The Kreisky Test: per un teatro immersivo, interattivo e live ovvero il collettivo Nesterval al tempo del Covid-19 #visionidalmioschermo

ph Rita Brandneulinger

SPOILER ALERT

Per la serie #visionidalmioschermo Francesca Giuliani racconta e analizza lo spettacolo The Kreisky Test del collettivo Nesterval nella versione online programmata da Brut Wien  all’interno di Be SpectACTive! con Kilowatt co-produttore e capofila del progetto. Un’occasione per continuare a mappare le forme liveness del teatro online per pubblici connessi.

Oltre i confini dello spazio teatrale: la ricerca del collettivo Nesterval

Nesterval è un collettivo di artisti, che ha sede a Vienna, e fin dalle sue origini nel 2011 lavora sul mescolamento delle identità e delle culture, attingendo ampiamente sia dalla cultura cosiddetta “alta” sia da quella popolare, facendo in particolar modo riferimento al mondo del gaming e alla storia socio-culturale del proprio paese. L’origine del nome viene fatta risalire alla saga della leggendaria famiglia Nesterval, una finta dinastia tedesco-austriaca che risale al XVI secolo. La storia di questa famiglia è sempre stata connessa ai mondi narrativi creati negli anni dalla compagnia che attraverso questa genealogia immaginaria crea dispositivi immersivi in cui lo spettatore è parte fondamentale del gioco drammaturgico.

Anche il progetto Goodbye Kreisky, del quale The Kreisky Test è uno dei tasselli, coniuga vicende personali della famiglia Nesterval alla vicenda pubblica e politica della Vienna degli anni a cavallo tra ’60 e ’70. L’innesco drammaturgico sta nella figura di Jonas Nesterval che, ossessionato fin dall’infanzia dalla prematura scomparsa della madre, mancata quando lui aveva quattro anni, inizia a cercarla. Non sa niente di lei finché, dopo decenni dalla morte del padre, trova dei documenti, scritti e filmati d’epoca che suggeriscono che la madre ebbe un ruolo importante all’interno della cerchia di uno dei politici più influenti dell’Austria, Bruno Kreisky, che governò per molti anni il paese attuando importanti riforme politiche. Sembra che Gertrud Nesterval fosse in contatto con attivisti socialisti di tutta Europa e stesse segretamente lavorando a un progetto rivoluzionario, che mirava a fondare un’utopica comunità socialista, rifugio per un gruppo di eletti che avrebbero dovuto salvare il mondo. Il test di Kreisky era il processo che avrebbe portato alla selezione dei candidati, ma non venne mai portato a termine. Oggi, grazie al supporto del fondo Nesterval – appunto un finto fondo legato alla finta famiglia – il figlio Jonas trova il modo di portare avanti il progetto. Questo è l’innesco drammaturgico. A poche settimane dal debutto previsto a metà aprile il collettivo Nesterval e il suo regista Herr Finnland si sono però trovati, come tutti, bloccati ognuno nelle proprie case a causa del lockdown. La compagnia che da sempre lavora fuori dagli spazi teatrali creando dispositivi immersivi ha deciso di trasferirsi sul web. La rilocazione della performance dall’ambiente offline a quello online ha cambiato in parte le regole del gioco ma la nuova spazializzazione ha mantenuto in vita l’esperienza condivisa e partecipativa dello spettatore. Anzi proprio grazie all’utilizzo dei media digitali l’esperimento ha fatto sì che si innescassero nuove chiavi drammaturgiche per la narrazione e nuovi orizzonti di coinvolgimento interattivo grazie all’utilizzo di Zoom, la piattaforma di videoconferenze oggi tra le più utilizzate. La stessa struttura della piattaforma, che si può sviluppare attraverso più stanze, ben si è adattata ai dispositivi scenici che il collettivo normalmente crea: le performance, infatti, si sviluppano attraverso spazi all’aperto o al chiuso, all’interno dei quali ci sono diverse stanze che ospitano diverse storie e personaggi e nel loro attraversamento si sviluppa la narrazione.

ph Lorenz Tröbinger

Dentro i livelli di The Kreisky Test: chi sceglie chi?

Appuntamento quindici minuti prima dell’inizio. Si accede a Zoom e si entra nella prima delle varie “virtual room” che si attraverseranno nei circa 90 minuti di spettacolo. In questo foyer virtuale c’è la musica e ogni persona che arriva viene accolta da una voce che chiede nome e provenienza dei partecipanti che via via si aggiungono all’incontro – ed è inevitabile non notare come si sia insieme, un pubblico che può dialogare in una stessa stanza mentre i corpi sono in parti del mondo lontanissime. Nell’attesa ci si presenta fra gli astanti e il gioco è già iniziato. Di lì a poco la prima room si chiude e si riapre una stanza comune dove sono aperte tante finestre quanti sono gli spettatori e gli attori. Tutti insieme sullo stesso palcoscenico virtuale giocheranno allo svolgimento di un gioco che avrà regole ben precise.

A fare da trait d’union tra la situazione di vita dello spettatore e la performance, innescando un maggior coinvolgimento con la messa in scena, c’è la stessa odierna ambientazione di reclusione: Jonas Nesterval ha deciso di portare avanti il test di Kreisky proprio in questo momento di isolamento perché la pandemia e la reclusione forzata hanno, da una parte, incentivato alla partecipazione gli spettatori chiusi nelle loro case e, dall’altra, hanno facilitato il reclutamento: grazie alla diffusione del web l’équipe potrà sondare il terreno non solo a livello nazionale, ma anche a livello mondiale.

ph Lorenz Tröbinger

Ci sono quattro squadre, ognuna composta da due attori, e sono ordinate per colore – rosso, bianco, grigio e nero – e provenienza – tanti paesi quanti i luoghi di residenza creativa attraversati: a Sansepolcro, Santander, Novi Sad, e Vienna; gli otto candidati sono rinchiusi in questa sorta di esperimento-test da tanti giorni quanti quelli del lockdown. A ogni spettatore vengono consegnate tre monete virtuali da usare al momento della votazione dei candidati durante le sei fasi. Ogni livello una stanza. Ogni stanza un incontro. Fino allo “scontro” finale. Otto attori, sedici spettatori e quattro voci. Gli spettatori sono i tester, gli attori sono i candidati, le voci che guidano e controllano il gioco sono le analisys. In una sorta di Grande Fratello dove i concorrenti si presentano per un casting che li porterà al livello finale lo spettatore voterà chi potrà partecipare a Goodbye Kreisky – che è poi lo spettacolo finale del progetto che il collettivo Nesterval in programma a novembre. Ogni team di spettatori-tester incontrerà tre dei candidati ponendo loro domande predefinite, suggerite nella chat e insieme dovranno confrontarsi e scegliere. Tutti i candidati siedono in una stanza vuota con alle spalle una fotografia raffigurante l’immagine di Gertrud Nesterval e con la parete che fa da fondale del colore della squadra alla quale è abbinato. Sono vestiti di nero e hanno la fascia alta del viso occupata dagli occhi dipinta di rosso. Una voce invita alla presentazione di ognuno dei candidati – ogni volta che la voce interviene per dare istruzioni gli attori volgono lo sguardo verso l’alto come se un occhio esterno li controllasse. Ogni spettatore sceglie due personaggi, di due squadre diverse, per intervistarli e portarli o meno nei livelli successivi. E così si procede verso i vari livelli che sono le stanze virtuali dove a gruppi di due tester e un candidato nelle prime fasi, quattro tester e il candidato che ha passato la prima selezione nella terza fase, via via fino alla votazione che prevede un ultimo scambio di “battute” fra tutti gli spettatori di nuovo nella stessa stanza prima della decisione. In sottofondo suona lievemente “Bella ciao”. Non appena la scelta è fatta, si connette di nuovo un candidato della squadra rossa che rivela il vero scopo del test: lui è Jonas Nesterval e si congratula con gli spettatori per l’ottima scelta. Si chiude tutto e si accende un video, ripreso secondo gli stili e i colori dell’epoca, dove la voce narrante ripercorre la storia di Gertrud attraverso le tracce che ha lasciato fino a rivelare il vero segreto che sta dietro al test di Kreisky: l’oggetto reale del test non sono i candidati ma i tester. I candidati sono degli attori che hanno lavorato per Jonas: ognuno di loro ha dovuto rappresentare una figura che vivesse nel rispetto dei più alti valori come libertà, uguaglianza e solidarietà, per la conservazione dei quali dovrebbe lavorare la comunità utopica progettata dalla madre. Tutti gli attori rientrano in scena e si ribellano a Jonas e, dopo aver criticato le sue folli fantasie, il ruolo che gli ha affidato e il misero denaro che gli ha retribuito per il lavoro, abbandonano la stanza virtuale e con essa il progetto di una comunità utopica socialdemocratica. Ma Jonas è comunque soddisfatto i tester hanno passato il test. Così i livelli di finzione si moltiplicano, smascherandosi in scena con gli attori se ne vanno: la verità quindi è che il test era il teatro, mentre lo spettatore era la realtà per il test. E in questo gioco perfettamente orchestrato lo spettatore si ritrova spiazzato, e con nuove riflessioni in atto.

