Motus engagement. Note su Alexis. Una tragedia greca

In linea con il principio secondo cui la persona dell’anno per il Time è “il manifestante” e più ancora con l’idea che ha portato alla creazione del sito Year in Hashtag – che vede nel citizen journalist un tipo di manifestante che grazie ai dispositivi della rete partecipa (come si capisce bene da qui e da qui) ai “drammi sociali” – così con Alexis. Una tragedia greca (rivisto il 18 dicembre al Novelli di Rimini) Motus si fa a modo suo soggetto manifestante.

E lo fa tenendo fede a quel principio di forma che il teatro come operazione anche estetica richiede. Basato su un lavoro di ricerca sull’Antigone (per le descrizioni puntuali vedere in rete ad esempio qui e qui e, per quanto mi riguarda, due mie passaggi su Motus nella Rivista D’Ars ) lo spettacolo mette insieme il mito con la cronaca dei fatti recenti in Grecia, fatti che hanno avviato la stagione di rivolta che il mondo sta vivendo.

All’interno del frame meta-teatrale con cui gli attori sono portati a riflettere su di sé e sui loro personaggi – Polinice, Creonte, Antigone ovviamente – la dimensione autobiografica si intreccia con il racconto dell’esperienza che ha portato verso uno spettacolo così concepito: il viaggio di Motus in Grecia per incontrare il mito di Antigone finendo per imbattersi nella Storia.

E così il docu-drama diventa un linguaggio necessario, adatto ad un tipo di comunicazione artistica che si avvale dei testimoni – con le video-interviste e con il racconto “in diretta” di una protagonista degli eventi (Alexandra Sarantopoulou) – per costruire la sua realtà e per dire quello che vuole dire.

Più precisamente le interviste, le immagini dei muri di Exarchia tapezzati di sticker (quasi a svolgere la funzione dei giornali), delle prime pagine dedicate al giovane Alexis, degli scontri durante le rivolte entrano nella scena attraverso una videoproiezione che porta dentro il teatro la realtà esterna e perciò la Storia, si diceva, come protagonista.

Allo stesso tempo le immagini realizzate in diretta con l’uso di Photo Booth, ora per ritrarre il pubblico in sala ora per immortalare una scena dello spettacolo, rendono unica la replica, l’essere lì e non altrove e rimandano all’appuntamento fra i corpi e quindi all’idea mai espunta del teatro come presenza – garantita dalla “fisicità” degli attori e dalla loro prestanza atletica – e compresenza con il pubblico.

Alexis però non è teatro civile, d’inchiesta o politico – come mi pare di capire in un articolo interessante – perché quello che è stato non è più e il discorso utopico, che pure anima la poetica di Motus oggi, trova un suo aggancio nello spirito del tempo, nell’accordo fra forma e contenuto (e mi sento di dissentire dalle conclusioni che leggo qui anche se il pezzo è da tenere e rileggere), in collegamento con i bisogni di rappresentazione che la collettività più o meno consapevolmente esprime.

Silvia Calderoni/Antigone prima di chiamare il pubblico a salire sul palco a rappresentare una comunità di indignati che possa diventare una moltitudine, si chiede cosa possano fare gli artisti di fronte ad un momento storico così pesante ma la risposta sta nello spettacolo che come operazione artistica si cala nel tipo di società che la produce non solo per rifletterla ma per dare sostanza a quella forma dell’engagement – e quindi dell’impegno concreto – che passa anche attraverso l’informazione e la sua necessità di farsi sempre differenza che fa differenza.

Padri e figli alla prova… da Shakespeare a She She Pop

Di certo il Testament portato a Spielart Festival di Monaco da She She Pop und ihre Väter è un ironico e puntuale specchio (riflessivo) – nel senso proprio della teoria della performance di Victor Turner – dei nostri tempi. Le componenti della compagnia scelgono infatti di andare in scena con i propri padri e di affrontare di petto la sempre spinosa tematica generazionale.

L’attualità dell’argomento – che ha importanti controprove della necessità di essere elaborato come ad esempio nella ricerca di Motus sulla giovinezza ma anche nel controverso Sul concetto di volto del figlio di Dio di Castellucci – viene indagata a partire dal Re Lear di Shakespeare e dal suo rapporto con le figlie nonché della richiesta paradossale di essere amati in vista di un vantaggio futuro. Ed è quindi su questo pre-testo che si sviluppa lo spettacolo.

Una drammaturgia che si affida ai “veri” rapporti in accordo con quell’orientamento a suo modo realista che ritroviamo in parte della ricerca teatrale contemporanea più interessante e che qui viene composta in modo da realizzare un vivace scambio di battute e di ruoli in cui le coppie padre-figlia duettano, sulle note di un classico pop come Something Stupid che fa da filo conduttore, oppure tutti insieme cantano e ballano mentre l’apparato video, con le telecamere digitali in scena per la costruzione in diretta delle immagini, permette di seguire una scena dinamica e adatta allo sguardo in movimento dello spettatore contemporaneo.

