Il tempo e lo spazio “Before Your Very Eyes” per Gob Squad e Campo al festival VIE2011 di Modena

Quanti sono i piani di riflessività che uno spettacolo come Before Your Very Eyes di Gob Squad & Campo mette in campo? Intanto quello più evidente del contenuto generazionale: sette giovanissimi performer belgi sono chiamati – dalla voce fuori campo che fa un po’ potremmo dire da coscienza collettiva – a pensare a sé, a rivedersi in un prima (il prima dei laboratori da cui nasce lo spettacolo ad esempio) rispetto al presente, che li vede già cambiati, e a pensarsi nel futuro. E così il confronto fra le aspettative di queste vite ancora in erba e quello che potrebbe essere da qui in avanti viene messo in relazione a quello che sanno, che possono conoscere e rappresentare, anche per gioco, del mondo adulto, quello che si può fare da piccoli e quello che si può fare da grandi. Fino al pensiero della morte che poi, come si è avuto modo di capire in giro e come si sa per il solo fatto di parlare di prodotti dell’immaginario, continua a essere il movente più o meno patente del lavoro artistico.

Ma ci vedrei anche, in una chiave più sociologica, il problema della contingenza del moderno, che i giovani incarnano come apertura alle possibilità ma che poi il sociale traduce nell’equivalenza di queste possibilità. A meno che, e sembra che poi la voce dall’alto cerchi di sollecitare in questa direzione e che anche i ragazzi ancora un po’ ci credano, l’identità in costruzione non si risolva in scelte per l’individuazione cioè per la differenza di valore da attribuire alle possibilità che si sceglierà di percorrere.

Dal punto di vista formale la consapevolezza mediologica – che già abbiamo avuto modo di cogliere in Gob Squad Santarcangelo 2010 – permette la messa a tema del tempo che assume il valore di spazio: fra il dentro e il fuori. E’ la composizione della scena a permetterlo grazie alla struttura fatta di specchi all’interno della quale i ragazzi agiscono e interagiscono fra di loro e con gli spettatori che da là fuori li osservano e partecipano alle loro storie, con meccanismi proiettivi di cui solo singolarmente potremmo dare conto. Come sintetizza Massimo Marino (@minimoterrestre) in un tweet efficacissimo:

Noi allo specchio dell’invecchiamento della delusione della fine, nel gioco crudele di un gruppo di bambini, regia Gob Squad.

Ma oltre a questo c’è un altro punto.

L’altro punto è che questo teatro si fa dispositivo dello sguardo sul tempo. Il meccanismo dentro/fuori, che è anche un avanti e indietro, entrata e uscita, realtà e finzione, passaggio dalla presenza in video a quella fisica sul palco, è garantito dall’uso della telecamera in scena e dagli schermi posti ai due lati della gabbia dove l’oscillazione dentro/fuori, che è il contenuto, è resa visibile dal video che è usato come andrebbe sempre usato per essere sensatamente drammaturgico.

Così come dall’immaginario mediale – che non è fatto solo di immagini iconografiche –  si costruisce una colonna sonora adatta al rinforzo della dimensione emotiva di cui lo spettacolo non è certamente sfornito: da un inno intergenerazionale come Don’t stop me now dei Queen (che già all’inzio dà letteralmente vita allo spettacolo con i ragazzi che ballano) o qualcosa dei Led Zppelin che mi pare di aver riconosciuto a un certo punto, per passare a una versione maschile (Brel, Brassens? Boh) di No, Je ne regrette rien di Edith Piaf fino a brani di certo più recenti, che io poi ho scoperto solo lì, come Boring di The Pierces o Wolves di Phosphorescent usati in altri momenti a rinforzo dell’intera performance.

I ragazzi velleitari di Okada vogliono una vita spericolata. VIE2011.

