Istantanee #sant15 (5): Ricominciare dal corpo: fra memoria e spazio pubblico

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Che la dimensione partecipativa e l’appropriazione politica dello spazio pubblico fossero il filo conduttore del Festival è evidente nei diversi progetti del programma di quest’anno. Che poi la partecipazione e l’appropriazione politica dello spazio pubblico passino attraverso i corpi è reso molto bene in alcuni dei lavori di cui ho già trattato e ai quali possono essere aggiunti senz’altro il lavoro di Tino Seghal, Untitled (2000) e Mette Ingvartsen con 69 Positions. In entrambi i casi si tratta di due performance incentrate la prima sul collage di alcune delle coreografie che hanno segnato la storia del teatro del XX secolo e che vengono in qualche modo museificate in due diverse modalità. Una eseguita da Boris Charmatz al Lavatoio, l’altra realizzata da Frank Williens in strada con una resa particolarmente efficace per il fatto che il performer agisce nudo, nella piazzetta dietro al Lavatoio protetto, ma non troppo, dal pubblico. Tanto che il finale sta suscitando in questi giorni reazioni e polemiche da parte di una certa stampa generalista su cui non mi soffermerei.

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Mette Ingvartsen invece propone una rassegna coreografata di una serie di performance degli anni settanta e dei lavori della stessa artista danese incentrati sull’elaborazione culturale e simbolica dei temi (e dei tabù ovviamente) legati alla sessualità. Anche in questo caso la performer interagisce con il pubblico completamente nuda quasi da subito e fra archivio e riattualizzazione attraverso il proprio corpo mette insieme un percorso avvincente, non senza disincanto e ironia, di quello che siamo stati e che forse siamo ancora. Il corpo, la nuda vita, è insomma ancora il terreno di scontro del simbolico e della cultura. Ripartire da lì, dalla consapevolezza della vita che passa dal corpo, può essere un modo per capire come l’arte ci spinga ad osservare un po’ diversamente le cose. Come dire: nel corpo, senza rivangare le provocazioni di 50 anni fa, si annidano rinascita e liberazione. Rebirth e liberation come nell’ultimo e catartico rituale dell’Azdora di Markus Öhrn.

Lessici famigliari. Riflessività e comunicazione in due casi del “giovane” teatro

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Fra i lavori presentati (e che ho visto) nell’ambito di Trasparenze/Festival – che per me è diventato un appuntamento da non mancare (grazie a Silvia Mei) – La famiglia Campione dei toscani Gli Omini e I ragazzi del cavalcavia delle romane Industria Indipendente marcano un ulteriore campo d’azione di quello che varie volte ho chiamato teatro riflessivo, cioè attento alle istanze di “realtà”. Per farlo utilizzano il sistema “sociale” famiglia come luogo di osservazione del “sociale” e la comunicazione come processo che lo fa funzionare. Una dinamica che inizialmente riguarda le interazioni fra i suoi membri ma che poi – sganciandosi da quelle relazioni concrete ancorate a delle persone/personaggi – va a costruire una metafora di famiglia, un costrutto simbolico, astratto e universale e perciò molto adatto per pensare.

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La famiglia Campione è uno spaccato intimo, privato su una famiglia piccolo borghese come tante – campione, appunto – che svela da subito le patologie relazionali e i paradossi comunicativi che caratterizzano il mondo più vicino che ci sia. Non è un caso che questo lavoro sia il frutto di una ricerca di stampo etnografico condotta dalla compagnia su cinque comuni della provincia fiorentina e che ha coinvolto un’ottantina di persone, producendo delle tappe confluite successivamente in questa versione dello spettacolo.

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I tre (molto bravi) attori (Francesco Rotelli, Francesca Sarteanesi, Luca Zacchini) interpretano nove personaggi (più uno – Giulia Zacchini – che vedremo solo per una attimo alla fine). Una moglie un po’ arrabbiata, un ex marito in disgrazia e arrendevole, un nuovo compagno strafottente e grossolano; quattro figli: un maschio che sta sempre in casa, una figlia inconcludente che vuole aprire una gelateria a Londra ma magari anche in Italia, un’altra (anche lei frutto della prima coppia) che si è chiusa in bagno per tentare di non comunicare; un figlio, nato dalla seconda unione e molto simile al padre, in partenza per Dubai in cerca di fortuna; tre anziani nonni che, dall’alto di una vita già vissuta, dispensano perle di saggezza con lucida ironia.

