The Drama of the Media. Heiner Goebbels e le sue Stifters Dinge

mini immagini da http://www.heinergoebbels.com/

Avevo già avuto modo di capire cosa intenda Heiner Goebbels con l’espressione The Drama of the Media quando durante la conferenza tenuta a Santarcangelo 39 il compositore e regista tedesco ha messo a tema il rapporto fra il concetto classico di “dramma” con quello di “dramma dei mezzi di comunicazione”, cioè a dire con un’idea di dramma che si trasferisce nella scrittura visiva e auditiva per potenziare la dimensione percettiva e i sensi del pubblico.

In quell’occasione ha mostrato dei materiali video tra cui quelli relativi all’installazione performativa Stifters Dinge (2007) che abbiamo visto ieri sera a Modena nella’ambito di Angelica Festival.

Facendo ripensare all’idea del teatro senza attori di futuristica memoria l’installazione si presenta come una composizione complessa che si sviluppa drammaturgicamente fra musica, immagini, parole e testi a partire dall’evocazione dell’opera di Adalbert Stifter, autore di inizio Ottocento, la cui opera è incentrata sul dettaglio delle cose – dinge appunto – e per certi versi della natura e della sua forza catastrofica.

Ed è la “macchina” che sta al centro di un immaginario tecnologico che rivela e svela le sue potenzialità espressive facendosi macchina scenica.

foto di Fabio Fornasari (nel dopo spettacolo)

Ed è ancora la macchina con le sue macchinerie che dà a questo lavoro il senso di una costruzione organica fatta di sequenze in immagine e sonoro piena di metafore da cogliere e attualizzare anche in maniera, mi viene da dire, molto personali. L’universalità dei linguaggi e la particolarità delle lingue, il viaggio come esperienza del “saper vedere” (evocata qui da un frammento di intervista a Levi’s Strauss ad esempio), il rapporto fra figura e sfondo (penso all’immagine riflessa in trasparenza – sullo sfondo – di quella che mi è parsa una delle battaglie di Paolo Uccello e alla sua inquadratura in frammenti, per dettaglio – figura – attraverso un piccolo schermo in primo piano), l’eterno ritorno al primordiale cui le vasche sul pavimento fra fumi e bolle d’acqua fosforescente potevano far pensare…

Sul finale l’impalcatura di pianoforti, braccia meccaniche e alberelli che scorre verso il pubblico è il saluto della macchina recitante che viene a prendersi i suoi meritati applausi. Per aver realizzato senza errori la sua performance e per essere quella “cosa” di cui il simbolico umano ha capito molto presto di non poter fare a meno.

Gruppo di amici in un Interiors. Testo analogico, ironia e questioni di soglia nello spettacolo di Mattew Lenton

Dando soddisfazione al piacere voyeristico di tutti noi la scena di Interiors – di Mattew Lenton, visto al Teatro Storchi di Modena il 13 maggio – si presenta come una normale sala da pranzo illuminata, allestita per una cena fra amici, vista da fuori. E fuori, dove stanno il pubblico e il personaggio narrante che fornisce indizi sul dialogo muto che seguiamo al di là della finestra-quarta parete, è buio pesto, è freddo, nevica e lo capiamo dalle proiezioni video su tutta la “cornice” della finestra. E lo spettacolo si gioca fondamentalmente nel dentro/fuori, ossia in quella dialettica che ripropone costantemente, anche nel teatro, la questione del guardare e dell’essere visti.

Si potrebbe quindi pensare agli spettacoli dello Squat Theatre e alle vetrine dei negozi usate come metafora della soglia fra interno ed esterno e fra le diverse possibilità spettatoriali ma si potrebbe pensare anche all’emergenza delle forme proto-televisive e dello sguardo moderno (mediato) che ci viene dalle letture mediologiche di Benjamin su Parigi (e quindi Baudelaire e quindi Poe e l’uomo della folla).

Qui la forza espressiva – e molto divertente in certi passaggi – è data dal non verbale e dal modo in cui i gesti sono calibrati mostrando, come se ce ne fosse bisogno, che la competenza comunicativa (umana) si gioca (anche) nella traduzione dal numerico all’analogico cioè sul piano delle relazioni fra i comunicanti e spesso nella non coincidenza fra ciò che si dice e ciò che si esprime.

Ispirato dal dramma Intérieur di Maurice Maeterlinck del 1895 e centrato sui temi del destino e della morte, così che anche questa opera dell’immaginario contribuisca al loro esorcismo, lo spettacolo è frutto della riscrittura da parte della compagnia Vanishing Point, e della drammaturga Pamela Carter che, come ci (a Sandra e a me) raccontava Damir Todorovic (uno degli attori e amico dai tempi di Motus), ha lavorato sulla ripulitura, sull’adattamento delle parole da non dire alle caratteristiche degli attori. E così l’efficacia dei gesti è data proprio dalla loro “naturalità” – senza naturalismo – che come sappiamo, a teatro, è molto spesso una conquista.

Un’ironia tutta anglosassone poi è quella che fa ballare una coppia a ritmo di Video Killed the Radio Star poco prima di lasciarsi, o che fa cantare in playback a Peter, il personaggio più anziano e padrone di casa, una canzone di Paul Young anche se poi scopriamo che sarà il primo di loro a morire da lì a qualche settimana… Insomma il presente e il destino incombente, l’ironia e il tragico. La vita che ci spetta.