ph Francesca Giuliani

Dagli anni ’70 ad oggi: nuove paure per nuovi immaginari

Nonostante il collettivo Nesterval ci tenga a sottolineare di non essere un gruppo che vuole “fare” teatro politico – come più volte ripetono spesso anche la drammaturga Frau Löfberg durante l’incontro che si è svolto sempre sulla piattaforma Zoom con gli spettatori di The Kreisky Test la sera del primo maggio –, e che il tessuto narrativo sia solo un trampolino di lancio per l’innescarsi del gioco teatrale, è chiaro che anche di questo si tratti. Se è vero che Kreisky sia solo un nome “famoso” che viene utilizzato per attirare l’attenzione dello spettatore e che poi non viene approfondito per un un dibattito politico più ampio, è anche vero che viene creato un contesto storico-politico ben preciso. Non a caso, il leitmotiv che ha fatto scattare l’idea di trasferire The Kreisky Test sul web, portando così avanti la messa in scena nonostante il lockdown, è stato proprio un parallelismo tra la situazione socio-politica attuale e quella risalente agli anni ’60-’70 in Austria, da dove prende il via la storia immaginaria di Gertrud Nesterval. Come racconta il regista durante un’intervista, in quegli anni Bruno Kreisky voleva mettere in funzione la centrale nucleare di Zwentendorf. La paura del nucleare innescò un contro movimento sociale che portò alla creazione di nuove formazioni politiche e alla iniziale crisi del partito socialdemocratico. Una simile paura è quella che si vive oggi a disastro avvenuto. Ora come allora la domanda è la stessa ed è la domanda che si sono posti gli artisti di Nesterval “come una società reagisce a un disastro imminente?” e ancora precisa il regista:

“le domande che ci siamo posti all’inizio e durante il processo creativo sono oggi ancora più attuali: come si diffonde la paura all’interno di una società? Quali sono le implicazioni per la democrazia? Nessuno può prevedere come la crisi provocata dal coronavirus cambierà la nostra società, ma è indiscusso che tutto ciò lascerà il segno. E potrei ben immaginare che possano emergere nuovi movimenti in questo periodo di contenimento del respiro globale”.

La ricerca così si è innestata perfettamente sia al contesto che al supporto utilizzato andando a creare un ulteriore cortocircuito tra materiale drammaturgico, qualità immersiva dello spettacolo e ruolo dello spettatore. Sì perché se lo spettacolo si sviluppa sotto forma di un gioco, che tra l’alto si fonda su un retroscena utopico nella realizzazione di una comunità sociale ideale, il meccanismo che crea attraverso il controllo esterno delle voci guida, invisibili ma fortemente presenti, non è lontano dall’odierna epoca del controllo sociale che si sta via via sviluppando in funzione del contenimento del virus. E così lo spettatore si ritrova frastornato mentre lo spettacolo prosegue, incastrato nel meccanismo ma costretto ad alimentarlo per arrivare alla fine. E se non lo fai vieni silenziato dal sistema, come le voci dall’esterno ricorda.

ph Francesca Giuliani

Oltre il carattere immersivo dell’evento: realtà/virtuale/finzione

Durante il già citato incontro gli artisti presenti hanno raccontato come si è svolto il processo di costruzione drammaturgica dei personaggi. Durante le varie residenze, finanziate dal programma europeo Be SpectACTive! insieme a brut Vienna, il collettivo ha intervistato le persone dei luoghi attraversati confrontandosi sulla situazione socio-politica che il loro paese viveva negli anni tra ’60 e ’70 – in particolare in Spagna a Santander e in Italia a Sansepolcro; hanno anche chiesto agli intervistati quale fosse la loro idea di socialdemocrazia e che valori venissero rappresentati da questo tipo di politica e hanno parlato anche con alcune donne dei movimenti politici degli anni ’70 per capire quale fosse stato il loro ruolo, così da comprendere quale fosse la situazione vissuta dalle donne in quei momenti nei vari paesi. Tutte queste esperienze e narrazioni sono confluite nella scrittura drammaturgica. Dalla realtà hanno così attinto parte del materiale che poi è stato riadattato al loro percorso di ricerca. E se da una parte l’immersione in queste storie è stata fondamentale alla costruzione del personaggio da portare in scena, dall’altra il diverso coinvolgimento degli spettatori sul web ha apportato un ulteriore livello di riflessione alla ricerca.

Proprio durate l’incontro alcuni degli attori hanno raccontato come sia stato spaesante per loro, che sono abituati a lavorare a stretto contatto con il pubblico, entrare in relazione con esso attraverso una telecamera. Lo schermo frapposto tra attore e spettatore ha limitato quel contatto che normalmente c’è nel loro teatro e ha reso più difficile all’attore sia entrare nel personaggio sia comprendere le reazioni del pubblico e con quelle interagire, soprattutto a causa del dispositivo tecnico che non ti permette di “stare direttamente” negli occhi dello spettatore. Il formato video, però, ha dato nuove dinamiche di movimento ai corpi che si sono generate proprio dall’impossibilità di muoversi in una stanza vera e propria e dal doversi relazionare attraverso una telecamera. Tutto questo ha innescato anche un nuovo sguardo verso l’altra finestra. Una delle attrici, infatti, ha precisato come la sua attenzione fosse inizialmente, almeno nelle prime repliche, portata a osservare gli spettatori presi in un frammento della loro vita privata, per osservare il luogo deputato alla visione, in una sorta di ribaltamento prospettico. E tante sono state le modalità che ha osservato: chi ha optato per la cucina, chi per il salotto, chi per una stanza vuota, chi era solo e chi in compagnia, chi beveva continuamente, chi mangiava, chi aveva figli in braccio e chi si assentava continuamente. Ed è in questo momento, grazie al racconto del processo creativo e scenico, che si è creato un nuovo cortocircuito che è andato a potenziare tutto il meccanismo drammaturgico, e cioè il gioco del test e il ribaltamento finale tra finzione e realtà.