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Un lessico quotidiano dalla forte cadenza dialettale, toscana, segna gli scambi di battuta fra di loro, dà forma ai personaggi, alle loro personalità e, soprattutto, mostra l’eccesso di comunicabilità – ancor più evidente quando si tenta di non comunicare – che caratterizza un contesto sociale particolare come la famiglia e le sue dinamiche. Ad esempio l’avvicendarsi delle posizioni comunicative, la loro complementarietà: il marito debole sovrastato da quello forte, anche se poi s’impone con la sua presenza e i suoi regali alla ex e ai figli. Oppure la figlia chiusa in bagno che solo apparentemente si sottrae alla comunicazione obbligando di fatto gli altri a prenderla in considerazione e a preoccuparsi per lei. Questi scambi sono scanditi dalla presenza di mele in scena, mele che vengono morse, condivise, passate e, alla fine, accaparrate dalla figlia che se le porta in bagno. Una sorta di quasi-oggetti (direbbe Michel Serres) che, passando di mano in mano, costruiscono la relazione. Perché nonostante tutto la relazione fra questi genitori, figli, fratelli, nonni, coniugi ed ex c’è, non è da negoziare, svelando di fatto la normalità di una famiglia campione allargata che ci fa pensare e sorridere della nostra.

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Altro spaccato di “realtà” e altro scenario linguistico e culturale è quello proposto da I ragazzi del cavalcavia di Industria Indipendente (Erika Z. Galli e Martina Ruggeri), in prima assoluta a Modena il 9 maggio, vincitore del Premio Giuria Popolare Dante Cappelletti 2015. Liberamente ispirato agli incresciosi fatti di cronaca che la nostra memoria mediale sostanzia nella formula dei “sassi lanciati dal cavalcavia”, lo spettacolo descrive il passare nella città di T. delle giornate del Natale 1996 della famiglia F. Lo spettacolo quindi prende dichiaratamente spunto dalle vicende dei fratelli Furlan di Tortona che in quell’anno lanciarono dal cavalcavia di Cavallosa di Tortona il masso di tre chili che uccise la neo sposa Maria Letizia Berdini.

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Quattro fratelli maschi e uno zio si muovono lungo una serie di scene costruite per quadri che, con pochissimi elementi di contesto, riescono a definire efficacemente il frame drammaturgico. Attori (Alberto Alemanno, Maziar Firouzi, Francesco La Mantia, Daniele Pilli, Michael Schermi) e registe (Erika Z. Galli, Martina Ruggeri – assistenti alla regia Astrid Meloni/Maria Teresa Berardelli) (anche in questo caso tutti davvero bravi) ci fanno passare da una cava – o qualcosa del genere – in cui i fratelli più grandi addestrano militarmente il più giovane del gruppo al machismo e alla vera mascolinità; cercano di iniziarlo al rapporto con le donne usando una palla da bowling per descriverne la fisionomia salvo poi comportarsi da branco e coalizzarsi contro la ragazza designata quando non mostra interesse. Discoteca, droga, tifo calcistico, rivalità con altri maschi, ambiente domestico e attaccamento alla mamma si alternano a momenti in cui la presa di coscienza dei personaggi non serve che a tracciare il percorso di un destino predefinito che porta all’ultimo eccesso, all’ammazzare la noia buttando i sassi sulle macchine. Il testo spettacolare nel suo complesso funziona perché attraversa i luoghi comuni, sia linguistici sia comportamentali, riuscendo a produrre un’immagine di quel nord Italia anni novanta in cui, fra le altre cose, si è imposto un certo stereotipo del maschile, vera e propria gabbia simbolica da cui, mi pare, sia ancora abbastanza difficile uscire. http://www.youtube.com/watch?v=ecy5MhbpXwI

Memoria e riflessività. L’Antropolaroid di Tindaro Granata

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Ci voleva l’ottima stagione del Teatro Rosaspina di Montescudo per portarci vicino a casa Antropolaroid di e con Tindaro Granata.

