Un catalogo-blob per Santarcangelo Festival 2017

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C’è un frame culturale che inquadra Santarcangelo Festival 2017, l’edizione curata da quest’anno da Eva Neklyaeva in co-curatela con Lisa Gilardino. Ne ho parlato su D’Ars MAGAZINE di Arti e Culture Contemporanee. Qui mi prendo lo spazio per ricostruire il mio personale catalogo blob. Mi rifaccio cioè all’immagine usata dal Festival per sintetizzare l’idea anti-disciplinare e aperta della manifestazione che, per sua struttura, si rivela adatta alla partecipazione delle performing audience, quella cioè dei post-spettatori le cui modalità di fruizione degli eventi comunicativi non si risolvono più nel guardare ma nel sentirsi parte, a diversi livelli, dei processi creativi. Sia durante le manifestazioni dal vivo, nella selezione, nell’attribuzione di significati, fino al coinvolgimento vero e proprio, sia nelle pratiche di condivisione con gli altri offline e online di un’esperienza o di un’opinione. Le categorie o parole chiave che qualificano il Festival – performance + music + party – e il blob come immagine cangiante che dipende dall’autonomia dei processi di osservazione, devono essere considerate come snodi di un pensiero che valorizza le pratiche, le esperienze, la riflessività. Quello cioè che chiamiamo immaginario performativo. Performance è dunque il concetto inclusivo che permette di inquadrare le forme che vanno dal rito, al teatro fino alle pratiche ibride emergenti rispetto ai generi ed è per questo che music e party ci stanno bene, perché rimandano a delle pratiche che sono ancestrali – il suono, l’oralità, la festa – ma che pure mutano nel tempo le loro caratteristiche adattandosi ai nuovi ambienti.

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La nutrita programmazione di concerti – Baby Dee, Gnučči, Phurpa, Enrico Malatesta e Giovanni Lami – e dj set – fra gli altri Giuseppe Moratti + Trinity, Cubi, Tropicantesimo, Khan of Finland, Lady Maru & St.Robot, Silvia Calderoni – spiega in parte il senso della parola chiave music che, insieme a party, sottolinea l’importanza attribuita alle occasioni di socialità, di apertura a un pubblico non soltanto interessato al teatro, della creazione di comunità temporanee che si connettono in un luogo specifico come Santarcangelo. Cittadina che per tutta la durata del Festival cede i suoi spazi alle performance e fornisce i luoghi in cui creare occasioni di efficacia ma anche d’intrattenimento, dove rispondere al bisogno di ritualità che i tempi moderni non possono eliminare ma, va ribadito, soltanto modificare.

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Non è un caso che il tendone da circo dell’Imbosco, ai piedi del Parco Cappuccini poco fuori dal centro, sia stato il punto d’incontro del Dopofestival, luogo-simbolo fra i più fotografati e postati in rete. In quest’ottica si chiarisce anche la predisposizione degli habitat, altra parola chiave che sta ad indicare una serie di spazi abitati da artisti e da altri soggetti, come il collettivo Macao di Milano, per definire una propria programmazione di performance, incontri, mostre, talk dedicati alle istanze culturali e politiche del nostro presente: dalle questioni identitarie alla riflessione sulla produzione artistica come processo chiamato a ripensare il cambiamento sociale.

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Proprio per la loro stanzialità temporanea gli habitat sono stati concepiti come contesti di elaborazione della visione curatoriale e degli artisti. Primo fra tutti il MUSEUM OF NONHUMANITY, delle finlandesi Terike Haapoja e Laura Gustavsson, che promuove un’idea del mondo non più fondato sulle differenze fra umano e non-umano, capace di integrare e di valorizzare le diversità. Un progetto che può essere associato all’idea dell’armonia organica ed erotica con la natura che è al centro di Club Ecosex degli australiani Pony Express: un ambiente onirico e immersivo (grazie anche all’uso di occhialini 3D) per gli spettatori.

