La banalità del bene. Il personal “Jesus” di Babilonia Teatri

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(foto di Marco Caselli Nirmal)

Con Jesus – visto nel meraviglioso Teatro Olimpico di Vicenza il 25 ottobre poco dopo il debutto a Vie FestivalBabilonia Teatri incontra la storia più famosa e più pop di tutte. Per lo meno da noi. Quella di Gesù raccontata nei Vangeli. Per raccontarla a loro volta i Babilonia si affidano alla struttura drammaturgica e alla lingua che ha caratterizzato i loro primi lavori e che si presta a mappare l’immaginario collettivo ovvero la compagine di immagini generalizzate e semplificate con le quali, più o meno superficialmente, abbiamo impattato tutti.

Apparentemente meno graffianti del solito i Babilonia imbastiscono anche in questo caso una serie di quadri che, attraverso l’enunciazione serrata di testi-immagine, servono per portare al tema della morte, croce e delizia della loro poetica. Ma la morte, si sa, è anche quella parola-problema che – come suggeriscono le teorie sull’immaginario da Jung, Bachelard, Durand, Le Goff, Morin – motiva il bisogno di sacro che si manifesta ovunque, anche nella società-mondo occidentale, e richiede di essere metabolizzata ed esorcizzata con l’ausilio delle pratiche simboliche. Pratiche che peraltro ci riguardano come consumatori di storie, a volte stereotipate, popolari, superficiali ma che pure permettono di elaborare l’esperienza, di mettere ordine nel disordine delle nostre paure.

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Il primo testo incalza in maniera meta-teatrale parlando della costruzione dello spettacolo e di come l’idea di dedicare uno spettacolo proprio a Gesù abbia portato in superficie qualcosa che c’era ma non si vedeva. Uno sfondo da cui a un certo punto sono emerse la figura di Gesù e della religione cattolica per poi propagarsi tutt’intorno, in ogni cosa: nella televisione, nelle edicole, nelle immagini e nei discorsi del papa… Gesù è quello della stampa ovale di un cristo con l’aureola che finirà nel bagno di casa di Castellani e Raimondi, la statuina del presepio, la versione italiana di Jesus Christ Superstar con Ted Neeley, Shel Shapiro e Pau dei Negrita.

Una diffusione così capillare di immagini e rappresentazioni che non può essere ridotta, che non può aiutare alla messa a punto di uno spettacolo dedicato a Gesù tanto da tentare i Babilonia ad abbandonare l’impresa.

Poi l’epifania, la rivelazione, la chiave per appropriarsi del tema e trattarlo teatralmente: il figlio Ettore chiede, mentre fa il presepio insieme ai genitori, che legame esista fra la statuina di Gesù bambino e l’immagine di quello adulto che morirà sulla croce. Ettore scopre così la morte degli altri e anche la sua mentre, allo stesso tempo, Raimondi e Castellani trovano un innesco per impostare il lavoro.

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Prima di tutto la dimensione biografica che porta alle estreme conseguenze quella tensione verso la verità della scena che abbiamo visto negli altri spettacoli, non ultimo naturalmente il Pinocchio con i tre protagonisti provenienti dalla Casa di Risvegli di Bologna.

Affrontare la morte vuole dire anche affrontare la vita, le sue grandi domande e il semplice quotidiano nel quale a volte si può anche trovare conforto. Magari nel corpo delle persone amate. E allora nella penombra della scena Enrico e Valerio si spogliano e si abbracciano perché in questa messa a nudo c’è la nuda vita, l’essere vita e il dare la vita che si oppongono alla non-vita. In questo modo non solo la morte, come tema della comunicazione sociale, non viene rimosso né, mi pare, affrontato con una acritica professione di fede alla religione cattolica, ma viene trattata alla maniera di Babilonia.

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La religione cattolica che ci educa alla norma e al senso di colpa viene reinterpretata con la banalità delle cose normali, con la richiesta di poter vivere la vita senza dogma rintracciando piuttosto nella religione il suo senso più profondo di re-ligo, di relazione e corrispondenza amorosa con gli altri al di là dell’esistenza di un dio che forse può restare “inchiodato nei crocifissi inchiodati al muro”.

