e denunciate. Pensieri semplici, lo so. Cercano soltanto di portare avanti le conversazioni.

Rappresentazioni e informazione. Sguardi dalla TV

Nella puntata di oggi di TV Talk  si è fatto riferimento a un servizio di Studio Aperto che ha mandato in onda una trasmissione della LBC, una tv libanese, dove un imam dispensa alcuni consigli matrimoniali a tre uomini in studio. Il concetto di fondo sembrerebbe questo: siccome la donna è governata dalle emozioni l’uomo deve tenerla a bada. Quando serve picchiarla bisogna stare attenti a non lasciare segni, mai colpire le mani ad esempio. Meglio usare un piccolo bastoncino come quello che l’imam ha mostrato.

Per fortuna il collegamento da Londra con la giornalista di Al Jazeera English  Barbara Serra  mi ha permesso di allargare un po’ lo sguardo. Bisogna tenere conto, diceva, che il Libano è uno dei paesi arabi più liberi, con il 40% di cristiani, e che pertanto la rappresentazione molto stereotipizzata che ne è venuta fuori andrebbe contestualizzata meglio. Per capire insomma da che contesto viene quella specie di talk show – becero – come l’ha trattato Studio Aperto, ecc.

Si festeggia inoltre il primo anno di vita di Al Jazeera English. Canale poco diffuso in America per motivi legati ai provider e per ragioni ovviamente politiche. La giornalista faceva notare che invece Al Jazeera dedica molto spazio al tema della violazione dei diritti delle donne e che produce molti programmi dedicati al sociale.

Su Al Jazeera English ho trovato un post molto interessante su Pandemia. 

Ridondanza e varietà per farsi delle idee delle cose. Dove la verità, si sa, non è il punto centrale della questione.  

Performance sintetiche. Fra esperimento, divertimento, e qualche dubbio

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Sono arrivata in anticipissimo a Odissey. Ho anche assistito (da lontano) alle prove! L’attesa è stata lunga, ma è stata anche un’occasione per procedere con l’osservazione. L’arrivo graduale degli avatar, alcuni strampalati, ha permesso allo spazio della performance di definirsi, con qualche scambio di battute che di solito non succede. Ma, com’è noto, questo spazio si presta bene a tali dinamiche. L’arrivo dei miei compagni di avventura – Joannes Bedrosian e Asian Lednev – è stato rassicurante, come pure altre presenze amiche della SL. In ogni caso i Mattes si sono fatti aspettare, anche se in realtà l’orario è stato rispettato, ma la presenza dei loro avatar ha stimolato qualche domanda, di informazione, senza risposta però.

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Finalmente Pey May saluta tutti, dà il benvenuto e lo spettacolo ha inizio. Sappiamo che rientra nel progetto che gli 01.ORG portano avanti da qualche tempo e che riguarda la riproposizione di alcune importanti performance degli anni ’70. Le chiamerei cover. 

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 1. La prima performance, se non ho capito male, neanche a farlo apposta, è un omaggio a Gilbert & Gorge, le Singing Sculptures sulle note di Underneath the Arch. I due performer eseguono dei movimenti di danza che richiedono un lavoro sulle gesture. Almeno penso sia così. Su un piano rialzato con gli avatar intorno. 

2. Per la seconda performance ci si sposta in una zona costituita da una pedana rialzata. Sentiamo i respiri affannosi che dovrebbero ricordarci, o meglio evocarci, la famosa performance di Vito Acconci in cui si masturbava per ore fino a sfinirsi. 

3. La terza è la riproposizione della celeberrima trovata di Marina Abramovich e Ulay presentata alla Galleria d’arte moderna di Bologna nel 1977. Nudi, appoggiati ai bordi di una porta, così da restringerne notevolmente l’apertura, i performer costringono il pubblico a entrare nello stretto pertugio strisciandosi contro di loro. Una simbologia rituale – il passaggio – abbastanza intuibile insieme alla provocazione. Un breve commento, qualche nota critica che forse dovrò ponderare meglio.

