Nord Est (In)felix. La società della prestazione nel teatro riflessivo dei Fratelli Dalla Via

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Sembra proprio che una certa parte del teatro contemporaneo italiano stia affondando in maniera esemplare le questioni sociali che, per lo meno da noi, ruotano intorno alla “semantica della crisi”.

Ne è un caso particolarmente riuscito Mio figlio era come un padre per me dei Fratelli Dalla Via, visto al Teatro Rosaspina di Montescudo il 16 febbraio scorso e spettacolo vincitore del Premio Scenario 2013.

In sintesi la storia racconta di due fratelli – in scena gli stessi Marta e Diego Dalla Via – provenienti da una famiglia arricchita del nord est italiano, padre imprenditore del legno e madre americana con un passato da Miss, che architettano l’omicidio per crepacuore dei genitori attraverso il loro suicidio. Ma non riusciranno nell’intento perché i genitori – come altri imprenditori a rischio di fallimento – decidono di farla finita per primi. Spiazzandoli e dimostrando, ancora una volta, come nel conflitto fra generazioni sia ancora quella più giovane ad avere la peggio.

Il modo migliore per uccidere un genitore è ammazzargli i figli e lasciarlo poi morire di crepacuore: era il nostro piano perfetto, ma papà e mamma ci hanno preceduto e si sono suicidati per primi. Ora ci tocca di seppellirli. Ora ci tocca di vestirli. Ora ci tocca rispettare le ultime volontà di due cadaveri. Hanno vinto loro, di nuovo. I morti sono i padroni di questa epoca (dalla scheda dello spettacolo).

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In scena i due fratelli coordinano le loro mosse seguendo una partitura fisica (ideata da Annalisa Ferlini) e si scambiano le battute in un italiano regionale che rende perfettamente il senso di un testo che varrebbe la pena di leggere, non fosse altro per come riesce a mettere insieme elementi del quotidiano e dell’immaginario vernacolare con quelli più universali, riconoscibili e pop.

Basti vedere la prima scena dove i due fratelli seduti su sgabelli fatti di cassette di plastica usati per le bottiglie, oggetti di scena che vengono spostati, smontati e rimontati a fini drammaturgici per tutto il corso dello spettacolo, scartocciano e mangiano boeri, sfidandosi in un gioco infantile mentre si scambiano idee per mettere a punto il loro piano. Conversazione inframmezzata dalla descrizione dello scenario che dà corpo a tutta la vicenda, il nord est, la matrice cristiana della cultura borghese, la biografia e i caratteri dei genitori ma anche riflessioni sul presente e sul futuro, la paura di ingrassare, gli Spriz da bere… Un panorama simbolico rinforzato dalla colonna sonora scritta da Roberto di Fresco per questo lavoro e da canzoni come Vivere e morire a Treviso e È colpa mia de Il Teatro degli Orrori.

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Ne emerge la spietata quanto riflessiva immagine della società della prestazione che esacerba la differenza fra le generazioni e il senso d’impotenza che la semantica della/delle crisi rende sempre più stringente. Forse anche più del dovuto.

E quando alla fine i due costruiranno, sempre con le cassette in una specie di danza funebre, le tombe dei genitori morti, ascolteremo le loro preghiere di commiato, quelle che abbiamo imparato a catechismo e che qui vengono riscritte e desacralizzate con giochi di parole e di senso a tratti esilaranti. Quasi a dirci che il senso “religioso” si è spostato da un’altra parte.

Ecco allora che quello dei Fratelli Dalla Via corrisponde ai caratteri del teatro riflessivo, agganciato alle istanze di una “realtà” che non viene rappresentata in senso stretto quanto osservata e quindi costruita. Il che vorrebbe dire che qui la “realtà” viene trattata attraverso una prospettiva “dall’interno” cioè esperienziale (che non vuol dire biografica però). Una prospettiva che a sua volta viene espressa attraverso una scrittura incarnata capace di tenere insieme il simbolico che è nel corpo (bios), quello della vita e della morte di cui il testo ci parla, con quello più astratto del linguaggio (logos) e che ancora ci serve per affrontare il mondo in cui viviamo.

Memoria, generazioni, media. Un’eterna ghirlanda brillante?

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A parte il riferimento all’Eterna Ghirlanda Brillante del Godel, Esher, Bach di Douglas Hofstadter che casualmente mi ritrovo in questi giorni a riprendere in mano, vorrei provare qui a fare un piccolo lavoro di restituzione delle relazioni presentate al panel Memoria e Generazioni del convegno Media + Generations svoltosi all’Università Cattolica di Milano l’11 e il 12 settembre scorsi.

A ben vedere poi il titolo non è così peregrino perché le relazioni presentate – ma tutto il convegno in generale e la ricerca che ne è alla base mi sembra lo confermino – possono essere interpretate a partire da una sorta di funzione che correla i media, le generazioni e la memoria. Cioè: se i media sono la memoria della società e se riguardano anche quei collettivi immaginati che chiamiamo generazioni, allora il rapporto fra questa memoria e le generazioni va vista nei modi in cui questa memoria, attraverso i media, viene articolata e ridefinita in termini generazionali. Sì insomma una correlazione che tende all’infinito.

Certo, mi faceva presente Roberta che lavora sulla memoria, che la differenza fra memoria collettiva e culturale (nei termini di Halbwachs e poi dei due Assman giustamente citati nelle relazioni), nonché (e questo mi interessa più di tutto) fra memoria e ricordo. Che mi viene da tradurre in termini di riflessività, di accoppiamento fra media e vissuti.

