Regimi notturni. Rituali, corpi e comunità a #Sant16

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Natten © Luca Ghedin

Con Natten di Mårten Spångberg si è conclusa la quarantaseiesima edizione del Festival Internazionale del Teatro in Piazza di Santarcangelo.

Uno spettacolo lungo una notte intera che ha accolto gli spettatori nella palestra ITIS Molari allestita con panni e coperte. Una grande stanza onirica dove si poteva dormire, entrare e uscire mentre i danzatori compivano i loro gesti minimali. Inizio da qui perché questo lavoro può essere considerato il punto di arrivo di un festival che ha avuto una linea guida precisa, un tema forte e chiaro con una serie di aperture potentissime sul piano del simbolico e del senso, che qui intendo sempre come la forma umana di elaborazione dell’esperienza.

Il tema è quello della notte che apre all’immaginario del sonno e del sogno, al tempo come dimensione sospesa e di passaggio, affine ai territori del rituale. Zona liminale in cui realtà e finzione collassano, dove una comunità temporanea si stringe, sta insieme per un po’, si fa compagnia in attesa del giorno. In questo senso si può rintracciare in Natten il senso di un’operazione che trascende la coreografia – che pure c’è – per lavorare su un tempo dilatato che attiva il corpo dello spettatore, di colui che abita quello spazio e dove il tempo può essere colto per quello che è: una variabile percettiva. Dove la percezione è il luogo in cui l’arte come comunicazione incontra l’incomunicabile ovvero la soggettività dell’essere corpo.

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BoleroEffect © diane-ilariascarpa-lucatelleschi

Nella prospettiva del corpo può essere colto anche il BoleroEffect di Cristina Krystal Rizzo che con Annamaria Ajmone, grazie alla musica di Palm Wine e alla costruzione musicale e coreografica per ripetizione, muove il desiderio della danza che è primordiale e ci appartiene. Ma qui ci viene detto che la danza è anche una forma dell’intrattenimento che permette di attingere all’efficacia perduta, ma non per questo meno necessaria, dei rituali antichi. Luogo ideale di quelle performance che Turner chiama liminoidi e in cui il transito, il passaggio, la trasformazione possono avvenire al di là dell’obbligatorietà normativa, nei territori dello svago e del tempo libero.

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Ritual #12 DAI © GBA

Nel collasso di efficacia e intrattenimento, fra dimensione spettacolare – da vedere – e partecipativa si colloca Ritual #12 DAI, ulteriore fase del progetto AZDORA, avviato lo scorso anno da Markus Öhrn. Come una collettività testimone dell’epifania di un mistero gli spettatori sono saliti sui pullman e accompagnati bendati in un luogo che tanto segreto non era ma non importa. Nel cortile di Villa Torlonia su di un’alta impalcatura costruita per piani in cui si è svolto il concerto noise delle Azdore con Stefania ? Alos Pedretti, Öhrn e Jakob Öhrman seguito dai dj set di DJ Trinity e Mara Oscar Cassiani. Il momento oscuro e potente del concerto è così sfumato nella festa CRUDE di Motus e Markus Öhrn, perché in fondo le due cose stanno insieme, nella danza collettiva di un popolo – qui anche giovanissimo – che si è radunato intorno a un totem, l’impalcatura dell’uomo nuovo che fa pensare al Frankenstein del Living Theatre, che forse si può evocare senza troppe forzature. La festa proseguiva in uno spazio interno della Villa dove il dj set di Silvia Calderoni faceva da sfondo alle cavalcate (e ovviamente alle esilaranti cadute) su un toro meccanico… Ecco la “prova”, altro elemento del rituale, sotto l’apparenza del gioco. E infine il dono. Ogni partecipante ha ricevuto il vinile Azdora, oggetto simbolico dello scambio e della relazione.

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L’invincibile © diane-ilariascarpa-lucatelleschi

La prova, in forma di sfida ma anche la riunione di un collettivo intorno a un “palo di fiori” è il fulcro di L’invincibile. Ascesa all’Olimpo di Zapruder Filmmakersgroup. Spin-off performativo di Ascesa all’Olimpo, episodio del ciclo filmico L’invincibile dedicato alle fatiche di Ercole.