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La relazione con il pubblico, inteso come soggetto attivo e performativo, caratterizza anche l’habitat Play House del collettivo Wauhaus, la mostra Il crepuscolo è dei poeti e degli appartamenti allestita in un appartamento vuoto nel centro di Santarcangelo da Eva Geatti, l’originale B&B DAI Dimora Artisti Indipendenti gestito dal gruppo Azdora, risultato del progetto attivo dal 2015 con cui l’artista associato al Festival Markus Öhrn ha lavorato sulla figura dell’azdora romagnola coinvolgendo un gruppo di donne locali di cui “Dai!” è tra l’altro il loro grido rituale. La piscina Acquadiccia, infine, è l’habitat acquatico di Splash! Libera la sirena che è in te del sirenetto americano Merman Blix, riconosciuta icona del Festival. Espressione ironica di un’idea della corporeità e dell’identità che però pone come centrale la questione del corpo come corpo politico.

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Un’indagine non ancora risolta perché se, da un lato, i regimi scopici otto e novecenteschi, i principi della conoscenza scientifica, lo sguardo etno-centrico e coloniale sono i principali responsabili di una messa in mostra oscena della diversità e dell’abnorme prevalentemente subìta da chi ne è il portatore, oggi la questione è ancora più complicata. Dai media di massa prima, che mostrano o nascondono a seconda delle proprie strategie di potere, ai nuovi media poi. Media che si prestano ora all’auto-esposizione, ora alla perdita di controllo della propria immagine mettendo ancor più in evidenza come le questioni dell’alterità riemergano costantemente minando sempre di più la già fragile mitologia della felicità che è alla base dell’immaginario moderno e occidentale.

Come dimostra il catalano Quim Bigas Bassart con Molar (che significa “prenderci gusto”) performance realizzata nello spazio aperto dello Sferisterio in cui fra danze, canzoni, relazione con gli spettatori fa emergere il significato ambiguo della felicità. Il corpo – come corpo politico, deposito dialettico delle istanze culturali, dei pregiudizi, dello sguardo come pratica sociale, situata e sessuata – è al centro dei lavori di Francesca Grilli che in The forgetting on air affronta il tema delle migrazioni usando il respiro come manifestazione del corpo e dell’aria come territorio di scambio, elemento comune a tutti per vivere.

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L’idea del corpo politico riguarda i casi dei lavori portati a Santarcangelo da Chiara Bersani che, soprattutto con Goodnight, Peeping Tom, indaga sulla potenza del desiderio e della sessualità; dalla coreografa Silvia Gribaudi con le brevi azioni in strada A corpo libero e con lo spettacolo R.OSA. 10 esercizi per nuovi virtuosismi in cui Claudia Marsicano gioca con la sua fisicità corpulenta.

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Così come Michael Turinsky – il suo corpo, la sua danza e la sua sedia a rotelle – è la Ravemachine della coreografa austriaca Doris Uhlich che campiona i rumori della sedia per costruire la partitura techno dello spettacolo.

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Corpi politici sono anche quelli di Über Raffiche (nude expanded version) di Motus. Spettacolo ripensato per il Festival come versione estesa di Raffiche, a sua volta re-enactment al femminile dello spettacolo Splendid’s (da Jean Genet). Qui le 8 attiviste transfemministe, che si battono contro il regime patriarcale, stressano i loro corpi e le loro convinzioni nelle 3 ore in cui la performance viene ripetuta in loop, così che la resa finale della banda non sia mai definitiva, come la lotta per i propri ideali che può sempre ricominciare. Versione esteticamente potentissima grazie all’allestimento aperto e di taglio cinematografico che evoca molteplici immagini (Da Tarantino a Von Trier, da 007 alle Charlie Angels…).

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In Yellow Towel la canadese Dana Michel, Leone d’Argento alla Biennale Danza 2017, indaga sugli stereotipi della cultura nera con un linguaggio personalissimo – movimento, improvvisazione, parole – che richiama la sensibilità dell’Art Brut. L’attivazione del corpo in chiave autobiografica è presente nell’esposizione ossessiva della propria immagine nel lavoro di Samira Elagoz Cock, cock… who’s there? e in Between Me and P. di Filippo Michelangelo Ceredi che ricostruendo la storia del fratello scomparso restituisce uno spaccato generazionale – la Milano degli anni ’80 – con rigore e affondo emozionale.