A me l’operazione piace, e penso che il fascino dei due artisti motivi sostanzialmente il credito che un tipo di lavoro come questo può avere. Apprezzo anche l’omaggio dichiarato a grandi personalità del mondo dell’arte e della cultura. Prima di leggere i commenti di Giovanni, sicuramente puntuali dal punto di vista dell’analisi dei linguaggi in gioco, a me viene da chiedermi per ora (a quest’ora tarda) alcune cose.

Prima di tutto se l’oggetto vero sia l’uso di Second Life in sé, ovvero l’abilità di usare gesture ad esempio. Se così è lo accetto. Si tratta di usare i linguaggi in maniera alternativa. Però che ne è della somiglianza di Gilbert & George? La loro poetica che oltre alla ideazione e alla pratica della scultura vivente si caratterizza nei loro vestiti (sobri e uguali), nell’essere due uomini, ecc. Forse è la vendetta di Eva? Finalmente una figura femminile che nella seconda vita entra in un’opera che non la prevede? Il reenacting, che mi fa pensare al concetto di comportamento recuperato, contempla certo delle variazioni, il contributo creativo e innovativo di chi le interpreta però, secondo me, resta troppo poco di ciò a cui dovrebbero rimandare. Del suo senso.

Così come il respiro, per pochi minuti, come può evocarci la presenza di un uomo che si masturba e che si fa del male, con la carica di pathos e vergogna, o quello che è, che può suscitare? Forse qui viene tematizzata la finzione? L’enunciazione di un gesto potente che però non viene eseguito? A meno che non mi sia persa qualcosa.

Nella terza, li vedevo vestiti prima e solo per poco Eva nuda. Magari è colpa della mia connessione. Ma qui la vera performance è stata quella degli avatar e dei tentativi di passare in mezzo a loro. Con tutti i problemi di movimento che ben conosciamo. Mi scuso con Franco Mattes per averlo praticamente aggredito nel tentativo di passare. Poi ce l’ho fatta però!

E ancora la dinamica conversazionale fra gli avatar, le battute nella chat pubblica, e privata, così come l’arrivo al volo di strani figuri che più che interrompere hanno arricchito, anche in chiave ludica, la scena, rivendicando il diritto alla partecipazione attiva che mi sembra sia il punto vincente di SL. Come vero spazio per la performance.

Synthetic Performances

Sono (quasi) pronta per assistere a

EVA AND FRANCO MATTES aka 0100101110101101.ORGSynthetic Performances6:30-8pm (performance begins at 7pm)Artists Space, New York In Second Life at Odyssey – 4 pm (SL time)http://slurl.com/secondlife/Odyssey/35/41/24/?title=Odyssey Spero che la connessione non mi abbandoni e di poter dare un resoconto qui dell’evento.

Gilbert & George. La grande mostra. Piccole note ricordo

Gilbert & Gorge. La grande mostra, al Castello di Rivoli su allestimento ideato dagli stessi artisti è da vedere, se si può, per diversi motivi.

A cominciare ovviamente dalla qualità estetica dei lavori e dalla cifra espressiva che li caratterizza.

Dall’uso del contrasto nero e rosso prima, poi i colori primari. I due nascono scultori, si conoscono infatti nel 1967 alla mitica St. Martin’s, e questa origine è rintracciabile nella raffinatezza iconografica. Lavorano poi con le diverse forme del visivo, a cominciare dalla fotografia, dal collage con le cartoline raccolte, passando per il video, utilizzando prevalentemente il proprio corpo e la propria presenza come materia prima.

In questo si ritrova la qualità strettamente performativa che sta nella messa a nudo delle loro esistenze per certi versi – insomma la vita come opera d’arte – della loro casa di Londra, delle loro ubriacature. Ma più ancora la performance è legata alla loro identità di “sculture viventi”. Pare che durante l’inaugurazione della mostra, durante la conferenza stampa, abbiano smesso di rispondere alle domande per intonare Underneath the Arches, la canzone che cantano come Singing Sculture, per poi riprendere da dove si erano interrotti. Avrei voluto esserci.

Il loro motto è Art for All, una presa di posizione radicale per rivendicare la funzione sociale dell’arte.

Ho letto anche che ai loro esordi hanno messo in vendita, attraverso annunci sul giornale, le loro opere a prezzi irrisori proprio per mettere in pratica questo principio.