Nel titolo sta già il senso mediologico di un lavoro che produce la fotografia di una vera e propria saga familiare e umana.

Il testo nasce dalla memoria individuale di Tindaro cioè da elementi biografici legati alla sua famiglia e alla Sicilia, sua terra di origine, per essere poi trattato attraverso un impianto drammaturgico che integra benissimo il piano del racconto con quello della sua messa in forma, una dimensione ancestrale e mitica con una moderna e adatta ai nostri linguaggi.

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Sul primo livello le vicende sono raccontate alla maniera del cunto siciliano, cioè di un’antica tradizione narrativa basata sull’oralità che rende lo stesso corpo di Tindaro il medium attraversato e che attraversa tutti i personaggi: il bisnonno suicida, la bisnonna offesa che sputa sulla sua tomba, il mafioso, la zia zitella, la nonna, l’amico, Tindaro più giovane…

Le storie che s’intrecciano sono storie d’amore, di amicizia, di mafia e lo scenario sotto traccia è quello del mondo letterario di Verga e di Pirandello, così come lo stesso Granata ci diceva durante l’incontro dopo lo spettacolo.  Qui, in sintesi, la memoria individuale è rintracciabile nel ricordo personale che si aggancia, attraverso la lingua vernacolare, alla memoria collettiva.

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Il secondo livello è quello che permette di integrare il piano narrativo orale con quello della messa in scena e della finalità teatrale. Qui la sequenza di immagini è montata in maniera cinematografica, secondo un’attitudine e una passione per il cinema che Tindaro, ci dice, ha coltivato fin da giovane. Sono brevi scene unite fra di loro sia da espedienti drammaturgici e convenzioni teatrali che lo spettatore impara in fretta (sfregarsi la faccia per cambiare personaggio o tirando su il cardigan per coprirsi la testa come se fosse un fazzoletto e diventare una delle figure femminili), sia da stacchi e rewind che spezzano la sequenza temporale.

In questo modo la trama non segue un andamento lineare ma compone un testo più complesso e adatto alla spettatorialità mediale. È così infatti che viene messo a punto un meccanismo adeguato alla riflessività perché è possibile godere della separazione fra il vissuto, che appartiene a Tindaro, e la “rappresentazione”, che appartiene al pubblico. Ed è in quella separazione che è possibile proiettarsi, sentirsi coinvolti e presi. Nella migliore, sensata (e sana) forma dell’intrattenimento possibile.

La memoria nei corpi. Appunti mediologici sugli Italianesi di Saverio La Ruina

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Si dice che certe storie vengono opportunamente rimosse dalla Storia. Un dato che può anche essere vero fino a quando la memoria della società, e i media che ne sono lo strumento, non dimostrano il contrario. E non è detto che debbano essere per forza le forme della cultura alta a riportare alla ribalta gli eventi dimenticati… Può essere anzi che un prodotto televisivo popolare sia all’origine di un lavoro sulla memoria collettiva e individuale di un fatto dimenticato.

Ed è così che è successo a Saverio La Ruina (Scena Verticale) quando, imbattendosi in un programma pomeridiano condotto da Alda D’Eusanio, ha scoperto la vicenda che al centro del bellissimo Italianesi, spettacolo in programma al Teatro degli Atti di Rimini e incluso nella rassegna curata da Fabio BruschiLingue di confine”.

L’aneddoto raccontato da La Ruina durante l’incontro con il pubblico “Identità negate – Conversazione con Saverio La Ruina, Fabio Bruschi, Laura Gemini ed Ennio Grassi” – al di là del ribadire che quello che sappiamo del mondo, e che non riguarda la nostra esperienza diretta, dipende dai media – è il pretesto per portarci dentro a uno spettacolo che ha il pregio di sganciarsi dalla vera storia da cui origina, e da cui si documenta, per assumere pienamente una finalità teatrale che trova in sé la sua qualità riflessiva.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale migliaia di soldati e civili italiani sono rimasti intrappolati in Albania con l’avvento del regime di Enver Hoxha. La maggior parte di loro però è stata accusata di attività sovversive, condannata e rimpatriata in Italia mentre le donne e i bambini sono stati internati nei campi di prigionia e sottoposti, per quarant’anni, alla violenza reale e simbolica della polizia di regime. Qui nasce nel 1951 il protagonista della storia, il sarto Tonino Cantisani che dopo aver finalmente raggiunto il padre e l’Italia nel 1991, dopo la caduta della dittatura, tornerà indietro condividendo con altri la condizione paradossale di essere straniero in ogni luogo: italiano in Albania e albanese in Italia.