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Corpi in crescita e in trasformazione sono il fulcro degli spettacoli OZ e Futuro Perfetto, risultato dei laboratori con gruppi di adolescenti della Non-Scuola/Teatro delle Albe e Let’s Revolution Futuro Perfetto curato da Teatro Patalò. A sua volta la Compagnia Simona Bertozzi/Nexus con And it burns, burns, burns porta avanti la sua ricerca su Prometeo concentrandosi sulla relazione/scontro fra corpo in crescita e corpo maturo. La relazione fra corpi e l’incontro come possibilità di emergenze impreviste può essere infine una chiave di lettura di (Untitled) Humpty Dumpty di Cristina Kristal Rizzo (coreografa e danzatrice) & Sir Alice (musicista) che sono entrate in contatto senza conoscersi aderendo a un progetto del Festival di Avignone. Performance, music, party sono le parole chiave con cui il Festival sottolinea la dimensione ritualistica della performance contemporanea, l’urgenza di riattingere al simbolico ancestrale ma con le istanze del presente. Lo dimostrano la cerimonia inaugurale di Markus Öhrn dal titolo Terra bruciata. Molotov Cocktail Opera e Spirit performance di Mara Oscar Cassiani con un gruppo di ragazzi che ha seguito un suo laboratorio che collega i carnevali e le danze tradizionali con la cultura del clubbing e del rave.

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E per finire ancora la musica: come condivisione e matrice del legame sociale nel progetto HM/House Music Santarcangelo di Strasse; come connettore fra due esseri umani e con ciò che li trascende in Silent/Shout, breve rituale a due, fra uno spettatore e Trinity (dj, videomaker, stylist) che sceglie cosa fare ascoltare in cuffia sulla base dell’alchimia estemporanea fra due soggetti in relazione.

Un insieme magmatico di progetti, spettacoli, occasioni – un blob appunto – che però mantiene una sua logica sistemica, organizzata su una visione forte, ma aperta e suscettibile di essere osservata da prospettive diverse. Quello che ci serve per affrontare la complessità del mondo e i suoi confini sfumati. Qui mi pare che la performance continui proprio a svolgere la sua funzione.

Schegge di Primavera #3. Corpo-voce. Il Cantico dei Cantici di Roberto Latini

fortebraccio_teatro_il_cantico_dei_cantici_3_fabio_lovino_.jpgCon Cantico dei Cantici, in anteprima nazionale a Primavera dei Teatri, Roberto Latini affronta uno dei testi più lirici e inusuali delle Sacre Scritture. Attribuito ora al Re Salomone, ora a un autore anonimo del IV secolo avanti Cristo, il testo è costruito in 8 capitoli contenenti poemi d’amore in forma dialogica tra Salomone e Sulammita. Sia nell’interpretazione cristiana, sia in quella ebraica il testo va inteso in senso trascendente rispetto alle immagini erotiche che contiene perché l’amore ha origine divina, riguarda l’amore tra Gesù e la Chiesa nel primo caso o l’amore di Dio per il popolo d’Israele.

Ma è proprio da queste declinazioni dogmatiche che Latini libera il testo trasformando il senso religioso in re-ligo, in relazioni cioè che attivano i corpi, quei corpi che nel patto teatrale sono quelli dell’attore in relazione con i suoi spettatori. Quello che Latini offre è la relazione incarnata di un corpo-voce che si dà tutto, sensualmente ed eroticamente attraverso le parole del Cantico e grazie a una costruzione drammaturgica praticamente perfetta che mette in relazione – parola chiave che torna – spazio, oggetti, tempo, musica e suoni.

FORTEBRACCIOTEATRO-IL-CANTICO-DEI-CANTICI.jpgMusica e suoni (curati da Gianluca Misiti) sono colonna portante della drammaturgia che usa i codici estetici del pop ed è anche un esempio di quel processo di mediatizzazione che riguarda le forme espressive contemporanee, non tanto per l’uso dei media ma per le modalità con cui i media sono parti dell’esperienza. E allora ci stanno i Placebo con Every you and every me, canzone d’amore che sembra una versione laica e disturbata del Cantico, ci sta A far l’amore comincia tu di Raffaella Carrà nella versione di Bob Sincler, che forse non a caso rimanda a una delle scene più famose de La grande bellezza, così come ci sta il cinema e il Cantico dei Cantici che la giovane Deborah legge a Noodles in C’era una volta in America.

Lo spazio è quello di una onirica postazione radiofonica e Latini si presenta come uno stralunato dj-joker (cappotto viola, parrucca, rossetto), che alterna l’ascolto della musica in cuffia, l’affabulazione e il silenzio. Si alza, viene al microfono, balla, attraversa lo spazio fino al crescendo finale per in cui l’ultima parte del poema diventa uno struggente parlato-cantato. Toglie il travestimento e riaffiora tutta l’umanità del performer insieme al senso sacro del teatro.