ph Francesca Giuliani

Tutto il dispositivo innescato dalla simbiosi tra forma, formato e supporto utilizzato per la messa in scena va così ad accentuare ancora di più quel carattere riflessivo che una performance sempre conserva. Il livello drammaturgico dato dall’idea di Grande Fratello era inesistente prima ed è nato proprio dopo il trasferimento della performance nell’online. Ciò ha aperto nuove riflessioni sul tema del reperimento dei dati personali e ha così amplificato quelle domande che stanno alla base del lavoro. Durante il dialogo con gli artisti, infatti, è emerso un ulteriore spunto di riflessione sempre in riferimento all’occhio esterno che controlla lo svolgimento scenico: grazie al dispositivo teatrale sul web hanno osservato come, a differenza delle performance offline dove il pubblico ha la possibilità di interagire in modo diverso nello svolgimento in base al suo grado di immersione e alla sua posizione nello spazio, nell’online il dispositivo di gioco ha fatto sì che tutti gli spettatori si trovassero nelle stesse possibilità di interazione con gli attori proprio grazie al controllo esterno che limitava fino ad oscurarlo chi prendeva più iniziative del dovuto. Quindi se da una parte gli attori si sono trovati in una situazione più rassicurante e di controllo rispetto alle reazioni del pubblico, dall’altra resta ancora più aperta la domanda che muove The Kreisky Test: cosa siamo disposti a perdere a favore della realizzazione di una comunità utopica? Quante e quali limitazioni possiamo sopportare per superare una crisi? E cosa implica tutto questo per la democrazia?

Fra pubblico e privato. Riflessioni intorno all’Urban Spray Lexicon Project di Ateliersi

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ph. Ilaria Scarpa

Che il teatro e le arti performative in genere vadano pensate come contesti privilegiati per la riflessività individuale e collettiva può essere considerato un dato scontato. Tuttavia sono proprio le modalità con cui di volta in volta tale capacità riflessiva viene declinata, sperimentata, stressata a mettere in questione il senso dell’operare artistico: sia sul piano della sua funzione, cioè del posto che occupa nel sistema sociale dell’arte e nella società nel suo complesso, sia sul piano della messa a punto dei suoi linguaggi e della sperimentazione estetica.

In questo quadro può essere colto il valore di un progetto come Urban Spray Lexicon di Ateliersicollettivo di produzione artistica che opera nell’ambito della arti performative e teatrali con base a Bologna – il cui asse portante è costituito dall’approfondita ricerca delle tante e diverse scritte murali che compongono i panorami urbani, trattati da Ateliersi come vero e proprio materiale drammaturgico, base di partenza di una scrittura poetica che traduce i segni visivi in gesti performativi.

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ph. sito Ateliersi

Il progetto è stato avviato nel 2011 – in occasione della partecipazione all’evento di street art Bologna al muro – con la messa a punto, l’anno successivo, del primo capitolo Boia-concerto breve per imbrattamenti, voce e sintetizzatori, poema composto e interpretato da Fiorenza Menni a partire dal materiale di un archivio web che raccoglie centinaia di scritte fotografate e raccolte negli ultimi quattro anni sui muri di Bologna. Un processo di raccolta e ricognizione delle scritte che si è via via arricchito e complessificato attraverso la collezione delle scritte del passato scovate anche in libri, riviste, archivi privati e delle scritte di oggi che vengono meticolosamente fotografate, annotate, sistematizzate.

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ph. sito Ateliersi

Sul fronte mediologico il progetto lavora quindi sulla scrittura e su alcuni ribaltamenti particolarmente affascinanti. Ad esempio quello del rapporto fra scrittura e memoria, fra questo scrivere qualcosa – fissarlo su un supporto – per quel qualcuno che passa di lì. La scritta va vista allora, prima di tutto, come un incidente ottico del percorso quotidiano, ancora novecentesco, che nell’operazione di Ateliersi diventa anche il pre-testo per la resa performativa, per la possibilità di permutare e ricombinare frasi, proclami, affermazioni, dichiarazioni in qualcosa di nuovo. Un modo per dare corpo poetico a quanto invece lo sguardo in movimento rende effimero e fugace.

Sul fronte performativo Urban Spray Lexicon Project è composto da altri due capitoli: Se la mia pelle vuoi e Freedom has many forms – note e notizie sul come e perché delle scritte sui muri (2013) performance, la prima, e performance-lezione (costruita con Andrea La Bozzetta), la seconda, che Ateliersi porta nelle case e in spazi alternativi al teatro (gallerie, case d’artista, atelier, librerie, ecc.).

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Sabato 16 gennaio abbiamo ospitato una tappa dell’Urban Spray Lexicon Home Tour. In una stanza riallestita sapientemente da Ateliersi per accogliere adeguatamente gli amici-pubblico invitati è andato in scena Se la mia pelle vuoi, con Fiorenza Menni, Andrea Mochi Sismondi e Mauro Sommavilla alla chitarra.

Giocata scenograficamente sull’adattamento della casa e con l’uso delle luci – anche quelle esterne della strada, casuali, che accentuavano l’effetto “urbanità” – e sull’accompagnamento musicale molto efficace, la performance si è strutturata intorno al poema costruito attraverso le scritte e una serie di scambi dialogici fra Menni e Mochi Sismondi. Dialoghi quotidiani, intimi, normali, privati che cortocircuitano poi con l’elenco di affermazioni pubbliche, quelle delle scritte sui muri, che sostanziano il poema. Una serie di frasi politiche, poi esistenziali, poi ancora dichiarazioni d’amore – quelle banalissime che conosciamo tutti – alcune tragiche, altre molto ironiche e illuminanti. Piccole e grandi epifanie di quel mistero che sta nel simbolico e nell’immaginario e che si esprime nel suo tragitto antropologico, dall’individuale al collettivo. Sì perché il filo rosso della ricerca di Ateliersi va proprio rintracciato nel rapporto fra pubblico e privato che, a sua volta, si presta ad essere osservato su livelli diversi. Piani di un discorso che Ateliersi riesce a tenere coerentemente insieme.

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ph. Tihana Maravic

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ph. Gianni Giulianelli

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Un primo piano riguarda la ricerca poetica di Ateliersi che rimanda alla mediologia del teatro, vedi la questione ancora cruciale del testo, e alla necessità politica di un teatro riflessivo che si confronta costantemente con le istanze di realtà (ma ovviamente senza naturalismo).

[Il progetto nasce] Per risolvere un problema di relazione con il testo da recitare in scena. Ad un certo punto stavamo facendo un passaggio tale nel nostro lavoro che non trovavamo nessun tipo di senso e di interesse rispetto ad una scrittura già consegnata o tanto meno da pensare in maniera poetica o teatrale (Fiorenza Menni, conversazione sul divano dopo Se la mia pelle vuoi).

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Un altro livello riguarda la caratura del materiale utilizzato per la prima volta in occasione della partecipazione all’evento “Bologna al muro”. Il lavoro storiografico sulle scritte permette ad Ateliersi, ad esempio, di cogliere le strategie della controinformazione italiana fra il 1968 e il 1977 e di restituirle non soltanto in chiave performativa ma anche in termini di produzione culturale particolarmente interessanti.