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Su questo spunto La Ruina imbastisce un monologo incentrato sul racconto biografico del personaggio – una figura che assume le sembianze di un eroe-bambino, forte e garbato insieme – che procede per salti temporali. Un espediente drammaturgico basato su frammenti narrativi che passano dal presente dell’adulto, già all’inizio quando il sarto “ingaggia” il pubblico attraverso il commento alla piega dei pantaloni di uno spettatore, ai ricordi del passato, delle persone incontrate da bambino. Come ad esempio la figura paterna di mastu Giuvannu, il sarto che non solo gli insegnerà il mestiere ma l’italiano – in realtà il calabrese – che qui assume, sembrerebbe, il valore di una langue ovvero del patrimonio simbolico e collettivo che sancisce un’appartenenza. Anche se questa poi a Tonino verrà sempre in qualche modo negata.

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Una parte di racconto viene tenuta in sospeso – “ma questo ve lo dico dopo” – per poi tornarci con la ripetizione, riprendendo le parole lasciate indietro, così da permettere allo spettatore di ritrovare immediatamente il filo, stare dentro alla ricorsività del discorso. Il punto mediologico centrale è dato perciò sì dal carattere feriale del linguaggio usato (cito Ennio Grassi), ma soprattutto da un testo che è “pre-scritturale”, centrato cioè sui principi dell’oralità e sulla parola incarnata. Tutto passa attraverso quel corpo in scena, nei suoi gesti, nella sua voce e nel simbolico che contiene e a cui rimanda a partire dall’esperienza individuale e dal ricordo che non possono mai essere detti fino in fondo, per lo meno non il senso soggettivo che resta indicibile.

Un senso che il personaggio di Tonino ha elaborato dentro di sé, affidandosi all’immaginazione, all’elaborazione simbolica del trauma individuale e collettivo che lo riguarda e verso cui non prova nessun sentimento di vendetta. Allo stesso tempo però lo spettacolo lavora proprio sul passaggio dal piano individuale della comunicazione a quello relazionale, collettivo, della memoria condivisa all’interno di un dominio linguistico comune, basato sul linguaggio e il suo carattere orale.

Forse è in questo che troviamo una traccia per il nostro presente, e la qualità riflessiva di un lavoro come questo, ovvero il bisogno di ritrovare una comunità, una forma che almeno ci assomigli e che produca una sua mitopoiesi, un ideale verso cui riconoscersi… anche se qui, nello spettacolo, sono ancora un padre e una patria irrangiungibili.

Remember Thomas

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Vorrei essere anche io oggi al Velvet, fra quelli che saluteranno Thomas Balsamini.

Come molti di noi, al di là dell’essersi conosciuti di persona ed essere stati amici per un po’, ho un debito di riconoscenza nei suoi confronti. Lo Slego era un luogo dell’anima e la musica il centro dei nostri raduni settimanali. Dei nostri rituali liminoidi. Efficaci e di svago allo stesso tempo e tutto questo non può non occupare un posto importante nella memoria, individuale e collettiva.

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Pensando a quel periodo, che sono gli anni ottanta, diventa difficile separare il vissuto dall’osservazione più puntuale sulla connotazione di un territorio – quello riminese – che, come Fabio ha sottolineato in un commento ad un mio status su FB – se per lo meno rispetto al resto dell’Italia, non si è mai percepito come una frontiera di provincia lo deve soltanto a certi personaggi.

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Come Thomas Balsamini, appunto. Ragazzo della cultura e che ha giocato un ruolo cruciale nel farci capire e sperimentare mondi altri, aprendoci al passato (anche dell’industria culturale) – il mod, la Motown e la Kent, il beat… – e al presente – che era ad esempio rappresentato dal garage ma Thomas ci faceva ballare anche il primo Sting solista.