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Rappresentazione senza rappresentazione. The evening di Richard Maxwell

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Che la forma teatrale ci metta costantemente di fronte alle possibilità del processo del raddoppiamento di realtà, ovvero dei modi con cui il meccanismo realtà/finzione può essere articolato, è un assunto noto. The Evening, recente lavoro di Richard Maxwell e della sua compagnia New York City Players, andato in scena il 19 e il 20 maggio all’Arena del Sole di Bologna, ne è un’ulteriore, particolarmente interessante, dimostrazione.

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Sul piano dell’immaginario The Evening “rappresenta” uno scenario che, per lo meno all’occhio dello spettatore italiano, rimanda all’America che nasce dal western (tema peraltro già trattato da Maxwell) e finisce nei bar e nelle solitudini di quei personaggi un po’ persi, eroi caduti o meglio ancora caduchi, raccontati dal cinema e dalla serialità televisiva contemporanea. Identità fragili, post 11 settembre viene da dire, che si confrontano più o meno esplicitamente con la morte sullo sfondo dell’inferno dantesco cui questo lavoro dichiara di ispirarsi.
Ed è così che inizia lo spettacolo: Cammisa Buerhaus in scena legge un testo che racconta gli ultimi giorni di vita di uomo accudito dal figlio. Prologo biografico dello stesso Maxwell che ha perso il padre durante la scrittura di questo spettacolo.
Poi entrano gli attori e viene costruita una storia con dei personaggi – una prostituta-barista (Bea interpretata da Cammisa Buerhaus), un pugile in declino (Asi aka Brian Mendes), un manager sballato (Cosmo aka Jim Fletcher) – accompagnati da un gruppo musicale (James Moore, Andie Springer, David Louis Zuckerman) che suona dal vivo le musiche (anche queste di Maxwell) nella più normale situazione da bar: avventori che interagiscono e musicisti che vanno avanti imperterriti nell’escalation drammatica.

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C’è una relazione transitiva fra i tre personaggi, fra i loro desideri mancati: lei vuole andare via; il pugile vuole trattenerla; il manager la sostiene perché trova nello “sballo” la sua propria forma di fuga. Fino a quando lei non spara a entrambi e da lì, spogliando i compagni e rivelando il dispositivo scenico della sacca con il sangue finto nascosto sotto i vestiti, comincia a essere smontata la scena: il bar, gli strumenti, le casse vengono tolte e viene ricostruita una scena siderale, completamente bianca, in cui i tre si fermano e lei, indossata una giacca di pelo bianco ci proietta in un altro immaginario ancora, fantascientifico e primordiale, recitando un’ultima poesia.

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È questo il dispositivo tutto teatrale su cui viene messa a punto una particolare declinazione del raddoppiamento di realtà: la rappresentazione – la trama, i suoi personaggi, la scenografia iper-realistica – tracima nella non-rappresentazione attraverso una serie di espedienti drammaturgici fatti di presenze sceniche e relazioni “improprie” (per dirla con Piersandra Di Matteo) che rompono e mantengono il patto finzionale con lo spettatore (Ferraresi).

Prima di tutto il testo: dal prologo biografico alla serie di dialoghi banali, normali che diventano via via più lirici e potenti fino alla dimensione poetica del finale. La recitazione sottratta, meccanica, per personaggi “disossati” (ancora Di Matteo), che proprio per questo possono essere trattati da Maxwell come archetipi, adatti alle necessità simboliche del nostro tempo ovvero a figure ambivalenti, sbagliate, che attivano meglio i processi d’identificazione e proiezione del pubblico. I musicisti “veri”, la musica “vera” che solo in parte sembra fare da contrappunto e da coro alla vicenda per poi andare per i fatti suoi. La scenografia – il bancone, la tv che trasmette una partita di football americano, il tavolino, le sedie, le birre, la pizza – costretta in uno spazio ridottissimo, stretto sul proscenio che diventa costrizione reale – quando lei cerca di scappare da lui non può far altro che nascondersi dietro al batterista e di fatto restare sempre lì, ad esempio – e prigione simbolica, metafora degli atti mancati, del desiderio che non riesce ad avverarsi e che pian piano muore.