La prima raccolta del nostro materiale è di tipo storico e riguarda le scritte del ’68 e del ’77, bellissime e molto diverse a livello linguistico. Quelle del ’68 sono scritte molto lunghe, molto articolate perché richiedevano una riflessione mentre quelle del ’77 fanno uno scarto linguistico di grande essenzialità, di grande impatto comico e con dei giochi linguistici molto forti tipo “felce e mirtillo” e “godere operaio”.

Sono parole forti, concettualmente immaginifiche, legate ad una realtà. Sono parole che stanno nella parte ignobile e non hanno pretese, sono anonime.

Possono essere al limite rimandate a dei gruppi politici cioè tu puoi ricostruire chiaramente una provenienza per quelle politiche e per quelle amorose mentre per quelle esistenziali no, ti chiedi soltanto perché uno esca di casa e debba scrivere su un muro.

Tutto questo ha dato proprio una spinta di senso, un modo per tenerci ancora in relazione con la realtà. Noi venivamo da un percorso molto lungo, dove abbiamo vissuto in una comunità rom, e tornare alla non-realtà sarebbe stato molto difficile. Questo lavoro ce l’ha permesso (Fiorenza Menni).

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Concepito in maniera drammaturgicamente aperta il progetto integra al lavoro di archivio il contributo user generated di coloro che essendo a conoscenza del progetto cominciano a guardare diversamente le scritte in cui si imbattono e che inviano alla compagnia come nuovo materiale. Il poema perciò presenta i caratteri di un sistema che pur mantenendo la sua identità organizzativa, adatta la sua struttura cioè modifica e si aggiorna secondo lo zeitgeist, lo spirito del tempo, dipendendo sostanzialmente da “come si muove il mondo intorno”.

Siamo partiti con i poemi che hanno questa capacità di portarti dentro, di farti ridere, di farti piangere poi ad un certo punto abbiamo ragionato sul momento che ti porta ad uscire di casa e voler incidere su un muro il tuo grido, il tuo urlo, la tua affermazione o domanda. Questo ci ha portato ad approfondire il rapporto fra pubblico e privato considerando il muro come una vera e propria membrana fra lo spazio privato, intimo, di uno spazio esistenziale vissuto da solo, e l’aspirazione alla condivisione sociale.

Abbiamo perciò lavorato in maniera carsica facendo emergere e re-immergere la questione del pubblico/privato partendo dalla scrittura dei dialoghi [nella prima parte della performance] contenenti molte delle cose che ci appartengono, scegliendo una serie di temi e lavorando sulla nostra vita, sul nostro intimo anche perché per noi il gesto pubblico consiste ne portare queste cose nel campo dell’immaginifico, nel campo del teatro e della condivisione (Andrea Mochi Sismondi).

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Nell’ultima parte della performance Andrea Mochi Sismondi legge una lettera inviata da un amico writer che non è potuto venire perché agli arresti domiciliari a causa delle sue scritte sui muri. Di seguito ci vengono consegnati dei cartoncini con delle scritte.

Molti ci chiedono chi sia questo amico e cosa gli sia successo. Ma questo amico è Céline che nel costruisce tutto il racconto di Voyage au bout de la nuit spingendo esistenzialmente dei periodi, dei periodi che leggendo e rileggendo quel libro ci sembrava fossero esigenze di scrittura. Per cui abbiamo lavorato su quel testo per costruire delle false scritte sui muri, delle scritte che vi ritrovate… C’è questo gioco bellissimo un po’ come succede con l’oroscopo. Quando incontri una scritta dici “ma questa è la mia”! (Andrea Mochi Sismondi).

Il rapporto pubblico/privato trova poi nell’home tour un’ulteriore importantissima declinazione anche di tipo politico: dal teatro come fatto pubblico che avviene nel privato di una casa fino all’avvicinamento fra attori e spettatori che rompe la distanza “normale” della relazione teatrale. Un esperimento efficace anche sul piano dell’audience development proprio perché si pone come dimensione di fruizione del teatro che spinge sulla dimensione comunitaria e sulle modalità di messa a punto di una pratica d’indipendenza capace di conciliare l’autonomia (creativa e produttiva) con le logiche di un sistema artistico e teatrale che deve funzionare.

Noi siamo una compagnia indipendente ma anche con dei riconoscimenti i quali ci chiedono anche progettualmente di fare certe cose. […] Un formato come questo lo devi costruire all’esterno del circuito teatrale e noi abbiamo pensato di poter sfruttare i tanti amici che abbiamo in Italia. […] Andare a ricercare un certo rapporto con le persone è alla base del nostro fare teatro e quando abbiamo visto cosa accade nelle serate dell’home tour allora ci siamo detti che questa è una situazione interessante (Fiorenza Menni).

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Alla fine della chiacchierata Fiorenza ci ha chiesto di leggere i nostri cartoncini con le scritte false riprese da Céline – i desideri del povero sono puniti con la prigione; la vanità intelligente non esiste; questa città non serve a niente; quel buco mi sembra adatto; non ci sorveglia più nessuno; se mi distraggo, non muoio – un modo garbato per chiudere il cerchio sul noi-pubblico e sulla dimensione partecipativa che può farci sentire comunità.

 

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Ha chiuso veramente in bellezza il 30 novembre al Teatro Massari di San Giovanni in Marignano la rassegna di danza contemporanea c_a_p05 deviazioni con la programmazione di due lavori che messi vicini – grazie alla sensibilità artistica ma evidentemente anche organizzativa di Paola Bianchi, Valentina Buldrini e Chiara Girolomini – permettono di cogliere un senso poetico unico, difficile da esplicitare – se non nella dimensione “al femminile” dei due spettacoli – ma piuttosto tutto da “sentire”.

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Con il suo A corpo libero, progetto nato in occasione del concorso GD’A Veneto 2009, Silvia Gribaudi regala agli spettatori 15 minuti intensi ed esilaranti per riflettere con ironia sul corpo e in particolare sulla condizione femminile (del corpo).

Durante l’incontro a fine spettacolo è stata proprio Silvia a spiegare come l’idea sia nata nel momento in cui si è accorta che con il passare del tempo perdiamo un po’ di controllo delle nostre carni e che perciò mettere in scena questo passaggio può essere un modo per accettarne gli esiti inevitabili.

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La presa di coscienza della nostra datità corporea non è una cosa scontata, e non lo è soprattutto in una cultura come quella occidentale in cui si sono pervicacemente sganciati il corpo e l’anima per dare, si sa, molta più importanza alla seconda. Qui invece il focus è proprio sulla “gioiosa fluidità del corpo” e così facendo Silvia Gribaudi ci vendica tutte.

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Su un altro versante, non meno importante, il corpo viene trattato al di là dello stereotipo fisico della “ballerina” per riconsegnare la danza, almeno potenzialmente, all’umanità che da sempre si esprime anche non verbalmente e attraverso il movimento.

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Una chiave di lettura che può essere collegata ai progetti con donne over 60 o in strada – da seguire TOYS?moveon – e in cui il coinvolgimento della gente, ora che come pubblico “spontaneo” ora come danzatore improvvisato, diventa il vero movente della performance.