E non è neppure un caso che i temi della loro opera identità, sessualità, politica, religione abbiano come centro non solo la loro stessa fragilità ma le fasce marginali della società, e della realtà urbana che hanno rappresentato.

Se potessi chiederei a questi due grandi il motivo di una palese assenza dalla loro opera, dalla loro idea di arte per tutti, dal loro legittimo chiedersi se Gesù fosse di colore o omosessuale, ecc. Chiederei loro di spiegarmi la totale mancanza della figura femminile.In realtà una risposta l’avrei, la ipotizzo. Mi viene da pensare che l’elemento veramente centrale sia l’immaginario omosessuale (maschile), con le sue rivendicazioni che si estendono soltanto ad una parte degli esclusi dimenticandone completamente un’altra. In quel fare un po’ misogino che ho riscontrato spesso.

Nonostante questo, nonostante tutto, penso però che l’opera di Gilbert & George, e i suoi temi, tocchino molto da vicino l’esperienza interiore femminile. Ma si sa la comunicazione produce sempre paradossi. 

Arte e/è comunicazione. Discorsi e qualche discussione che non guastano mai

Ho letto su D di Repubblica che Daniel Richter, uno dei giovani artisti più conosciuti e quotati in Germania, ha passato un fine settimana in incognito a Parigi, confuso fra i pittori che fanno i ritratti ai passanti e ai turisti, per capire quanto sia apprezzata la sua arte fuori dal mercato e dalle gallerie. Pare che abbia guadagnato pochissimo. 

Il trafiletto mi ha fatto tornare in mente la conversazione/discussione che qualche sera fa ha coinvolto me a altri fedeli dell’unAcademy – sì, sempre SL – e che aveva come oggetto la definizione dell’artista. Continuando idelamente quella conversazione, penso che questo esempio possa dimostrare come il sistema sociale dell’arte stabilisca le sue regole, e che il riconoscimento delle sue selezioni motivi all’accettazione della comunicazione. O più semplicemente: fa dire anche a noi quale opera è d’arte o meno e chi sia o meno un artista. 

Aggancerei anche 1. lo spunto di Clinicamente testato relativo al sito dedicato agli artisti dall’alto e dal basso; 2. un altro trafiletto sempre su D che cita il caso di E-Flux, newsletter per la diffusione di arte contemporanea via web che funziona come un monte dei pegni per gli artisti, promuovendone la visibilità. 

Bene. Io vedo in questi esempi una logica che non cambia. Come dire, la legittimazione dell’arte deve trovare delle vie che sono comunicative. Se poi ci sono forme di visibilità che integrano quelle “ufficiali” ben venga, ma temo che ogni artista abbia bisogno prima o poi di rientrarci. E che il pubblico ne abbia bisogno per orientarsi. 

Nulla toglie comunque la specifica ambiguità dell’arte, che è poi la sua ricchezza, sempre sulla soglia fra coscienza e comunicazione. Quindi sempre un po’ (anche) incomunicabile.

Pesce e performance. Piccoli eventi da ricordare

            

Anche a Rimini ogni tanto qualcosa di bello succede. È il caso della mostra delle illustrazioni di Gianluigi Toccafondo alla favola di Emma Dante “Il pesce cambiato”. Bella la favola, belli i disegni. L’inaugurazione è stata l’occasione per una “piccola” performance di Nicoletta Fabbri.

Seduta dietro a un vecchio banco di legno, ha letto a noi tutti, grandi e piccini, la favola. Ha usato, oltre al suo stile, minimi espedienti drammaturgici ma efficaci, del tutto adeguati ai nostri linguaggi e alle nostre abitudini spettatoriali: un megafono per amplificare la voce in certi momenti, una lente di ingrandimento per enfatizzare un particolare della faccia (una volta l’occhio, una volta la bocca “a pesce”) e per proiettarne l’immagine, prodotta in tempo reale da una telecamera digitale, nel muro bianco alle spalle della performer.

Che dire, niente. Poesia, ironia, speranza, vita. Ma anche estetica e qualità visiva.

Tutte quelle cose che la performance artistica quando vuole sa fare molto bene.