Istantanee #sant15 (4): Grande Madre Azdora

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Con Azdora l’artista svedese Markus Öhrn tratta l’arcaica figura della “reggitrice”, o come si legge nella descrizione del lavoro, della madre di famiglia, padrona del focolare, autoritaria ma mai distruttiva, riconsegnandole la sua parte oscura, ovvero l’ambivalenza dell’archetipo. Le azdore di Romagna coinvolte nel progetto diventano le protagoniste di una serie di rituali che coinvolgono, a diverso titolo i partecipanti. Preparate durante, l’inverno secondo un percorso visibile nei video proiettati nella prima sala dello spazio Seagi, le azdore sono le vere e uniche officianti dei rituali pagani, la cui resa – potente, diabolica e divertente – è potenziata dall’immersività dell’ambiente caldissimo e riempito delle sonorità elettroniche prodotte con la complicità di ?Alos (del duo OvO).

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Nello spazio liminoide di un evento teatrale – cioè di un’occasione di svago, da fruire nel proprio tempo libero – viene messo a punto un dispositivo capace di attingere alla potenza simbolica dei rituali liminali, di passaggio, trasformativi. Basti pensare al RITUAL #3 Eternal commitment (reservation is compulsory) dove ad una persona prescelta dopo una prova viene tatuato (per davvero) il nome dell’azdora che vuole ricordare.

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In un’occasione ad alto tasso partecipativo e di engagement come il progetto Azdora, quella che facciamo, in sintesi, è l’esperienza dell’efficacia simbolica, della partecipazione corpo/mente ad un evento che rientra a pieno titolo fra gli esempi dell’immaginario performativo, cioè dell’esperienza incarnata delle immagini.

Istantanee #sant15 (3): #MDLSX una playlist biografica

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© Ilenia Caleo

Con MDLSX Motus prende di petto la cultura genere e nel farlo, come ci ha abituato da tempo, prende anche posizione chiamando in causa, insieme al romanzo di Eugenides che fa da filo conduttore dello spettacolo, nomi come quelli di Donna Haraway, Judith Butler, Rosi Braidotti ovvero il pensiero femminista che coniuga la teoria del postumano con la performatività di genere. Con quel che ne dovrebbe conseguire sul piano dell’umanità. Umanità che qui è incarnata, proprio nel corpo, da Silvia Calderoni che dà davvero tutto, sancendo un patto definitivo con lo spettatore.

Motus, ancora una volta, fa una cosa che non ti aspetti. Usa la narrazione, la forma del romanzo intrecciata meta-teatralmente da brandelli biografici di Silvia in video e scandita da una playlist musicale. Altre immagini nel video-oblò proiettano fiori che si schiudono, metafora della sessualità e della vita.

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© Ilenia Caleo

La performance si svolge in questa specie di piccolo night club dove Silvia si muove su un tappeto triangolare – simbolo potente che va dal triangolo del dramma greco al triangolo rosa usato dai nazisti per i prigionieri omosessuali – le luci da discoteca, il microfono, il laser che illumina e taglia il corpo di Silvia. Un corpo senza organi, avrebbe detto Caronia a partire da Artaud, che rifiuta la cultura patriarcale come logos in cerca di una nuova postumanità.

Un teatro a intimità connessa. Primi appunti su #sant13

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Santarcangelo 13 Festival Internazionale del Teatro in Piazza è un Festival e come tale prima di tutto una totalità, un’entità sistemica, da intendere come un tutto che è più della somma delle sue parti.

Un po’ come l’acqua, che è l’esempio più efficace di quello che le teorie chiamano un fenomeno emergente: l’acqua è una qualità diversa dalle molecole d’idrogeno e ossigeno che la compongono. Allo stesso modo un festival va inteso come fenomeno emergente e deve essere considerato nel suo complesso.

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Tuttavia un sistema è anche meno della somma delle sue parti perché le caratteristiche dei singoli elementi possono disperdersi per il funzionamento del “tutto”. L’idrogeno e l’ossigeno hanno delle specifiche qualità diverse dall’acqua che, nell’acqua vengono a perdersi… e il fatto che siano diverse significa che sono qualità né inferiori né superiori al tutto.