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Con il suo Clown Giovanna Velardi, in scena nella seconda parte della serata con Giuseppe Muscarello (membro della compagnia Giovanna Velardi fondata a Marsiglia nel 2000), costruisce una storia per “personaggi danzanti” che rimandano, soprattutto nella prima parte dello spettacolo, all’immaginario della tradizione popolare e dei pupi siciliani ma anche alla Commedia dell’Arte come pure a certa tradizione folcloristica francese. E d’altronde la stessa Giovanna, palermitana con il periodo di formazione passato in Francia, incarna la commistione di culture che caratterizza la sua terra d’origine.

clown bella

Lasciati per il tempo di un cambio di costume in compagnia di un pupazzo arlecchino sul palco ci ritroviamo nella seconda parte dello spettacolo con un clown femmina alle prese con un clown maschio, figure ideali per mettere a tema quella che Niklas Luhmann ha definito la normalissima improbabilità dell’amore.

clown lui lei

I linguaggi sono quelli della clownerie che abbiamo visto da piccoli al circo: lo scherzo, anche con il pubblico, la presa in giro, le scaramucce fra i due, un po’ di cattiveria e di violenza… tanto da farci credere che, nell’apice tragico dello scontro tra i due, la femmina cada vittima del maschio.

clown lui piange

Ma poi per fortuna si rialza e il gioco riprende fino a coinvolgere gli spettatori che vengono scavalcati e un po’ strapazzati, infine ingaggiati in una battaglia a colpi di palline di gomma colorata. E così la tragedia, trasformata in farsa, per questa volta può essere evitata.

clown in mezzo gente

Fra gli elementi che tengono insieme i due spettacoli – e a ben vedere i lavori che hanno composto la rassegna – emerge con una certa chiarezza, grazie anche agli scambi con i coreografi nel dopo-spettacolo, il ruolo dello spettatore ormai definitivamente integrato nel dispositivo della messa in scena. Non perché debba fare chissà cosa ma perché, da un lato, è pensato già sul piano drammaturgico dai coreografi come l’attualizzatore delle potenzialità semantiche dello spettacolo e, dall’altro lato in maniera ancora più cruciale, perché la performance contemporanea riparte oggi, e pensa se stessa a partire da quel cambiamento di senso della posizione nella comunicazione (rimando a Giovanni Boccia Artieri) che dipende dalla logica della rete (Internet) e che rende più esplicita la compartecipazione di tutti alla generazione dei contenuti. Senza per questo dover rinunciare alla complementarietà della relazione scena-sala e alla sua magia.

La danza contemporanea e il suo pubblico. c_a_p 04 CoAzione

Domani al Teatro Rosaspina di Montescudo (RN) parteciperò alla prima delle azioni previste dal [collettivo] c_a_p per il 2012 – c_a_p 04 CoAzione – per ragionare e promuovere, soprattutto a livello locale, la danza contemporanea. In continuità con le iniziative che il collettivo porta avanti dal 2009, cioè da quando si è costituito con le coreografe e danzatrici Paola Bianchi, Valentina Buldrini, Chiara Girolomini e con la fotografa Valentina Bianchi, la giornata di domani sarà l’occasione per presentare i risultati di una piccola survey esplorativa sul pubblico della danza che abbiamo lanciato lo scorso anno durante l’azione c_a_p 02 INAZIONE. Ne ho parlato qui.

Emanuela Conti, docente di marketing e interessata allo studio del marketing dello spettacolo, ed io abbiamo collaborato con il [collettivo] alla messa a punto del questionario e all’analisi dei dati aventi per oggetto lo spettatore teatrale e il suo orientamento nei confronti della danza contemporanea, a partire dall’ipotesi, confermata dai risultati, secondo cui è possibile osservare sul territorio una domanda potenziale di danza contemporanea superiore all’offerta di spettacoli.

Prima dei numeri però ci saranno i corpi e le parole. O meglio la danza di Paola Bianchi con Erbarme Dich e Stefano Questorio con The Angelic Conversation. Prima Conversazione con Derek Jarman cui seguirà l’incontro con i due danzatori, una conversazione sul loro lavoro a partire dalle domande che il pubblico vorrà rivolgergli.

Foto Valentina Bianchi

Il pubblico italiano,diversamente da quello straniero, non è abituato al “dibattito” dopo lo spettacolo. Tuttavia ci si lamenta spesso della difficoltà di comprensione del lavoro artistico contemporaneo, come emerge tra l’altro anche dall’analisi dei commenti liberi previsti nel questionario, che non potendo essere “detto” resta tutto nell’ambiguità dell’immagine. Ovviamente questa è la ricchezza del simbolico artistico al quale abbiamo evidentemente bisogno di potere (e sapere) andare, lasciandoci un po’ prendere dall’esperienza della fruizione che è cognitiva ed emotiva insieme.

I residui del pensiero analitico occidentale, razionale e positivista, sono rintracciabili in una predisposizione culturale dalla quale facciamo fatica a sottrarci e che ci porta ad avvicinarci più agevolmente a un processo drammaturgico narrativo, lineare, verso l’interpretazione di significati che pensiamo essere trasmessi prima che costruiti dall’atto della comprensione. Cioè da noi.

Ecco perché i due artisti non si sottrarranno alle domande del pubblico per dare spiegazioni sulle loro scelte espressive e sul loro lavoro. In accordo con quell’idea di “percorso di visione” che può essere seguito nel sito a sostegno dell’idea secondo cui vedere – nel senso di fare esperienza della performance artistica – è quello che serve per conoscere, per scoprire o alimentare un interesse. Nello stesso tempo attivare una conversazione è il modo per confrontarsi sui contenuti e per potenziare la relazione che nella performance dal vivo fa sempre la differenza.

Si parte per Santarcangelo 41. Ci accompagna Ermanna Montanari

Sono veramente onorata di inaugurare la serie di post che da qui ai prossimi giorni dedicherò al Festival di Santarcangelo con le parole e i pensieri sul teatro che Ermanna Montanari, cui si deve la direzione artistica dell’edizione 2011, mi ha regalato.

Il mio sguardo, necessariamente parziale, si concentra sulle forme e sui linguaggi della performance, usando, quindi, un approccio mediologico, e cerca di scovare nelle tendenze del contemporaneo le prove di un processo evolutivo della comunicazione che, attraverso l’arte e la sua autonomia, può dirci qualcosa di più generale sulla società e sugli individui.

Detto altrimenti (anche se tutti lo sanno): non sono un critico teatrale e la performance artistica è per me un luogo di osservazione del sociale, ma su fronti che, oggi più che mai, si stanno complessificando, sia sul piano delle forme sia sul piano dei contenuti.

La riflessività, come capacità di un prodotto culturale di fare da specchio “deformante” della realtà, per farla capire meglio, e come processo che per l’individuo si gioca nello scollamento fra il suo vissuto e quello che vede rappresentato o al quale partecipa a teatro, è allora il concetto che fa ancora da guida all’analisi del teatro come tecnologia dello sguardo. Anche quando questi sguardi si moltiplicano, proprio perché al vedere si associano forme dell’esperienza ben più immersive e coinvolgenti.

Ed è così che la mia prospettiva di osservazione (scientifica?) viene messa alla prova dalla forza e dalla poesia dell’artista. Due domini diversi del simbolico e del linguaggio che mi ci vorrà un po’ per conciliare. Ma è una sfida che mi tocca cogliere da subito.

foto di Enrico Fedrigoli

Nel tentativo di cominciare a far dialogare queste due prospettive di osservazione ho pensato dunque di chiedere direttamente ad Ermanna Montanari (e alla sua arte come vita) di aiutarmi a delineare il percorso in cui ci stiamo muovendo e di cui, come sempre, il Festival di Santarcangelo riesce a fornire le giuste coordinate e a muovere i giusti passi.