Gli spettatori generazionalmente vicini ai performer, e magari quei figli adulti che, come me, sono molto legati al proprio padre anche in modo a volte un po’ conflittuale, avranno potuto sperimentare un particolare versante del distaccamento fra il vissuto e il rappresentato che il dispositivo teatrale, e più in generale quello dei media dell’intrattenimento, mette in atto. Avranno cioè potuto applicare il meccanismo riflessivo in maniera “sentimentale” e calibrare su di sè quanto sentirsi coinvolti o distaccati.

La favola queer di Timi per un immaginario che non vuole immagini

Ammicca al pubblico femminile il queer Filippo Timi di Favola (ieri sera al Teatro Novelli di Rimini). Paragonato a certi personaggi di Almodovar e al famoso interprete en travesti Copi, ma ci vederei tanto bene anche Paolo Poli, il personaggio di Mrs Fairytale – un nome che è già una didascalia – interpretato dallo stesso Timi, autore e regista dello spettacolo, sta tutto in quell’immaginario omosessuale che apparentemente ride di sé e delle sue rappresentazioni stereotipate (da leggere una recensione molto puntuale qui).

Ridiamo oltre che per la vis comica di Timi – espressa sapientemente da certe uscite dal personaggio che non vengono lesinate – per quel senso di vago disagio e di piacere che l’ambiguità mai del tutto risolta simbolicamente porta con sè.

Con l’appoggio dei comprimari Lucia Mascino – l’amica Mrs Emerdale – e Luca Pignagnoli (che interpreta i 3 fratelli gemelli vicini di casa della protagonista) – Timi racconta una storia che, al di là del suo sviluppo narrativo che vuole svelare la verità dietro alle apparenze, si esprime al meglio nella sua dimensione visiva ed estetica.

L’immaginario televisivo è la vera cifra espressiva dello spettacolo e sarebbe, per me, anche il suo punto di forza se ce ne fosse maggiore consapevolezza. I linguaggi del Carosello e delle pubblicità degli anni 50′ e ’60 (esplicitamente evocata dagli stacchi video dello spettacolo) sono rintracciabili nelle scene/scenette – qui un po’ troppo sopra le righe per i miei gusti – che strutturano la storia così come la scenografia e i bei costumi Miu Miu rimandano alle serie televisive ambientate nei contesti domestici di quegli anni non ultima, ovviamente, Mad Men. Senza dimenticare l’insieme degli ingredienti, dalla colonna sonora agli UFO, che riempiono la messa in scena nel suo complesso.

(per questa immagine e per la precedente qui)

Finito lo spettacolo – che si prende molti applausi a scena aperta – Timi (accompagnato dai suoi attori) torna sul palco per esortare – con modalità ed espressioni ironiche ma “minacciose” alla Franken Furter – il pubblico a non pubblicare foto immagini su Facebook e su Internet in generale. Mi viene da pensare che allora non dovremmo neanche scriverne e lasciare che il sostanziale anacronismo della performance ne rimanga la sua caratteristica principale.

La storia evolutiva della comunicazione e dei media ha dimostrato che un medium non sostituisce un altro medium e che la comunicazione per immagini alimenta l’immaginario, appunto, e il desiderio. Anche di teatro oltre che di divi.

Il gioco relazionale della rappresentazione nel Nowness Mystery di Cuquí Jerez. Spielart 2011.

Con The Nowness Mystery Spielart 2 dicembre 2011 – Cuquí Jerez, con la complicità delle scanzonate Maria Jerez, sua sorella, e Amalia Fernández, interroga i limiti della rappresentazione, il rapporto fra performer e spettatori e in definitiva, coerentemente con un percorso di ricerca che fa da filo rosso a molta della produzione contemporanea, i livelli di realtà che stanno in rapporto dialettico (dentro/fuori) con la finzione.

La piéce si compone come un montaggio di sketch in cui le due attrici in scena improvvisano situazioni banali e giocherellone che vengono collegate senza soluzione di continuità nel tempo previsto e cronometrato dall’inizio dalla stessa Cuquí.

An experiment. A work based on the experience of the present. The void of the present as a space for opportunity and a spece for failure (Cuquí Jerez, foglio di sala).

Ed è lei che da un angolo fuori dalla scena – ma a ben vedere presente e protagonista alla maniera di Tadeusz Kantor – trascrive sul portatile, collegato al proiettore che permette di leggere sullo schermo, commenti sulla resa o meno delle “trovate”, per dirla con Barthes, delle due attrici oppure battute e pensieri che rivolge direttamente agli spettatori.

Nell’andamento dello spettacolo –  processo dinamico fatto di comportamenti recuperati e di spunti improvvisati – c’è la consapevolezza del funzionamento dell’intrattenimento come meccanismo drammaturgico che deve portare da qualche parte, ma senza essere narrativo, verso la conclusione di una “scenetta” da collegare a quella successiva finché il tempo a disposizione lo permette.