Ci sono 3 squadre formate da 4 persone ciascuna, che si fronteggiano per salire su una pertica di 16 metri coperta di grasso con a disposizione un tempo limitato per ogni tentativo. Il pubblico intorno segue la gara, fa il tifo, aspetta che ce la facciano. Ma soprattutto vede il mito universale incontrare la tradizione popolare locale dell’albero della cuccagna. La salita si fa metafora di quello spazio di mezzo – liminale – in cui si è contemporaneamente in contatto con l’inizio e con la fine, dove la natura celeste e terrena di Ercole si incontrano.

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Lumen © diane-ilariascarpa-lucatelleschi

Nella scia di questo e di altri momenti del festival, non si può che tornare a Lumen, evento di Luigi De Angelis e Emanuele Wiltsch Barberio che ha aperto ufficialmente il Festival.

Nello spazio aperto dello Sferisterio – poi riproposto in altri luoghi di Santarcangelo – un’enorme pira di fuoco – di Giorgio Andreotta Calò – è stata il centro di un rito inaugurale in cui la forza naturale del fuoco è trasmigrata nelle sonorità elettroniche di Barberio che sostanziano la ricerca antropologica di De Angelis sulla musica sciamanica e la trance. Ancora una volta è il corpo a essere attivato – proprio là dove l’elettronica incontra le pratiche ancestrali – e a mettere in moto una collettività, predisporla a quello che avverrà nei giorni a venire.

Ma qui ci viene anche ricordato che il movente dell’immaginario, il cuore di ogni performance, è sempre il mistero della vita che si accompagna al mistero della morte. Lumen inizia con un battito di cuore che viene amplificato (nelle tre sere hanno battuto per noi anche i grandi cuori di Chiara Lagani e Cristina Rizzo) ed è questo battito che Silvia Bottiroli, direttrice artistica del Festival, ha dedicato a Sandra Angelini. Anima diurna che non ha mai disdegnato la notte.

(continua)

 

 

Madri e figli mediali. The rite of Spring secondo She She Pop

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Con The Rite of Spring – visto il 4 settembre a Short Theatre 10 – la compagnia tedesca She She Pop fornisce un ulteriore esempio di quel teatro riflessivo che sa miscelare l’aggancio al reale e alla meta-teatralità con la dimensione drammaturgica e finzionale. Ci troviamo perciò di fronte ad una particolare declinazione del principio del raddoppiamento di realtà in cui i piani della rappresentazione non solo sono compresenti, dato che a teatro è sempre così, ma espliciti e visibili contemporaneamente.

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Dopo Testament, in cui venivano coinvolti dal vivo i padri dei membri della compagnia, questa volta tocca alle 4 madri (dei 4 performer) presenti in immagine video e in forma “accresciuta”: le figure proiettate sui 4 teli-schermo che compongono la scena sovrastano, per dimensione fisica e simbolica, quelle dei figli ricordandoci che la madre continua ad essere un archetipo potente, ambivalente e complesso, originario e arcaico.

E così mentre il pre-testo del lavoro con i padri è il Re Lear di Shakespeare, che indaga il rapporto fra un padre e le figlie in nome di una sempre e comunque incomunicabile sincerità, qui la base di partenza è Le Sacre du printemps tradotto in rite (rito) coerentemente con il significato etimologico del termine francese “sacre”. Il contesto del rituale e del sacrificio diventano per She She Pop l’occasione per cogliere la continuità, e allo stesso tempo lo scarto, fra una pratica che per gli antichi era fondamentale per la solidarietà collettiva e le forme del sacrificio “moderno” legate al mondo femminile e al rapporto della donna con la famiglia e con la società.

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Le madri coinvolte in questo progetto – chi in maniera più timida e riluttante, chi più sfacciatamente – raccontano stralci della loro biografia, delle scelte compiute, delle rinunce e delle rivendicazioni in un continuum narrativo, con la visione dei figli che dicono la loro, che mettono a tema la loro visione della loro madre e del loro rapporto con lei, reso visibile da un grosso cordone che delimita lo spazio – sacro – dell’azione e segna il legame fra le immagini e i corpi in scena, fra madri e figli, attori e spettatori.

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La drammaturgia è costruita attraverso il richiamo – annunciato dai cartelli che riportano il titolo dei capitoli che compongono La Sagra (Danze primaverili, Gioco delle tribù rivali, ecc.) – dove la musica di Igor’ Stravinskij, anche “cantata” dagli attori, e la coreografia di Vaclav Nižinskij vengono evocati e ripresi in una sorta di re-enactment non privo di quel misto di ironia, poesia, ricerca estetica che caratterizza il lavoro della compagnia.