Fra efficacia e intrattenimento

LG: Dal programma del festival e dalle schede relative agli spettacoli, alle intersezioni, alle miniature, ai cori… mi sembra di poter cogliere l’emergenza delle due “funzioni” della performance culturale e artistica: l’efficacia, ossia l’urgenza di “dire” qualcosa che produca un cambiamento, un effetto simbolico ma duraturo e magari attivo (penso a Motus e non solo), e l’intrattenimento cioè un’idea “sana” del divertimento e della sua capacità riflessiva. Possiamo quindi rintracciare una linea progettuale tesa fra l’efficacia e l’intrattenimento in questa edizione del Festival?

EM: Non userei la parola “intrattenimento”. Da più di trent’anni vivo il teatro come un “patire”, allo stesso tempo solitario e condiviso. Dentro questo “patimento”, che preferisco come termine a “passione” (quest’ultimo ormai sequestrato dalla Pubblicità, in particolare dal settore dei profumi), ci sta anche il divertimento, il regno del comico e del rovesciamento, il ridere fino alle lacrime. Ci sta l’anima e la politica, i tormenti della memoria e l’ebbrezza di stare con gli altri.

La chiamata pubblica del teatro

LG: Su queste basi la tendenza alla “chiamata pubblica” del teatro e degli spettatori – ma penso anche alla necessità che mi sembra abbastanza sentita e diffusa di tornare a Brecht ad esempio – mi sembra incentrata su temi e contenuti tendenti a piegare l’immaginario ad un’istanza di “realtà” e di “impegno civile”.  Dal tuo punto di vista in che modo le diverse compagnie e gli artisti coinvolti interpretano questa urgenza?

EM: Perdonami, ma anche questi termini non mi appartengono. Con Marco Martinelli e le Albe da diversi decenni pratichiamo un teatro politttttttico con sette t, quindi radicalmente politico e filosofico a un tempo. Non siamo mai stati taccagni, le t le abbiamo sempre sprecate. La “realtà” ci ha travolto dal primo giorno del nostro matrimonio, che ha coinciso col primo giorno del nostro percorso sulla scena. Arte e vita si specchiano sridacchiando crudeli e si rimandano, sono l’una la finzione necessaria all’altra, la storia come spirale. L’impegno è un vincolo che ci sfida dal profondo. L’impegno è un andare sbucciandosi le ginocchia perché l’idea si faccia carne, opera. A me questo interessa, anche nei colleghi. Ho scelto Le conversazioni di Yalta di Oriza Hirata non perché aveva un tema “storico-civile”, ma per come Stalin, interpretato da una corpulenta e inquietante e divertente attrice giapponese si puliva le mani nella bandiera americana.

Performance artistiche e tecno-media

LG: Dalla diversità delle proposte in programma si coglie un’idea della convergenza dei linguaggi – e delle tecnologie – che caratterizza la ricerca espressiva. Da un lato c’è l’oralità (corpi, voci, suoni, collettività, festa…) dall’altro la scrittura, il fumetto, il video, il film, la radio, l’elettronica, l’installazione, finanche l’elettricità… Superata da tempo la fascinazione per i media e le tecnologie e arrivati alla consapevolezza drammaturgica del loro utilizzo, in che modo le cose che vedremo hanno assimilato e digerito le “logiche” tecno-mediali che sono servite alla sperimentazione teatrale e spettacolare precedente?

EM: Questo tocca agli studiosi, di dirlo. Io so solo che gli artisti hanno uno stomaco da struzzo, tutto divorano e tutto trasformano, fornaci alchemiche perenni. Non c’è tecnologia nuova più sorprendente dell’uso della voce nuda. O del riso, come fa Antonia Baher.

Performer, artisti e spettatori. I Social Network sono una risorsa relazionale?

LG: La tua attenzione verso l’attore rimanda al suo rapporto con lo spettatore.  Mi piacerebbe capire se, a tuo parere, oltre al cruciale e irrinunciabile momento dal vivo la possibilità di potenziare le modalità di relazione con il pubblico attraverso la rete e i social network, così come succede ormai diffusamente per altri prodotti culturali, sia una risorsa di cui il teatro possa avvalersi in maniera più convinta di quanto non faccia.

EM: Io sono felice quando vedo i miei giovani compagni delle Albe addentrarsi nei misteri della rete. È una cosa che non mi appartiene, ma credo che sia inevitabile come quando nel paleolitico i primi umani hanno scheggiato la selce. Infondo siamo ancora lì, nella Preistoria: avanzano le tecniche ma l’umanità resta assassina e irredenta. Quando faremo anche un solo, piccolo passo verso una civiltà diversa, in cui i sacrifici umani non siano più la regola (come ancora oggi sono), allora ci sarà posto davvero per un sorriso.

Coming out. Ho guardato Sanremo e ho pure votato

Ieri sera sono stata bonariamente ripresa per aver reso visibile, su Facebook ma anche su Twitter (riaperto per l’occasione), il fatto che stessi guardando Sanremo e partecipando, su opensanremo, alle votazioni ufficiose, ai commenti vari, ecc.

L’obiezione che mi ha colpito di più riguarda la contraddizione rinvenibile in un comportamento del genere da parte di una, che sarei io, che ha appena partecipato alla manifestazione Se non ora quando e che nel suo piccolo protesta contro le derive dell’immaginario femminile, e sulla condizione della donna in genere, con le cose che scrive e che dice.

Mi si è detto anche che alimentando la comunicazione attorno ad un fenomeno di cultura bassa come quello contribuisco ad accrescerne la legittimità. Evidentemente dobbiamo pensare che con un 48,6% di share siamo in molti ad essere dei facilotti e che ci fa comapagnia  uno come Battiato, che non mi sembra benevolo nei confronti della nostra povera patria

A rischio di far pensare che conosca soltanto Morin, e peggio pure soltanto Lo spirito del tempo, mi trovo a chiamarlo ancora una volta in causa per fare un po’ mia la lucidità con cui ha affermato che la così detta cultura bassa, i suoi prodotti, sono parte fondamentale del patrimonio simbolico che abbiamo a disposizione. Anche se Sanremo non esprime certo l’anima più sperimentale della cultura pop, nel senso identificato da Bolelli in Cartesio non balla, ad esempio, è pur vero che siamo dentro un ingranaggio culturale sintonizzato con il mondo in cui vivamo. E per me è interessante, non necessariamente divertente né tantomeno bello. Quest’anno poi il meccanismo partecipativo merita di essere osservato etnograficamente, cioè da dentro, da chi consideri le derive evolutive della comunicazione mediale e tecnologica un suo campo di studio.

Ed è proprio una come me che può notare sì l’inadeguatezza di due donne bellissime a tenere la scena ma di constatare anche di come vengano presentate ironicamente come “le artiste” dai comprimari maschi, vestite da trombone da stilisti tromboni ma tuttavia senza, almeno mi è parso, puntare sull’elemento sexy a tutti costi (insomma, sarebbero dovute sembrare eleganti). Ma anche i campi estetici e la bellezza femminile, insieme all’eroe comico, al divo dimezzato, fanno parte dei criteri di funzionamento dell’industria culturale e vedere come funzionino ancora può avere un significato.