Il senso ultimo del Nowness Mystery sembra poi stare tutto in quelle note di regia e in quei flussi di pensiero condivisi in nome del processo comunicativo e ralazionale con gli spettatori. Nella creazione di un evento che, pensato e realizzato così, non può che essere unico e irripetibile, frutto della dinamica comunicativa e del dominio consensuale creato qui ed ora in quella realtà misteriosa e senza tempo del teatro e del suo immaginario.

La solitudine cannibale di Babilonia Teatri. Note su Pop Star

Che il teatro abbia un rapporto privilegiato con la letteratura è possibile osservarlo non solo quando un testo, non necessariamente nato per il teatro, diventa pretesto della messa in scena ma quando, come mi pare in questo caso, è uno stile di scrittura – la sua forma ma anche i suoi contenuti – ad essere tradotto in linguaggio dramaturgico.

Pop Star di Babilonia Teatri, visto ieri a Ravenna nell’ambito di Nobodaddy (rassegna curata dal Teatro delle Albe e che merita di essere seguita), è un testo cannibale degno di certi scritti e di certi autori, mi viene in mente Ammaniti, che hanno raccontato il nord-est italiano e rappresentato un certo tipo di scenario fosco.

In quel modo serratissimo di proferire parole in veneto che caratterizza il modo di Babilonia – stavolta differenziato sui tre personaggi in scena, ognuno in piedi nella sua bara, per distinguerne i caratteri e la parte di vicenda che li riguarda, come spiega bene Carlotta Tringali – si sviluppa un racconto violento e tragico spezzato da momenti di decompressione, ad esempio con il ballo (momento esilarante dello spettacolo).

Una modalità di “stacco”, che spesso aggiunge un momento di intrattenimento, rintracciabile mi sembra in buona parte della scena contempoaranea in cerca di quello straniamento per via delle interruzioni e dello shock (attraverso le song, le didascalie, ecc. del teatro epico brechtiano spiegato da Benjamin) che ricordano allo spettatore di essere a teatro.

Non è quindi un caso che i tre, proprio nel momento in cui muoiono, si ritrovino a pensare a Laura Pausini quando vinceva San Remo con La solitudine.

E così una canzone e un evento televisivo che più pop non si potrebbe fanno da colonna sonora ad un’altra rappresentazione della morte, fra surrealtà e ironia nella cornice dell’industria culturale che generazionalmente condividiamo. Tema, quello della morte, che fa da sfondo alla ricerca di Babilonia e delle produzioni dell’immaginario impegnate da sempre ad attivarne almeno l’esorcismo simbolico.

Il video amatoriale va in scena e sono risate amare. Zachary Oberzan a Spielart con Your Brother, Remember?

Your brother, remember? è la frase del film Kickboxer con Jean-Paul Van Damme che dà il titolo del lavoro di Zachary Oberzan visto al Spielart Festival il 2 dicembre scorso (qui la pagina dedicata nel programma).

Al di là della citazione però questo titolo fornisce anche la cornice entro cui inserire uno spettacolo costruito come un racconto biografico attraverso una drammaturgia stratificata basata sul re-enactment e sull’estetica del video amatoriale.

In scena Oberzan – con canzoni, gesti e discorsi che metteremo insieme via via che la performance si definisce – ci porta nello scenario domestico e nell’immaginario pop di due fratelli prima adolescenti e poi, vent’anni dopo, adulti che riproducono “in casa” le scene di un film blockbuster e  di uno snuff movie di culto come Faces of Death.

(Da leggere anche qui, qui e qui).

Si tratta in definitiva di un doppio re-enactment – i due fratelli adolescenti che re-interpretano i film e, vent’anni dopo, i due fratelli adulti e cambiati che re-interpretano loro stessi che re-interpretano i film – e pertanto di un lavoro sul tempo. Il tempo della performance che viene a coincidere con il tempo biografico e il diverso destino di Zack e Gator, attore uno, con problemi di droga e con l’esperienza della prigione l’altro.

La logica mediale dello spettacolo è da cogliere nell’insieme di video amatoriale, re-enactment e scene dei film originali; di video-interviste (al fratello Gator come pure un’intervista di Van Damme) e di perfomance live dove memoria e immaginario mediale passano dai film ad una hit come Video Killed the Radio Star con il testo riveduto e corretto.

Il tutto in funzione di una messa in scena a tratti esilarante in cui però si dispiega la relazione fra i due fratelli e della loro vicenda umana, in fatale e amara similitudine con la trama di Kickboxer.

A ben vedere poi è sul rapporto fra realtà e finzione e conseguentemente sui piani della rappresentazione che indaga la performance, oltre e al di là della catarsi o del lavoro di lutto che Oberzan compie per vendicare simbolicamente il fratello “finito male”.