Auto-osservazione ed etero-osservazione mi sembrano i meccanismi che muovono uno spettacolo come The Sonic Life of a Giant Tortoise di Toshiki Okada (ancora Festival Vie 2011 a Modena) e a che a dir la verità possiamo ritrovare quando il teatro mette a tema l’identità di un luogo, e dei suoi abitanti, e il modo con cui tale identità si riflette nelle rappresentazioni collettive, sia auto-prodotte sia etero-prodotte. Ad esempio nello stereotipo del Giappone e del giapponese, per lo meno in questo caso e in altri di cui ho già avuto modo di dare conto, anche in relazione ad altri lavori dello stesso Okada.

Ma il bello è vedere come l’aderenza ad un’idea di appartenenza simbolica a un posto, a una cultura, ai suoi pregi e ai suoi difetti prenda una forma coerente con quell’idea. Gli attori sono ragazzi e ragazze di oggi, con quel modo di vestire e di muoversi che qui è calcato in una gestualità un po’ danza un po’ manga e in dialoghi surreali costruiti per paradossi. Affermazioni che vengono smentite, ruoli maschili e femminili che si incrociano come a dirci che il personaggio che parla potrebbe essere chiunque perché di chiunque è la tensione verso una vita migliore.

E così il desiderio di altrove da soddifare con il viaggio ma anche la capacità di cogliere l’altrove qui, la speranza di perdere un oggetto d’amore soltanto per capire di avere amato davvero, odiare le feste ma scoprire di potersi divertire anche senza ballare, sono i discorsi e le situazioni minute di una quotidianità che ha bisogno di diventare straordinaria per una vita che valga la pena di essere vissuta. (Da leggere anche così: su Altre Velocità).

Le telecamerine digitali in scena e le proiezioni ingrandite dei volti, infine, fanno ripensare a una poetica della tecnologia in scena come resa visibile dell’invisibile. Un’espressione della faccia ad esempio, anche per ridere, ma che va fatta vedere bene perché è funzionale alla resa dei dialoghi e perché lo spettacolo dal vivo continua a dare valore ai corpi e perciò a rappresentarli.

La festa dei morti e altri esorcismi. Dal rituale alla riflessività in Kapusvētki di Alvis Hermanis e New Riga Theatre, VIE2011

Nella tradizione lettone Kapusvētki (Graveyard Party) è la festa dei morti. Lo spettacolo di Alvis Hermanis e del New Riga Theatre (Vie – Scena contemporanea festival 2011 a Modena) potrebbe essere visto come la rappresentazione di una forma rituale che a teatro vede trasformare la sua efficacia simbolica in un’occasione per la riflessività. Per tutti noi che nel racconto ironico e poetico di una tradizione che non ci appartiene abbiamo a disposizione un modo per confrontarci con i “nostri” modi collettivi, e magari individuali, dell’elaborazione della perdita e dell’idea della morte.

Questa possibilità è fornita dal gruppo di attori che insieme al regista porta avanti da anni una sorta di ricerca etnografica sulla società lettone, quindi sulla propria (come focalizza una bella recensione su Altre Velocità), basata sulla ricerca di storie vere da ricomporre in chiave drammaturgica e formale visto che in scena gli attori si dispongono in fila sul palco, a garanzia di una visione frontale, per interpretare la parte dei suonatori delle bande funebri (ma suonano davvero perché hanno imparato a farlo per questo spettacolo) che si raccontano aneddoti, vicende e delusioni dovute, come per tutte le cose, a quei processi di “modernizzazione” che vedono impallidire le tradizioni. Come ad esempio la musica suonata dal vivo ai funerali, secondo le passioni e i gusti del morto (esilarante per me la versione banda funebre di Yesterday dei Beatles) sostituita dal micidiale sintetizzatore…

Scopriamo perciò, grazie anche al corredo di immagini in bianco e nero del cimitero di Riga del fotografo Martins Grauds, che la festa dei morti è un’occasione di incontro, dove si mangia e si beve all’aperto, si sta insieme mentre si sistemano le tombe, e che una celebrazione simile è la Dìa de los Muertos in Messico, con le foto a colori del cimitero di Città del Messico.

E così per noi, spettatori, una performance culturale con la sua funzione celebrativa e simbolica centrata com’è, com’era, sui corpi dei vivi e dei morti viene resa teatro cioè dispositivo dello sguardo. Non per questo meno vivo o dimentico dei morti.