E ce l’ha, questo significato, se pensiamo a come alcuni dei nostri maestri si siano sporcati le mani nel pop, e nella televisione, per comprendere meglio il transito dalle fasi liminali, di passaggio, come può essere stato il sessantotto, ai processi liminoidi che rimandano al bisogno dei rituali senza averne gli stessi contenuti. Sarà un caso se per Victor Turner un testo fondamentale per gli uomini del Libro, così li chiama Turner, sia Copioni da quattro soldi di Pandolfi? Nel 1958 quel libro analizzava il percorso che dai rituali ha portato ai palcoscenici fino a Lascia o raddoppia e svelava i meccanismi che dalle forme spettacolari basate su un avvenimento culturale riconosciuto collettivamente si fosse passati alla possibilità di essere protagonisti, anche senza averne le capacità. Il discorso sarebbe più ampio naturalmente e rimando all’introduzione a Turner di Stefano De Matteis. Qui dico solo che se questi autori non si fossero invischiati un po’ certe cose non avrebbero potuto dirle.

Un’altra critica al pubblico connesso: si guarda Sanremo soltanto per potersi lamentare sui Social Network. E mi viene da rispondere: era ora! Un tempo si faceva un gran casino nei teatri e nei varietà, il pubblico dal vivo interrompeva la scena per garantirsi la sua visibilità. Noi siamo un pubblico televisivo, quello che fa fatica anche a stare zitto al cinema, e lamentarci è un nostro diritto tanto più se è condiviso con altri, anche sconosciuti, con i quali si scoprono divertenti affinità, di cui si apprezza la vena ironica, ecc., tanto più senza dare fastidio a nessuno visto che ce ne stiamo a casa nostra. E’ a suo modo un processo catartico, perché dovremmo rinunciarvi?

Balla coi piedi

Qualche anno fa, grazie ad un invito dell’ultimo minuto ma molto gradito, ho assistito ad un balletto classico al Teatro Sanzio di Urbino. L’evento era uno di quelli “da non perdere” per cui la sala era gremita. Dal mio posto in prima fila ho potuto godere da vicino delle movenze e dei volti dei ballerini e aspettare con fiducia che facessero qualche salto per vedergli i piedi.

Ecco perché il trafiletto dal titolo Il piede sempre visibile. UN Studio: Dance Palace, San Pietroburgo nell’articolo La forma in scena, su Nova del 10 febbraio 2011 ha attirato la mia attenzione. Si tratta di nuovo complesso progettato per garantire l’acustica e la prossimità del pubblico al palcoscenico con lo scopo di valorizzare proprio l’esperienza spettatoriale. Da sottolineare quando afferma:

Un requisito essenziale è stato quello di rendere possibile la vista dei piedi dei ballerini da ogni posto in sala, in qualsiasi momento, a prescindere da dove l’artista fosse posizionato sul palco.

Certo, si sa, i teatri ottocenteschi (quello di Urbino è del 1829) proponevano con la loro forma il carattere sociale del teatro, forse anche l’essere visti più che il vedere tuttavia, forse, bisognerebbe evitare di impiegare la prima fila di sedie quando la visione – sempre cruciale per il “medium” teatro e per la danza in particolare – non è assicurata. E anche se posso dire che in quell’occasione “io c’ero” ho sempre ripensato a quell’esperienza come a qualcosa di bislacco, seppur divertente.

Cosa che tra l’altro succede con i palchi laterali che cerchiamo di evitare tutti come la peste bubbonica. Ultimo caso in ordine di tempo il bel Tristi tropici della compagnia Virgilio Sieni, al Bonci di Cesena, dove mi sono trovata a confondere i lampioni delle colonne con una ballerina seduta di cui non capivo le forme, o ad evitare mani penzolanti, teste protese di gente che, come me, cercava di vedere meglio…

Tutto questo per dire che in tempi di tecnologie avanzate e di modalità visive espanse lo spettacolo teatrale mantiene quel carattere del vedere, adesso, subito e possibilmente bene, che ne qualifica il carattere fin dal suo nascere. Non è quindi per niente banale il fatto che lo studio olandese che firma questo progetto abbia pensato al teatro, allo spazio, e a come funziona. E perciò al suo pubblico.

Mi è sembrata, insomma, una buona notizia.

La performance e i “suoi” tempi. Ovvero: Marina Abramovic

Secondo me l’incontro con Marina Abramovic sarebbe stato molto utile a tutti coloro che pur incuriositi dall’arte contemporanea e in particolare dai percorsi della performance e della body art tendono ad assumere quell’atteggiamento scettico o di fastidio a volte che si riassume nell’affermazione “io non capisco” o nella fatidica domanda “ma questa è arte?”.

Avrebbero avuto modo di incontrare una persona affascinante e vitale, ironica nel racconto dei piccoli aneddoti sui suoi esordi e capace di far capire il senso vero di un’idea dell’opera d’arte dal vivo, del corpo vivo per un pubblico, come processo che ha nel tempo, ovvero nella sua dilatazione, il suo più forte e carico significato simbolico.

Tempo come qui e ora del gesto fondato sul corpo messo alla prova ed esibito non tanto per l’intrattenimento – ovvero in quel gusto del pubblico verso lo sforzo e il sudore attorale che già Barthes rinveniva nei suoi Miti d’oggi e che definiva come “trovata del giovane teatro” – ma piuttosto per l’efficacia simbolica che la fatica assume. E’ un insegnamento per la vita.

Non sono importanti le cose facili, ha detto Abramovic, ma il coraggio di affrontare le cose difficili. Ed esporre il proprio corpo, anche invecchiato e bello, come lei stessa fa oggi, assume nei nostri tempi beceri il valore di una differenza che può farci molto pensare e che assume, per chi la voglia vedere, un’attualità insperata.

E c’è il tempo della performance come arte che per non dissolversi e lasciare una traccia ha bisogno di essere documentata. La presa di distanza rispetto all’uso un po’ feticistico delle tecnologie dei perfomer più giovani, forse un po’ ingrati rispetto al lavoro pioneristico del passato, può essere rinvenuto nel film documentario Seven Easy Pieces. Una lezione sulla performance e sulla sua traduzione in video ancora una volta nel nome del tempo.

Compongono il film di Babette Mangolte cinque omaggi ai lavori “classici” di Bruce Nauman, Vito Acconci, Valie Export, Gina Pane, Joseph Beuys, basati sul re-enactment più reinterpretazione di due delle sue performance, eseguite nel 2005 al Guggenheim e dedicate a Susan Sontag. Una sede importante per Abramovic che ha atteso 12 anni per poter portare lì il suo lavoro. Consacrazione avvenuta si potrebbe dire.

Il merito del film sta nel tenerti lì perché riesce a calibrare in novantacinque minuti la ripresa delle perfomance, che nella reinterpretazione di Abramovic durano 7 ore ciascuna, con il montaggio e i tagli necessari a far cogliere e sentire “fisicamente” il peso del tempo.

Un film che non dimentica di indugiare sul pubblico, sempre il vero movente di un’arte che professa e rivendica il suo legame con la vita, e che, mi pare, si trova a sperimentare – anche nella mediazione – il senso vero della solidarietà con l’artista, vittima sacrificale e mai oggetto del divertimento fine a se stesso.