La formazione passa anche attraverso la messa a punto del gusto, segna delle fasi di appartenenza generazionale sensiva e tattile, non necessariamente ideologica e mentale, identificazione e individuazione, scelta, selezione. Insomma: senso.

La Reality della scrittura

Reality di e con Daria Deflorian e Antonio Tagliarini – ieri sera ai Teatri di Vita – è uno spettacolo basato sulla vicenda di Janina Turek, scoperta grazie al reportage di Mariusz Szczygie!, una donna polacca che per oltre cinquant’anni ha annotato su 748 quaderni ritrovati dopo la sua morte dalla figlia i micro avvenimenti della sua vita. Un catalogo minuzioso di dati fatti di telefonate ricevute (38.196); di incontri casuali di persone salutate con un “buongiorno” (23.397); di appuntamenti fissati (1.922), regali fatti, a chi e di che genere (5.817); di partite a domino (19); di programmi televisivi visti (70.042).

Il significato di questo lavoro – che fa parte di un progetto più ampio – può essere ricavato dalle parole dello Mariusz Szczygie! esplicitamente richiamate da Deflorian e Tagliarini:

Nella routine quotidiana succede sempre qualcosa. Sbrighiamo un’infinità di piccole incombenze senza aspettarci che lascino traccia nella nostra memoria, e ancor meno in quella degli altri. Le nostre azioni non vengono infatti svolte per restare nel ricordo, ma per necessità. Col tempo ogni fatica intrapresa in questo nostro quotidiano affaccendarsi viene consegnata all’ oblio. Janina Turek aveva scelto come oggetto delle sue osservazioni proprio ciò che è quotidiano, e che pertanto passa inosservato (dalla cartella stampa dello spettacolo).

Ecco allora che il riscontro con la “realtà” assume la forma, nelle intenzioni degli autori, di un “reality senza show, senza pubblico. Essere anonimi e unici. Speciali e banali. Avere il quotidiano come orizzonte”.

Perciò l’ordinario viene reso straordinario dal codice dell’arte che fa rientrare nelle sue operazioni un rituale nevrotico. Un processo che non essendo funzionale ad un progetto artistico volontario – come potrebbe essere per una come Sophie Calle che viene in mente subito – ha bisogno che qualcosa cambi il segno/senso di un comportamento apparentemente soltanto eccentrico di una casalinga di Cracovia.

Nell’intento dei due attori – bravi e capaci di credibile ironia – “non si tratta di mettere in scena o di fare un racconto teatrale attorno a lei, ma di dialogare con quello che sappiamo e non sappiamo di Janina e di creare una serie di corto circuiti tra noi e lei e tra noi e il pubblico attorno alla percezione di cosa è la realtà”.

In questo senso proprio l’uso della scrittura diventa la cifra utile a cogliere il valore della memoria, individuale, che Janina affida ai testi, e che Deflorian e Tagliarini trasferiscono sul tumblr Reality/Diario associato al progetto per dare la parola a “quello che già era janinesco” in loro e forse un po’ in tutti noi.

Tuttavia, sul piano drammaturgico, lo spettacolo non riesce a superare il tratto narrativo che pure nelle intenzioni vorrebbe evitare e in definitiva la dimensione meta-teatrale pesa sull’andamento complessivo del lavoro. Le aspettative create all’inizio, giocate anche sull’ironia di cui i due sono evidentemente capaci, non sono risolte e alla fine la nevrosi di Janina invece di “portarci dentro” diventa un po’ noiosa.

Media e vissuti nelle memorie generazionali (femminili) post 1989. She She Pop con “Schubladen” a SANTARCANGELO

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Schubladen – visto ieri al Festival diSamtarcangelo – sono i cassetti che contengono cose – libri, libri di scuola, diari, fotografie, vinili, musicassette, vodka e prosecco… – utili a tre coppie di coetanee tedesche – rappresentate dal gruppo She She Pop – provenienti dalla ex DDR (Germania dell’Est) e dalla BRD (Germania Ovest) per confrontarsi sulla memoria individuale e collettiva – e quindi sull’identità – costruitasi prima e dopo la caduta del muro di Berlino dai due diversi fronti della storia.