E’ il caso delle Mediateche domestiche oggetto dell’analisi di Olimpia Affuso e Simona Isabella che si interroga sul “senso del conservare” nel passaggio verso le memorie leggere degli archivi digitali. Ma l’aspetto più interessante mi sembra vada colto nel rapporto fra memorie d’uso e “oggetti mnestici” che prescindono dall’uso per potenziare il valore simbolico che viene negoziato dentro la casa, fra i suoi membri, in chiave generazionale.

Il teatro di narrazione di “seconda generazione” è il tema di Laura Peja che avanza un’interessante ipotesi sulla ricerca espressiva e sulle “urgenze” degli esponenti più giovani di questo genere di teatro (Celestini, Enia, Perrotta). La funzione testimoniale e documentaria – informativa – che ancora sembra caratterizzare ancora il lavoro di Paolini si traduce in esperienza più personale in questi autori e in una forma che tende al recupero del racconto mitico della cultura orale. La teoria della performance e la dinamica riflessiva della performance culturale possono essere le leve per affondare questa intrigante – per me sicuramente – tematica.

Ancora nei termini del rapporto fra vissuto (generazionale) e media mi sembra si orienti La videonarrazione autobiografica come risorsa memoriale di Maria Soldati. Nonostante il progetto di ricerca azione e del lavoro di comunità che ne è il risultato quello che mi sembra centrale è la messa a punto di un saggio visuale che metta insieme drammaturgicamente il racconto biografico – e quindi il ricordo – con la ricostruzione di una vicenda collettiva (ad esempio l’immigrazione) attraverso uno strumento – la videonarrazione – adatto alla spettatorialità e alla consapevolezza (mediologica) di agire “come” e “per” la spettatorialità.

Mi sono chiesta, e l’ho chiesto anche ad Elisa Soncini, se ci fosse una provocazione “trasmissiva” nell’intervento Testimonianza mediali e legami intergenerazionali: il ruolo dei media nella trasmissione della memoria. Un lavoro bello fra memoria comunicativa e memoria culturale, fra anziani e giovani chiamati a confrontarsi sulla visione comune di “testimonianze mediali” centrate su eventi del passato. E qui viene anche a centrare parecchio l’immaginario collettivo, supportato dai media ovviamente (dal cinema neorealista a eventi marcatori – e mediali – come lo sbarco sulla luna) oltre e a prescindere dal racconto dei testimoni. Mi viene da dire che se il ricordo non si trasmette sono di certo interessantissimi i meccanismi che permettono di attivare la riflessività ossia una dinamica di produzione dell’informazione, anche sul passato, e su un passato che non è direttamente il proprio, e forse un dialogo intergenerazionale che vale la pena sondare.

Infine, in ordine di presentazione, la lettura semiotica di Matteo Treleani che concentra la sua attenzione su La costituzione della memoria negli archivi video online, a partire dal confronto fra YouTube e Ina.Fr. Mi intriga l’applicazione dello schema lettore-modello/lettore-empirico di Umberto Eco che diventa qui utente-modello/utente-empirico. Ma l’analisi è ben più raffinata, non ricostruibile qui, perché compara i modi di funzionare dei due siti facendo leva sia sulla loro destinazione di target (potremmo dire) – i giovani per YouTube e gli adulti per gli Archives pour tous dell’Ina – sia sui modi di costruirsi come archivi e di inscrivere perciò un utente e un modello di navigazione nella memoria collettiva. Se YouTube costituisce un’espereinza frammentaria e contingente, più adatta all’utente empirico giovane mi sembra di capire, Ina.Fr produce la messa in scena di un percorso di rintraccibilità della navigazione che esprime anche una diversa attualizzazione della memoria, una maggiore valorizzazione del passato. Mi chiedevo se uno schema ancora legato al lettore – un concetto moderno – fosse applicabile a strumenti che segnano una svolta cruciale per il senso di posizione nella comunicazione del pubblico/utente. Matteo risponde di sì, anzi di più. Io non lo so. Ma la sfida cognitiva è interessante.

Non riesco a rendere merito della discussione nel panel, grazie anche al contrubuto di chi è venuto a seguirlo. Ma si sa, ci sono delle cose che succedono dal vivo e che mantengono la loro unicità per lo meno nel ricordo di ognuno e nel senso che ne darà.

Generazioni X. Motus e i racconti della giovinezza

X (ics) Racconti crudeli della giovinezza [x 0.2 movimento secondo] dei miei cari Motus – al Teatro della Fortuna di Fano il 2 aprile scorso – mi fa pensare a come stiamo affrontando le tematiche generazionali. In particolare penso ai diversi (anche per contenuto) passaggi che si trovano ad esempio qui, qui, qui, qui).

Per quel che mi pare di vedere questo lavoro, per come è costruito, per il modo in cui tratta la giovinezza e il suo immaginario – nel senso della comunicazione per immagini – esprime perfettamente un’idea di un certo modo di essere giovani oggi che fa leva su un immaginario transgenerazionale. Per me qui le generazioni X sono sia quelle dei giovanissimi protagonisti, sia della figura più adulta che interagisce con il bambino (Dany Greggio), sia i Motus stessi, che rappresentano noi e la nostra storia mediale.

Un’estetica della giovinezza – che poi è una poetica – che è fatta di forme e linguaggi: il punk e l’hip hop, gli scenari metropolitani, i video game, Star Wars e le spade laser, le arti marziali; le felpe, le all star e i roller blade, il mantello da super eroe; ma anche di temi e contenuti: l’espressione di sè come differenza (individuazione e identificazione come leve per l’identità), la ricerca di verità e valori (antiborghesi), l’amore, il gioco e il rischio, la guerra.