Un’azione, la prima, per la danza e per l’arte contemporanea. C_A_P02inazione

Cosa ci fanno 16 danzatori “ammassati” su un piccolo ma ospitale palcoscenico di un altrettanto piccolo teatro, il Massari, di una piccolo paese della Romagna, San Giovanni in Marignano, di domenica pomeriggio? Danzano insieme, ognuno  la “sua” performance, si incrociano e quasi si scontrano, realizzando uno spettacolo corale e senza musica, se non quella dei loro movimenti e respiri, per dire una cosa semplice e chiara: mancano gli spazi per la danza contemporanea perché le “nostre” istituzioni sono miopi e disattente.

E’ da qui che è partita l’inziativa di ieri, 21 novembre 2010, ideata e coordinata dal collettivo c_a_p.

Lo scenario è quello della crisi del mondo in cui viviamo e dello stato della cultura italiana, si sa, ma che declinato sul nostro territorio, Rimini in particolare, assume i caratteri di una frustrazione diffusa che riguarda non soltanto gli artisti e gli operatori ma gli spettatori che per seguire teatro, danza, arte contemporanea (con la sua ricchezza e complessità) devono emigrare, sempre o quasi.

E’ da qui che si è partiti per riflettere un po’, loro (gli artisti) e noi (il pubblico e qualche operatore) sulle strategie e le azioni che potrebbero essere messe in campo per provare ad uscire, almeno un po’, da questa impasse.

1. Monitorare il pubblico che già va a teatro sui suoi gusti? Provare a “misurare” l’interesse e la curiosità verso la danza contemporanea così da avere in mano dei “numeri” che convincano gli amministratori? Eppure l’idea della pluralità dell’informazione e della segmentazione dei pubblici, che piace tanto per la TV, dovrebbe riguardare a maggior ragione quelle manifestazioni culturali che potrebbero essere anche di nicchia. Sebbene le realtà dei festival e le buone pratiche di certi luoghi all’estero soprattutto dimostrino che poi tanto di nicchia l’interesse per il contemporaneo non è.

2. Proporre progetti educativi, a base volontaria se proprio non si può fare di meglio, da portare nelle scuole? Non basta che Amici sdogani la danza, o anche quella che ne potrebbe essere una remota idea, per formare degli spettotori attenti. Piuttosto servirebbe spostare l’attitudine abbastanza evidente al “fare” prima che al sapere verso il piacere ritrovato dello stare a guardare.  Non solo workshop allora ma educazione alla spettatorialità al di là del pregiudizio legato all’idea del “dover capire” di matrice razionale (lineare, narrativa) e trasmissiva (tipo emittente-ricevente, stimolo-risposta) che anche i giovani sono costretti a portarsi dietro.

3. La pubblicità non convenzionale ha attinto a mani basse dagli artisti perciò non si offenderà se gli artisti, che il non convenzionale ce l’hanno nel dna, riutilizzano le forme del guerriglia marketing, dell’ambient, del virale per esporre idee, creare incidenti artistici sul territorio “reale” e sul territorio “reale mediale” che, ormai lo sappiamo, supporta e non smonta la irriducibile dimensione dal vivo anche se non è più la fonte unica di fruizione dell’arte e dello spettacolo.

Senza contare inoltre che il cambiamento del senso della posizione nella comunicazione legato alle logiche del web ci abitua a pensarci come generatori di contenuti e a innescare circuiti utili alla diffusione di materiali, notizie, cose da vedere, da leggere, e così via. Utili, se non si fosse ancora capito, anche alla promozione dell’attività spettatoriale.

Intanto si sono formati i nodi di una rete che mi auguro riesca a svilupparsi, cosa che succederà soltanto se la giornata di ieri non sarà una parola vuota.

Specchi riflessivi. Santarcangelo 40 sociologia e mediologia del teatro

Neanche nelle più rosee aspettative avrei mai potuto pensare di poter cogliere un nodo di congiunzione, anche temporale, fra la partecipazione come relatore ad una session del convegno mondiale di sociologia a Goteborg dal titolo Publics on the move (che partiva dalla domanda “Are publics creative?”) e come spettatore alla quarantesima edizione del Festival di Santarcangelo mirata, quest’anno, ad interrogarsi sul ruolo del pubblico e sulla capacità riflessiva che la performance contemporanea è chiamata oggi più che mai a risolvere. Che poi le due cose sono assolutamente collegate e connesse.

Da quello che ho visto io, dalle mie scelte, i formati e i contenuti degli spettacoli mostrano una vitalità del teatro contemporaneo, nel senso anche della sua capacità di stare sulla soglia della così detta “attualità” e di lavorare sullo scarto, sulla differenza fra il mondo così come si presenta e le sue rappresentazioni. Ed è per questo poi che riesce a farsi specchio riflessivo. Elaborazione simbolica del reale e dunque costruzione di realtà con le quali confrontarsi, partecipando. Insomma: vissuto e rappresentato, coinvolgimento e distacco nel luogo dello sguardo, il teatro appunto, fondato però su un immaginario performativo che chiama in causa i corpi. L’esperienza del teatro, delle sue immagini, attraverso la presenza irriunciabile dei viventi.

Gli spettacoli che ho visto, e che finisco di vedere stasera, meritano dei post singoli allora per ora mi limito alla definizione del frame nel quale mi pare si collochi l’operazione nel suo complesso, al di là delle cose belle e intelligenti che si leggono qua e là.

La mia sensazione è che questo festival sia stato realizzato tenendo conto sì della dimensione territoriale, che è tipica dei festival, e quindi dei luoghi scelti per le performance site-specific, per l’uso della strada, come da tradizione, delle case, dei centri commerciali, dei luoghi riscoperti, ma anche dei territori espansi cioè dei meta-territori mediali adeguati non solo alle nostre sensibilità estetiche (troppo facile), ma alle dimensioni non soltanto iconografiche dell’immaginario collettivo. E’ infatti in questi territori che viene portata “qui” e prolungata l’esperienza dei mondi altrove (stranieri) che conosciamo soltanto attraverso i media (appunto) nella dimensione della rappresentazione dal vivo da parte di chi quei mondi li vive come un “qui”. E così ci aiutano a capire un po’ di più cosa succede nell’altrove o almeno a farci qualche domanda.

Non si pensi però che sia stato un festival ammiccante per un pubblico da neo-televisione. O meglio: visto che siamo un pubblico neo-televisivo e parte delle performing audience siamo ormai strutturalmente pronti al coinvolgimento con una consapevolezza diversa, credo ma ci devo riflettere, rispetto al pubblico che negli anni delle avanguardie veniva pungolato, attivato per l’azione, la presa di coscienza, magari impaurito.

Il cambiamento di senso della posizione nella comunicazione, cioè l’essere comunque generatori anche noi di contenuti mediali, si riflette anche qui, in questo teatro che un po’ ci deve appartenere: dal Manifesto Rosso all’asta per la raccolta di fondi, dal progetto ESC e dall’osservatorio critico, dai laboratori agli spettacoli realizzati con e attraverso gli spettatori, anche reclutati attraverso le piattaforme di networking fino all’uso più diffuso, anche se ancora da potenziare, dei social network.

Magari mi sbaglio ma secondo me il merito più grande di Enrico Casagrande e dello staff che ha lavorato con lui sia stato quello di comportarsi da spettatori e di portare a Santarcangelo le cose di cui, noi spettatori “veri”, abbiamo bisogno. Anche per divertirci. Che, come non mi stanco di ribadire, serve sempre.