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Dal punto di vista femminile e femminista il confronto avviene in forma dialogica, prima a due poi insieme come a creare un sistema che confonde non solo metaforicamente le parti e le verità, nel racconto di episodi privati, anche personali e intimi, sostenuti storicamente dal rimando a canzoni, serie televisive – come La clinica della foresta nera – e accentuati dall'”occhio belva” delle video camere portatili puntate sui volti delle protagoniste di volta in volta “interrogate”.

Ne esce un lavoro che, nello stile anche ironico poetico politico cui questa compagnia ci sta abituando, riesce ad innescare il meccanismo riflessivo delle protagoniste certamente ma anche degli spettatori che si trovano a fare i conti con idee e ideologie stereotipate messe in discussione e relativizzate. Ecco perché i dialoghi vengono stoppati per cercare definizioni condivise di parole come marxismo, comunismo o per spiegare scelte e passaggi di vita che hanno bisogno di parole e di un linguaggio che le tenga insieme.

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Basti pensare a Kati Witt la pattinatrice simbolo dell’ascesa e del declino della Germania dell’est vista dalle più giovani come mito sportivo e dalle più grandi come espressione della propaganda di regime.

Dal punto di vista degli immaginari cui rimanda sarebbe interessante rivederlo là dove quella storia, che pure ci riguarda tutti, ha segnato il senso di appartenenza facendoci capire, anche attraverso qualche film e libro che ci è arrivato, che le proprie radici contano sempre, sia al di qua che al di là del muro.

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La memoria individuale e i suoi dilemmi. Appunti su As it Is a Santarcangelo 42

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Con il supporto di Valentina Carnelutti e della macchina della verità comprata su ebay Damir Todorovic – in As it Is visto a Santarcangelo il 15 luglio – indaga sulla memoria e perciò sul dimenticare. E quindi sul tempo.

Sembrerebbe di poter dire, in modo più mirato, che in questo caso il punto sia la memoria individuale (quella di Damir) che viene messa alla prova della teoria e quindi dei piani del corpo e della mente, da un lato, ma anche della relazione che su questo livello rimanda gioco forza alla dimensione collettiva (di un dramma storico) e sociale (il modo per comunicarla).

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Il processo è apparentemente semplice: Valentina pone a Damir delle domande a partire dal diario che lui, soldato in Bosnia nel 1992, scriveva non sempre in lucidità durante la guerra. L’intento dichiarato è quello di stanare, con la macchina della verità e perciò della tecnica, la differenza fra la realtà dei fatti e il ricordo che ne resta fra elaborazione e rimosso.

Se i fatti accaduti sono stati raccontati a caldo nel diario e affidati alla memoria dei media attraverso la scrittura (e il linguaggio) allora As it Is è uno spettacolo che ha per tema la memoria individuale cioè quel livello che – per lo meno negli studi di Maurice Halbwachs e i due Assman (Jan e Aleida ma si veda per un’analisi che mette in fila tutto Roberta Bartoletti) – proprio per essere oggetto della condivisione con il pubblico si predispone alla comunicazione, cioè all’esterno, come memoria della mente, cioè della coscienza, ma che tuttavia, nel caso di eventi così tragici, deve fare i conti con la memoria del corpo, dentro di sé, non cosciente e incomunicabile.

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Lo spettacolo è questo. La traduzione teatrale della forma biografica non può che portare a mettere in campo i piani della rappresentazione e la continua frizione fra “realtà” e “finzione”. I due si confrontano un po’ per davvero un po’ per finta su fatti che dall’accadimento sono passati attraverso la scrittura e poi di nuovo nell’oralità.

E il teatro come dispositivo che tiene insieme le due modalità diventa non solo per Damir – così mi pare di capire dopo qualche parola che ci siamo scambiati – il luogo della sua personale elaborazione simbolica, e perciò “curativa”, ma il contesto riflessivo in cui vissuto e rappresentato si avvicendano in modo da dare allo spettatore la possibilità di operare per identificazione e/o per proiezione, per coinvolgimento e/o per distacco.

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O forse così dovrebbe essere perché non sempre la resa corrisponde all’aspettativa che suscita. Il meccanismo dello spettacolo andrebbe a mio modestissimo parere perfezionato per evitare certe forzature, soprattutto nel trattare il rapporto vero/falso, che in un lavoro del genere stonano un po’.

