Schegge di Primavera #3. Corpo-voce. Il Cantico dei Cantici di Roberto Latini

fortebraccio_teatro_il_cantico_dei_cantici_3_fabio_lovino_.jpgCon Cantico dei Cantici, in anteprima nazionale a Primavera dei Teatri, Roberto Latini affronta uno dei testi più lirici e inusuali delle Sacre Scritture. Attribuito ora al Re Salomone, ora a un autore anonimo del IV secolo avanti Cristo, il testo è costruito in 8 capitoli contenenti poemi d’amore in forma dialogica tra Salomone e Sulammita. Sia nell’interpretazione cristiana, sia in quella ebraica il testo va inteso in senso trascendente rispetto alle immagini erotiche che contiene perché l’amore ha origine divina, riguarda l’amore tra Gesù e la Chiesa nel primo caso o l’amore di Dio per il popolo d’Israele.

Ma è proprio da queste declinazioni dogmatiche che Latini libera il testo trasformando il senso religioso in re-ligo, in relazioni cioè che attivano i corpi, quei corpi che nel patto teatrale sono quelli dell’attore in relazione con i suoi spettatori. Quello che Latini offre è la relazione incarnata di un corpo-voce che si dà tutto, sensualmente ed eroticamente attraverso le parole del Cantico e grazie a una costruzione drammaturgica praticamente perfetta che mette in relazione – parola chiave che torna – spazio, oggetti, tempo, musica e suoni.

FORTEBRACCIOTEATRO-IL-CANTICO-DEI-CANTICI.jpgMusica e suoni (curati da Gianluca Misiti) sono colonna portante della drammaturgia che usa i codici estetici del pop ed è anche un esempio di quel processo di mediatizzazione che riguarda le forme espressive contemporanee, non tanto per l’uso dei media ma per le modalità con cui i media sono parti dell’esperienza. E allora ci stanno i Placebo con Every you and every me, canzone d’amore che sembra una versione laica e disturbata del Cantico, ci sta A far l’amore comincia tu di Raffaella Carrà nella versione di Bob Sincler, che forse non a caso rimanda a una delle scene più famose de La grande bellezza, così come ci sta il cinema e il Cantico dei Cantici che la giovane Deborah legge a Noodles in C’era una volta in America.

Lo spazio è quello di una onirica postazione radiofonica e Latini si presenta come uno stralunato dj-joker (cappotto viola, parrucca, rossetto), che alterna l’ascolto della musica in cuffia, l’affabulazione e il silenzio. Si alza, viene al microfono, balla, attraversa lo spazio fino al crescendo finale per in cui l’ultima parte del poema diventa uno struggente parlato-cantato. Toglie il travestimento e riaffiora tutta l’umanità del performer insieme al senso sacro del teatro.

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Il gioco relazionale della rappresentazione nel Nowness Mystery di Cuquí Jerez. Spielart 2011.

Con The Nowness Mystery Spielart 2 dicembre 2011 – Cuquí Jerez, con la complicità delle scanzonate Maria Jerez, sua sorella, e Amalia Fernández, interroga i limiti della rappresentazione, il rapporto fra performer e spettatori e in definitiva, coerentemente con un percorso di ricerca che fa da filo rosso a molta della produzione contemporanea, i livelli di realtà che stanno in rapporto dialettico (dentro/fuori) con la finzione.

La piéce si compone come un montaggio di sketch in cui le due attrici in scena improvvisano situazioni banali e giocherellone che vengono collegate senza soluzione di continuità nel tempo previsto e cronometrato dall’inizio dalla stessa Cuquí.

An experiment. A work based on the experience of the present. The void of the present as a space for opportunity and a spece for failure (Cuquí Jerez, foglio di sala).

Ed è lei che da un angolo fuori dalla scena – ma a ben vedere presente e protagonista alla maniera di Tadeusz Kantor – trascrive sul portatile, collegato al proiettore che permette di leggere sullo schermo, commenti sulla resa o meno delle “trovate”, per dirla con Barthes, delle due attrici oppure battute e pensieri che rivolge direttamente agli spettatori.

Nell’andamento dello spettacolo –  processo dinamico fatto di comportamenti recuperati e di spunti improvvisati – c’è la consapevolezza del funzionamento dell’intrattenimento come meccanismo drammaturgico che deve portare da qualche parte, ma senza essere narrativo, verso la conclusione di una “scenetta” da collegare a quella successiva finché il tempo a disposizione lo permette.

Il senso ultimo del Nowness Mystery sembra poi stare tutto in quelle note di regia e in quei flussi di pensiero condivisi in nome del processo comunicativo e ralazionale con gli spettatori. Nella creazione di un evento che, pensato e realizzato così, non può che essere unico e irripetibile, frutto della dinamica comunicativa e del dominio consensuale creato qui ed ora in quella realtà misteriosa e senza tempo del teatro e del suo immaginario.