E se prima, in The end, i Babilonia reclamavano il loro boia adesso invocano un loro/nostro Gesù personale che sia la bontà dell’amore senza tante restrizioni normative intorno.

Niente di nuovo né di particolarmente originale nei contenuti ma costruito efficacemente attraverso la correlazione dei testi e dei gesti sulla scena. Come il ballo sfrenato del finale sul Personal Jesus dei Depeche Mode in cui trapelano l’autoironia e l’immaginazione dei Babilonia nutriti dei prodotti della cultura di massa, del cinema, del musical.

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Per motivi tecnici al Teatro Olimpico non abbiamo visto l’ultima scena dello spettacolo che Castellani e Raimondi – le loro voci registrate – hanno descritto: il figlio Ettore, così come succedeva sul finale di Pinocchio, viene imbragato, sollevato da terra e fatto volare felice.

Un gesto di speranza, fra i tanti possibili, che di questi tempi (a me) male non fa.

Vedere la voce. Mediologia e immaginario nel King Arthur diretto da Motus

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(foto dal sito motusonline)

King Arthur è una dramatick opera, o semi-opera, termini con cui si definisce una forma mista di teatro e musica che combina i brani musicali con parti sia cantate sia recitate, basata sul libretto del poeta John Dryden con le musiche di Henry Purcell.

Andata in scena per la prima volta a Londra nel 1691 la trama, in estrema sintesi, ha per protagonisti Re Artù e l’amata Emmeline, principessa di Cornovaglia resa cieca da un incantesimo, contesa con il re sassone Oswald del Kent sullo sfondo del conflitto tra Bretoni e Sassoni. Una forma mimetica della rivalità, quella fra Arthur e Oswald, sostenuta dalla complicità, per il primo, di Merlino e dello spirito dell’aria Philidel e, per il secondo, del mago nero Osmond e dello spirito della terra Grimbald. Nello scontro decisivo fra le due armate e nel duello fra i due rivali sono i Bretoni e Artù ad avere la meglio. Artù può ricongiungersi finalmente a Emmeline e Merlino fa nascere dal mare le isole britanniche.

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La storia, più complessa di così e con molti altri personaggi nella versione originale, può essere considerata un’allegoria della congiuntura storico-politica che Dryden, regista e allestitore dei propri testi, ha dovuto affrontare con il passaggio traumatico dal cattolicesimo degli Stuart, di cui era poeta di corte, al protestantesimo di Guglielmo D’Orange.

Il testo quindi reca le tracce di un conflitto “reale” che nell’opera viene traslato in quello fra cristiani e pagani ovvero in quella coppia oppositiva in cui il rapporto noi/loro include la variabile temporale – il pagano è il non ancora cristiano – e che giustifica la lotta per la supremazia di una prospettiva di osservazione del mondo su un’altra. Mostrando peraltro molti e inquietanti segni di attualità con i conflitti contemporanei tra occidente e medio oriente.

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In questa piega lo sguardo sul presente di Motus riesce a trovare lo spazio per imbastire una versione del King Arthur che è una visione (per usare una descrizione di Luca Scarlini, dramaturg) altrettanto stratificata e complessa della semi-opera barocca originale. Di questa mantiene il carattere ibrido già di suo adatto al lavoro di Motus ma potenziato nella resa drammaturgica della tensione fra lotte terrene – che nello spettacolo eseguono le parti recitate – e forze soprannaturali – che eseguono le parti cantate – e dalla metateatralità con cui i personaggi commentano le loro azioni, applicano lo sguardo riflessivo sul teatro ma anche sul rapporto con il pubblico e con la critica.

Il contrasto fra due parti (Bretoni e Sassoni, Arthur e Oswald, cristiani e pagani) che struttura la vicenda trova una sua sintesi compiuta nella lotta fra il bene e il male a sua volta associata, in una interessante struttura per doppi, al binomio caldo/freddo traducendo in questo modo una questione concettuale in una forma sensibile, corporea, legata agli stati d’animo interiori: il caldo dell’amore e del bene contro il freddo della politica, della guerra, della morte.