[foto 2 e 3 Ilaria Scarpa, foto 1 e 4 foto mie].

Memoria, generazioni, media. Un’eterna ghirlanda brillante?

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A parte il riferimento all’Eterna Ghirlanda Brillante del Godel, Esher, Bach di Douglas Hofstadter che casualmente mi ritrovo in questi giorni a riprendere in mano, vorrei provare qui a fare un piccolo lavoro di restituzione delle relazioni presentate al panel Memoria e Generazioni del convegno Media + Generations svoltosi all’Università Cattolica di Milano l’11 e il 12 settembre scorsi.

A ben vedere poi il titolo non è così peregrino perché le relazioni presentate – ma tutto il convegno in generale e la ricerca che ne è alla base mi sembra lo confermino – possono essere interpretate a partire da una sorta di funzione che correla i media, le generazioni e la memoria. Cioè: se i media sono la memoria della società e se riguardano anche quei collettivi immaginati che chiamiamo generazioni, allora il rapporto fra questa memoria e le generazioni va vista nei modi in cui questa memoria, attraverso i media, viene articolata e ridefinita in termini generazionali. Sì insomma una correlazione che tende all’infinito.

Certo, mi faceva presente Roberta che lavora sulla memoria, che la differenza fra memoria collettiva e culturale (nei termini di Halbwachs e poi dei due Assman giustamente citati nelle relazioni), nonché (e questo mi interessa più di tutto) fra memoria e ricordo. Che mi viene da tradurre in termini di riflessività, di accoppiamento fra media e vissuti.

E’ il caso delle Mediateche domestiche oggetto dell’analisi di Olimpia Affuso e Simona Isabella che si interroga sul “senso del conservare” nel passaggio verso le memorie leggere degli archivi digitali. Ma l’aspetto più interessante mi sembra vada colto nel rapporto fra memorie d’uso e “oggetti mnestici” che prescindono dall’uso per potenziare il valore simbolico che viene negoziato dentro la casa, fra i suoi membri, in chiave generazionale.

Il teatro di narrazione di “seconda generazione” è il tema di Laura Peja che avanza un’interessante ipotesi sulla ricerca espressiva e sulle “urgenze” degli esponenti più giovani di questo genere di teatro (Celestini, Enia, Perrotta). La funzione testimoniale e documentaria – informativa – che ancora sembra caratterizzare ancora il lavoro di Paolini si traduce in esperienza più personale in questi autori e in una forma che tende al recupero del racconto mitico della cultura orale. La teoria della performance e la dinamica riflessiva della performance culturale possono essere le leve per affondare questa intrigante – per me sicuramente – tematica.

Ancora nei termini del rapporto fra vissuto (generazionale) e media mi sembra si orienti La videonarrazione autobiografica come risorsa memoriale di Maria Soldati. Nonostante il progetto di ricerca azione e del lavoro di comunità che ne è il risultato quello che mi sembra centrale è la messa a punto di un saggio visuale che metta insieme drammaturgicamente il racconto biografico – e quindi il ricordo – con la ricostruzione di una vicenda collettiva (ad esempio l’immigrazione) attraverso uno strumento – la videonarrazione – adatto alla spettatorialità e alla consapevolezza (mediologica) di agire “come” e “per” la spettatorialità.

Mi sono chiesta, e l’ho chiesto anche ad Elisa Soncini, se ci fosse una provocazione “trasmissiva” nell’intervento Testimonianza mediali e legami intergenerazionali: il ruolo dei media nella trasmissione della memoria. Un lavoro bello fra memoria comunicativa e memoria culturale, fra anziani e giovani chiamati a confrontarsi sulla visione comune di “testimonianze mediali” centrate su eventi del passato. E qui viene anche a centrare parecchio l’immaginario collettivo, supportato dai media ovviamente (dal cinema neorealista a eventi marcatori – e mediali – come lo sbarco sulla luna) oltre e a prescindere dal racconto dei testimoni. Mi viene da dire che se il ricordo non si trasmette sono di certo interessantissimi i meccanismi che permettono di attivare la riflessività ossia una dinamica di produzione dell’informazione, anche sul passato, e su un passato che non è direttamente il proprio, e forse un dialogo intergenerazionale che vale la pena sondare.