Questo vuol dire che al di là di alcune letture su questo Festival che ne mettono in luce criticamente i caratteri generali, la prospettiva di osservazione può anche spostarsi sulle parti e sul modo in cui le singolarità delle proposte artistiche, e le loro qualità, possono essere colte.

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Kate McIntosh – All ears foto Ilaria Scarpa

Fra i lavori visti fino ad ora – il Festival è iniziato il 12 luglio – l’aspetto più evidente e caratterizzante è quello di una certa pratica dell’intimità che non è soltanto quella dei piccoli formati cui stiamo assistendo ma una linea interpretativa per niente scontata del mutamento sociale che stiamo vivendo e che essendo in atto è più difficile da comprendere.

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Gertjan Franciscus Van Gennip – The honey queen foto Ilaria Scarpa

Il lavoro dello spettatore con se stesso e la relazione attore/spettatore – da Art you lost, a All ears di Kate McIntosh, Cristina RizzoGertjan Franciscus Van Gennip e Brian Lobel – sono luoghi di osservazione delle dinamiche dello stare insieme che stanno ridefinendo il nostro modo di intendere ed esercitare il rapporto fra pubblico e privato.

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Questa modalità è quella che da un po’ definiamo “intimità connessa”. La mia intimità è espressa in ambienti della comunicazione che sono pubblici ma non per questo si trasforma in estimità o nella oscena messa in pubblico del mio privato. Non è un caso che, in controtendenza con il solito giudizio apocalittico sui media sociali un lavoro come Purge Lectures di Lobel, Facebook possa essere trattato come ambiente ideale per la messa a punto di una drammaturgia sull’amicizia, sull’amore, ecc.

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L’intimità e l’intimismo delle performance-assolo che stiamo vedendo è forse il frutto delle mancanze – di risorse ad esempio – ma forse è anche un modo per riflettere sul mutamento in atto che riguarda la stessa intimità. Per questo anche la qualità delle parti non deve per forza essere subordinata alle esigenze del tutto.

Le realtà dell’immaginario. Appunti da una giornata di studio su cinema, teatro e “realtà”

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Una giornata di studio intitolata Le realtà dell’immaginario. Riflessioni fra cinema e teatro per una sociologia della performance (anche su Tamburo di Kattrin) poteva prestarsi a giochi semantici e interpretativi diversi, non fosse altro perché partiva dal presupposto che l’immaginario sia una cosa “reale” e con conseguenze “reali” legato com’è al patrimonio simbolico di una comunità e di ognuno di noi. L’ipotesi principale riguardava la possibilità di rintracciare nella compagine delle produzioni culturali di stampo performativo una tendenza “realistica” – intesa come necessità di tenere conto di istanze di realtà – che può essere trattata, anche in chiave critica, come sorta di reality-trend o in modo più avalutativo come cortocircuito fra linguaggi della rappresentazione e linguaggi di realtà (ad esempio qui). Una necessità emersa intorno al 2000 anche sulla spinta del trauma collettivo dell’11 settembre 2001.

Abbiamo chiesto ai nostri ospiti – Erika D’Amico ed io con il supporto di Rodolfo Sacchettini – di confrontarsi con una domanda e con le sue implicazioni sociali, estetiche, metodologiche e perciò sulla qualità riflessiva delle performance culturali.

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La realtà, come questione che si pone oggi come opportunità creativa e come istanza cui rimandano le performing art sia a livello formale sia a livello di contenuto, è stata trattata da Enrico Pitozzi nell’intervento dal titolo Trasfigurazioni sceniche del reale a partire dagli aspetti della ricerca intorno a performance e tecnologie nonché al rapporto fra realtà e reale, concetti diversi fra di loro, che si manifestano nell’oggetto corpo. Quello di Pitozzi è un punto di partenza teorico – ed epistemologico – che pone l’accento sul riferimento interno dell’osservazione e sul fatto che la realtà di un corpo è un lavoro più invisibile di quanto siamo abituati a pensare perché riguarda il funzionamento della percezione ed è basata sull’idea del cervello simulatore, che proietta verso l’esterno piuttosto che cogliere le informazioni da fuori.

Nel campo della performance questi assunti sono messi alla prova con le tecnologie di captazione del movimento e come strumenti per la sperimentazione coreografica. Ad esempio nei lavori della canadese Louise Lecavalier.