Stalking, quando la semantica dei media va a segno

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Chi l’avrebbe mai detto che la parola stalking e il riconoscimento anche giuridico del fenomeno sarebbero rientrati nel mainstream e nel linguaggio comune? Bè lo avevano detto i media che si sono inventati una parola d’effetto per descrivere quanto la psichiatria cominciava a definire come una particolare patologia della relazione. Chi ha letto L’amore fatale di McEwan ricorderà, oltre la storia, l’appendice sulla sindrome di de Clerambault, che faceva luce su questo tipo di fenomeno. Di grande appeal anche per il cinema. Tanto per citare un film: Attrazione Fatale. Ma ce ne sono anche altri. Senza contare poi che le prime “vittime” dello stalking sono le star e i personaggi famosi, dal caso celeberrimo della Hingins a Madonna, il che appunto fa di questo fenomeno un tema ghiottissimo per i media e per i suoi criteri di notiziabilità anche quando riguarda la gente comune. Ne ho scritto anche io grazie all’opportunità – dall’amico Gian Maria Galeazzi e Paolo Curci dell’Università di Modena e Reggio che se ne occupavano da tempo insieme agli esperti delle università straniere – che mi è stata data addirittura nel 2004, di studiare e osservare un po’ la cosa. I risultati si trovano nel volume Stalking e nel congresso internazionale tenutosi a Modena.

Oltre alla dimensione mediale – e alla semantica dello stalking che ne deriva – l’aspetto interessante è dato dal carattere relazionale della patologia. Cioè dal modo in cui si connota comunicazionalmente: tant’è che – così come succede per la comunicazione – è il destinatario delle attenzioni dello stalker che fa emergere lo stalking. Come dire: finché non c’è la percezione vittimologica, l’auto-osservazione di sè come vittima (cioè la comprensione della differenza fra atto del comunicare e informazione) non c’è reato, non c’è stalking.

Ecco allora che se adesso la possibilità dello stalking si trasferisce su Facebook, dalla notizia di oggi che ha ispirato questo post, i conti teorici ed empirici non possono che tornare.

Solo spunti. I post mi piacciono corti.

Appunti su Santarcangelo. Quali pubblici connessi per il teatro?

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Mi ha fatto piacere essere invitata da Silvia Bottiroli all’incontro con operatori, artisti, studiosi avente come tema il “format” festival. Quello che personalmente ne ricavo – e che è un po’ quello cui ho cercato di agganciarmi io quando ho chiesto la parola – è un ragionamento sul teatro, il pubblico, i media.

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O meglio: la proliferazione di festival e di eventi non mi rimanda per forza a un modello di fruizione televisiva, nel senso di passiva (a partire dall’Assessore Ronchi). Primo perché abbiamo a disposizione una teoria della comunicazione che ci spiega come le cose non stiano necessariamente in questi termini (vedi: informazione come auto-produzione cognitiva), secondo perché la partecipazione ai festival mette in campo un interesse della gente verso la conoscenza (verso la quale a volte non è male mettersi “soltanto” in ascolto) e non solo il presenzialismo a tutti i costi.

Nel caso di un festival di teatro – come quello di Santarcangelo – ci sono però elementi come la radicalizzazione nel territorio – così come ha sottolineato Enzo Pezzella anche in relazione alla sua esperienza in Belgio se non ho capito male – che permettono una drammaturgia della città funzionale alla relazione fra spettatore ed evento cui partecipa. Questo per me è un aspetto interessante se e qualora si integra alla dimensione meta-territoriale dell’attività spettatoriale basata sulla logica e sostenuta dalla rete. Nel mio piccolo mi sono permessa di richiamare gli operatori a monitorare “il cambiamento di senso della posizione nella comunicazione” ormai avviato. Come dire: bisogna tenere in debito conto il cambiamento che in generale riguarda le audience.

Lo spettatore di un festival come quello di Santarcangelo fa parte più o meno di un pubblico non dico esperto, neanche io lo sono, ma interessato. Che ha una certa “competenza comunicativa” che non significa “che ne sa” ma che sa come orientarsi a questo genere di evento, a scegliere gli spettacoli da vedere e come vederli. Ma non basta.

La spettatorialità è un’attività che si sviluppa e che continua al di là della localizzazione territoriale e del tempo di un festival e che può rilocalizzarsi nella rete attraverso le forme di conversazione – sui network – intorno al festival, agli spettacoli visti (perché la dimensione dal vivo è una cifra indispensabile qui), agli artisti che si sono aprezzati (o meno) e che rende spettatore anche chi non c’era. Ma che potrebbe esserci o che ci sarà virtualmente (cioè: in altri tempi, luoghi, occasioni). Dove, non sottovalutiamolo, esprimendosi si mettono in gioco reputazione e pertinenza.

Non si tratta tanto di usare creativamente la creatività del pubblico o il web 2.0 – il caso di YouDrama di cui ha parlato Giorgia Penzo anche se molto interessante – ma di monitorare i processi comunicativi spontanei che riguardano il teatro e il rapporto performer/spettatore che pur evolvendo nella revisione del rapporto agire/esperire e dei pubblici connessi non toglierà, ce lo auguriamo, all’artista il suo valore e la sua funzione.