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E infatti Arthur – bravo e credibile Glen Çaçi – è presentato come un eroe stanco e innamorato che preferisce l’amore alla guerra. Archetipo dell’eroe maschile che rivendica la sua ambivalenza di essere forte e fragile insieme già da subito quando entra in scena portando in bilico sulla testa la sua spada, altro segno-simbolo della verticalità e del regime maschile e diurno dell’immaginario che qui invece è caduco, notturno, sensuale.

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Come Emmeline d’altronde – potente e carismatica Silvia Calderoni – che essendo cieca media attraverso il corpo il suo rapporto con il mondo. Un rapporto tattile centrato sul toccare e sul sentire. Sul bios più che sul logos tanto che, una volta rotto l’incantesimo e recuperata la vista, dovrà fare i conti con uno statuto diverso della realtà e con un vuoto di senso del simbolico dove “la parola non coincide all’oggetto”.

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La “cartografia della scena” allestita da Enrico Casagrande e Daniela Nicolò delinea uno scenario post-apocalittico con a terra una grande immagine stampata della visione aerea dei territori bombardati durante la Seconda Guerra Mondiale nel confine fra Francia e Germania e sul palcoscenico, dove stanno attori, cantanti e musicisti, una foresta di alberi spogli e scuri, tronchi caduti, leggii e strumenti musicali di legno. A questo spazio terreno si oppone lo spazio aereo delle proiezioni video che nell’insieme di voci, parole, suoni, luci definisce “la macchina percettiva entro cui si muove Emmeline” ma anche il dispositivo sinestesico che impegna lo spettatore ad un continuo “zapping percettivo” (prendendo a prestito una definizione di Paolo Rosa).

La relazione fra video e scena decreta il collasso fra interno ed esterno, tanto che attori e cantanti si muovono visibili dietro le quinte fino alla strada dietro al teatro.

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In altre parole lo spettacolo mette in sincrono piani dello sguardo che sono distinti sia sul piano spaziale sia su quello del tempo – video registrato, ripresa in diretta, mixaggio, primi piani, particolari e visioni d’insieme – e che contemplano lo stesso sguardo dello spettatore sullo spettacolo che guarda dal vivo.

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Un “caleidoscopio barocco di illusioni” che viene messo al servizio dello spirito del tempo, che viene attualizzato dopo aver ampiamente superato le questioni dei Teatri Novanta e del “video in scena”, perché la macchineria illusoria è svelata, parla un linguaggio naturale che è quello delle tecnologie dell’immagine e delle possibilità che il digitale fornisce essendo divenuto la forma quotidiana della nostra esperienza senza doverlo ancora mettere a tema.

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Nel King Arthur – visto a Rimini nell’ambito della Sagra Musicale Malatestiana e che sarà al RomaEuropa Festival il 18 e il 19 ottobre – collassa l’immaginario Motus. L’occhio belva e la visio gloriosa, la ricerca estetica (anche nei costumi provenienti dall’archivio Marras), la questione del potere (sebbene sotto traccia) che collega questo lavoro alle ricerche precedenti e in particolare allo spettacolo Nella tempesta e le ambientazioni periferiche, urbane, macerie e rovine segni di crolli, anche potenziali, ma dove non manca la speranza che l’amore vinca sulla guerra, o le cose belle su quelle brutte. Così come il rimando all’utopia realizzabile è una cifra che ricorre nella poetica di Motus.

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Motus si cimenta per la prima volta con la regia di un’opera musicale rinnovando così l’attenzione per l’apparato sonoro sempre presente nei loro lavori e che in questo King Arthur può essere apprezzata (come si legge molto bene nella recensione di Roberta Pedrotti) nell’attualizzazione drammaturgica offerta dall’Ensemble Sezione Aurea, l’ensemble diretto dal violinista Luca Giardini e con le belle voci e le efficaci presenze dei soprani Laura Catrani, Yuliya Poleshchuk e del controtenore Carlo Vistoli.