Infine, in ordine di presentazione, la lettura semiotica di Matteo Treleani che concentra la sua attenzione su La costituzione della memoria negli archivi video online, a partire dal confronto fra YouTube e Ina.Fr. Mi intriga l’applicazione dello schema lettore-modello/lettore-empirico di Umberto Eco che diventa qui utente-modello/utente-empirico. Ma l’analisi è ben più raffinata, non ricostruibile qui, perché compara i modi di funzionare dei due siti facendo leva sia sulla loro destinazione di target (potremmo dire) – i giovani per YouTube e gli adulti per gli Archives pour tous dell’Ina – sia sui modi di costruirsi come archivi e di inscrivere perciò un utente e un modello di navigazione nella memoria collettiva. Se YouTube costituisce un’espereinza frammentaria e contingente, più adatta all’utente empirico giovane mi sembra di capire, Ina.Fr produce la messa in scena di un percorso di rintraccibilità della navigazione che esprime anche una diversa attualizzazione della memoria, una maggiore valorizzazione del passato. Mi chiedevo se uno schema ancora legato al lettore – un concetto moderno – fosse applicabile a strumenti che segnano una svolta cruciale per il senso di posizione nella comunicazione del pubblico/utente. Matteo risponde di sì, anzi di più. Io non lo so. Ma la sfida cognitiva è interessante.

Non riesco a rendere merito della discussione nel panel, grazie anche al contrubuto di chi è venuto a seguirlo. Ma si sa, ci sono delle cose che succedono dal vivo e che mantengono la loro unicità per lo meno nel ricordo di ognuno e nel senso che ne darà.

Balance

equilibrista

credit foto qui

Non è che si colleghino molto le cose che sto per dire ma in queste giornate di bellissimo caldo e di fantastico sole mi sono trovata a pensare al bisogno di equilibrio.

Le mosse prendono il via dal caso di Catherine Bailey, l’avvocatessa inglese che si è uccisa qualche giorno fa. In un commento su ilSole24Ore che non ho più trovato si parlava della ricerca di un life-balance (non credo che l’espressione sia proprio questa) che permetta alle persone, e in particolare alle donne che tengono famiglia, di conciliare ed equilibrare appunto il coinvolgimento attivo nei diversi ambiti della propria vita sociale e dell’esistenza personale. Questioni di inclusione insomma.

Sempre di equilibrio mi sembra che per certi versi parli anche il post di danah boyd sulle vacanze e sui modi con cui si tende a registrare e condividere ossessivamente i ricordi. E’ interessante perché fa presente come i meccanismi di creazione di una memoria da condividere su eventi come le proprie vacanze rimandi a vari processi che conosciamo tutti molto bene (magari perché a volte li subiamo nostro malgrado): riprendere e fotografare ossessivamente, condividere con gli altri la profusione di immagini generate e che riguardano il passato. Con piattaforme come twitter invece si tende a condividere il momento, quello che si sta vedendo o facendo. Discutibile? Può darsi.

Can we please have a moment of silence for the power of costraint? Kthx. The issue with recording and sharing in contemporary society is that is far far far too easy to go everboard. This where we struggle to find balance. Just because you can share every detail doesn’t mean you necessarily should.

Ecco perché le discussioni al baretto della spiaggia con gli amici refrattari verso l’uso dei SSN e del famigerato FB, e io che sono scarsissima mi trovo a fare il difensore d’ufficio, tendono poi a dirottare verso un argomento che più o meno soddisfa tutti e cioè l’equilibrio. Stare un po’ nelle conversazioni significa accettare che l’inclusione sociale passi anche da lì. Non significa raccontare tutto di sè, mettere necessariamente in piazza i fatti propri (poi magari leggersi Chi sul lettino perché rilassa). E non significa privilegiare relazioni di superficie su quelle profonde face to face. Senza contare che adduco altri argomenti in difesa: tipo l’approfondimento di certe informazioni, la loro reperibilità, ecc.

Però è anche vero che poi sono io la prima a innervosirsi quando viene perso, secondo parametri che non possono che essere soggettivi, quel certo equilibrio che male non fa. Avere delle possibilità non significa percorrerle tutte per forza. Possiamo anche privilegiare la selezione sul rinvio. Lo dice anche la boyd.