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Ma è sul piano mediologico e dell’architettura visiva che il lavoro esprime il suo punto di forza. Intanto perché le immagini delle madri proiettate sui teli-schermo hanno la forza di una fantasmagoria ad alta definizione che permette di percepire il peso della corporeità e poi perché l’interazione fra corpi in scena e corpi tele-presenti dà forma e rende visibili il processo di virtualizzazione e la connotazione performativa dell’immaginario.

Virtualizzazione dei corpi prima di tutto: le madri sono presenti in altri tempi, modi e luoghi; i performer interagiscono con le immagini facendosi essi stessi immagine che si fonde, confonde, mimetizza con quella della propria madre. Gli attori entrano ed escono dalla quinta formata dai 4 teli-schermo così da essere contemporaneamente presenza fisica e concreta e tele-presenza in una costante ricerca delle possibilità altrimenti del qui e ora. Riuscitissimo in questo senso anche il gioco con le coperte che vengono passate di mano in mano, di schermo in schermo per delimitare ambienti o usate come costumi, sia dalle madri, sia dagli attori.

In The Rite of Spring l’esperienza delle immagini è data come esperienza delle immagini attraverso i corpi, come immaginario performativo, ricordandoci che il vedere è sempre azione incarnata.

Coming out. Ho guardato Sanremo e ho pure votato

Ieri sera sono stata bonariamente ripresa per aver reso visibile, su Facebook ma anche su Twitter (riaperto per l’occasione), il fatto che stessi guardando Sanremo e partecipando, su opensanremo, alle votazioni ufficiose, ai commenti vari, ecc.

L’obiezione che mi ha colpito di più riguarda la contraddizione rinvenibile in un comportamento del genere da parte di una, che sarei io, che ha appena partecipato alla manifestazione Se non ora quando e che nel suo piccolo protesta contro le derive dell’immaginario femminile, e sulla condizione della donna in genere, con le cose che scrive e che dice.

Mi si è detto anche che alimentando la comunicazione attorno ad un fenomeno di cultura bassa come quello contribuisco ad accrescerne la legittimità. Evidentemente dobbiamo pensare che con un 48,6% di share siamo in molti ad essere dei facilotti e che ci fa comapagnia  uno come Battiato, che non mi sembra benevolo nei confronti della nostra povera patria

A rischio di far pensare che conosca soltanto Morin, e peggio pure soltanto Lo spirito del tempo, mi trovo a chiamarlo ancora una volta in causa per fare un po’ mia la lucidità con cui ha affermato che la così detta cultura bassa, i suoi prodotti, sono parte fondamentale del patrimonio simbolico che abbiamo a disposizione. Anche se Sanremo non esprime certo l’anima più sperimentale della cultura pop, nel senso identificato da Bolelli in Cartesio non balla, ad esempio, è pur vero che siamo dentro un ingranaggio culturale sintonizzato con il mondo in cui vivamo. E per me è interessante, non necessariamente divertente né tantomeno bello. Quest’anno poi il meccanismo partecipativo merita di essere osservato etnograficamente, cioè da dentro, da chi consideri le derive evolutive della comunicazione mediale e tecnologica un suo campo di studio.

Ed è proprio una come me che può notare sì l’inadeguatezza di due donne bellissime a tenere la scena ma di constatare anche di come vengano presentate ironicamente come “le artiste” dai comprimari maschi, vestite da trombone da stilisti tromboni ma tuttavia senza, almeno mi è parso, puntare sull’elemento sexy a tutti costi (insomma, sarebbero dovute sembrare eleganti). Ma anche i campi estetici e la bellezza femminile, insieme all’eroe comico, al divo dimezzato, fanno parte dei criteri di funzionamento dell’industria culturale e vedere come funzionino ancora può avere un significato.

E ce l’ha, questo significato, se pensiamo a come alcuni dei nostri maestri si siano sporcati le mani nel pop, e nella televisione, per comprendere meglio il transito dalle fasi liminali, di passaggio, come può essere stato il sessantotto, ai processi liminoidi che rimandano al bisogno dei rituali senza averne gli stessi contenuti. Sarà un caso se per Victor Turner un testo fondamentale per gli uomini del Libro, così li chiama Turner, sia Copioni da quattro soldi di Pandolfi? Nel 1958 quel libro analizzava il percorso che dai rituali ha portato ai palcoscenici fino a Lascia o raddoppia e svelava i meccanismi che dalle forme spettacolari basate su un avvenimento culturale riconosciuto collettivamente si fosse passati alla possibilità di essere protagonisti, anche senza averne le capacità. Il discorso sarebbe più ampio naturalmente e rimando all’introduzione a Turner di Stefano De Matteis. Qui dico solo che se questi autori non si fossero invischiati un po’ certe cose non avrebbero potuto dirle.

Un’altra critica al pubblico connesso: si guarda Sanremo soltanto per potersi lamentare sui Social Network. E mi viene da rispondere: era ora! Un tempo si faceva un gran casino nei teatri e nei varietà, il pubblico dal vivo interrompeva la scena per garantirsi la sua visibilità. Noi siamo un pubblico televisivo, quello che fa fatica anche a stare zitto al cinema, e lamentarci è un nostro diritto tanto più se è condiviso con altri, anche sconosciuti, con i quali si scoprono divertenti affinità, di cui si apprezza la vena ironica, ecc., tanto più senza dare fastidio a nessuno visto che ce ne stiamo a casa nostra. E’ a suo modo un processo catartico, perché dovremmo rinunciarvi?

Riti di Pasqua. Gesù, Zeffirelli e l’immaginario

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Cerca che ti cerca ho potuto contare sul canale Rai del digitale terrestre per rivedere, come tutti gli anni, il Gesù di Nazareth di Zeffirelli, senza qualche fotogramma del quale la Pasqua non mi sarebbe sembrata tale. C’è poco da fare, dagli anni ’70 quella mini-serie, che ha segnato una sorta di spartiacque rispetto al kolossal, riesce a soddisfare l’iconografia estetica dell’immaginario cattolico-occidentale. Perciò è irresistibile.

Gli occhi azzurri di Robert Powell e il cast internazionale (Michel York, Anne Bancroft, Ernest Borgnine, Cristopher Plummer, Claudia Cardinale, Valentina Cortese, Rod Steiger, Renato Rascel, James Farentino e altri), nonché la colonna sonora di Maurice Jarre contribuiscono alla messa a punto di uno scenario cinematografico regalato alla tv e sono forse questi gli elementi che hanno prodotto la ritualità. Almeno per me.

Completa il quadro Olivia Hussey nella parte della Madonna, indimenticabile Giulietta – a proposito di altri riti e del mito dell’amore eterno – del Romeo e Giulietta del 1969. Film in programmazione nel cinema in cui entrano ed escono Giulian (Walter Matthau) e Toni (Goldie Hawn) nel sempre di culto Fiore di cactus. Per quelli aspettiamo Natale.

Magnitudini della performance

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Magnitudini della performance è un saggio che dà anche il titolo a un volume di Richard Schechner. Riprendo questo titolo per ribadire l’esistenza di un filo rosso, sempre in evoluzione, fra una serie di eventi della comunicazione che si definiscono solo e soltanto nella relazione fra partecipanti co-produttivi, co-implicati. La logica è quella della comunicazione “dal vivo” in un senso ben più complesso del semplice faccia a faccia.

Ci pensavo in relazione alla performance Prophecy and Poetry in Second Life, grazie a Roxelo, e andando a vedere i lavori di Gazira Babeli. Passando per l’incontro con Moni Ovadia a Scienze della Comunicazione a Urbino e alla sua lezione sul teatro, rito laico, su Brecht in particolare e sul rapporto con il pubblico. E ancora Anna Karenina di Nekrosius, a Bologna. Lì mi veniva in mente anche Barthes e i miti dei giovane teatro: la fatica dell’attore, il suo sudore come piacere ultimo per lo spettatore. Ma che dire della fatica anche fisica dello spettatore impegnato per 4 ore e mezza a seguire lo spettacolo? E ancora la lezione sulle culture partecipative in unAcademy. La lezione, performance in sè, con avatar super-attivi e competenti a parlare delle forme performative che sono centrali nei media convergenti. E forse tutto questo c’entra anche con il dibattito che troviamo qui  (ma per chi ha un avatar anche qui) e che riguarda i giovani e le forme di auto-rappresentazione.

Insomma contenuti e forme: magnitudini della performance.