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Il secondo versante di articolazione del rapporto fra realtà e immaginario è quello proposto da Alfonso Amendola  – Real to real o dell’immaginario audiovisivo – con riferimento al campo dell’audiovisivo sperimentale caratterizzato dal concetto di reality e dal concetto di narrazione del reale nelle forme del video teatro, della video arte e soprattutto della video poesia (o dei video poemi) che trattano ciclicamente temi come la politica, la militanza, l’eroina, il rapporto con propria terra, fino alla malattia e ai complessi territori della memoria.

Un caso per tutti: la ricerca del lucano Antonello Faretta, vicina alla poetica di Abbas Kiarostami e radicata nel territorio – la Lucania appunto – e alle storie. Dalla malattia raccontata in Garden of Hope (similmente a Nick’s Movie di Wenders per capirsi), a Nine Poems in Basilicata, opera basata su L’ultimo nastro di Krapp di Beckett, in cui la cultura underground delle letture performative di John Giorno, esponente della beat generation americana ma originario lucano, si mischia al sapere arcaico della terra rappresentato da un’anziana lucana. Per arrivare al progetto – verrebbe da dire di etnografia audiovisiva – cui lavora da 5 anni incentrata sulle storie degli abitanti resilienti di Craco, vero e proprio paese fantasma, e ispirato all’Antologia di Spoon River. Fra parole chiave come leggerezza, nuova economia, voyeurismo, esposizione sembra emergere, conclude Amendola, la necessità di raccontare quello che ci accade intorno con lungimiranza e concretezza, abitare le emozioni ma anche le concretezze non per un facile tributo romantico ma per il desiderio di creare micro relazioni sensate, per amplificare la trasversalità dei nostri sguardi e creare spazi di conoscenza o, semplicemente, per ragionare sulle categorie del noi.

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Per Dario Tomasello nell’intervento dal titolo Dispositivi dell’autofiction in Italia tra narrativa, drammaturgia e cinema (2002-2012), quel momento traumatico che ha determinato la vocazione rinnovata alla realtà, il crollo delle Torri Gemelle, ha avuto un peso molto forte in ambito letterario e prodotto una discussione elaborata e riassorbita nel corso dell’ultimo decennio e che va letta alla luce del dibattito sul rapporto fra post-modernismo e realismo. Sta di fatto che se proviamo a pensare il ritorno al realismo come copertura efficace del post-modernismo o meglio la religione del realismo come maschera del post-modernismo, allora l’autofiction – cioè quel genere letterario basato sulla drammatizzazione biografica dell’autore – sarebbe il suo profeta. Il dispositivo  – che ricorda un certo modo della drammaturgia teatrale – è quello del citazionismo e del giocare in prospettiva con la propria biografia negandosi… Gomorra e Saviano ma soprattutto, per Tomasello, Aldo Busi, Antonio Moresco e Walter Siti.

Per altri versi – da vedere in prospettiva trans-mediale – il meccanismo dell’auto-fiction può essere visto nel passaggio al romanzo dal teatro e ritorno alla performance da vivo, alla narrazione monologante, di uno come Davide Enia oppure, della poetessa Jolanda Insana o di Mauro Covachic con la sua pentalogia culminante nell’installazione in cui l’autore si incarna nel suo personaggio, così da cogliere la necessità di recuperare il carattere orale e corporeo delle parole.

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Con Roberto Danese e Fabio Tarzia entriamo nei regimi notturno e diurno dell’immaginario, almeno secondo la classificazione di Durand, per cogliere tra l’altro la dialettica tra dimensione meta-territoriale e dimensione situata, la declinazione spaziale (geografica) e temporale che serve all’immaginario per rifunzionalizzare gli archetipi.

Basti pensare, come primo caso, al film di Toshio Matsumoto Funeral Parade of Roses, oggetto della riflessione di Roberto Danese Edipo mon amour: dietro le maschere del Giappone anni ’60 fra teatro classico e cinema d’avanguardia. Una riflessione che tiene conto, prima di tutto, del cinema come linguaggio che rimanda costantemente a se stesso, con i suoi agganci ad altro, con le citazioni interne, ecc. per poi rendere evidente il modo con cui un film degli anni ’60 sia stato in grado di raccontare il mutamento della società giapponese. Un processo che parte dalla struttura del teatro greco classico, nella fattispecie l’Edipo Re di Sofocle di cui ribalta le connotazioni di genere proprio per puntare l’attenzione sul cambiamento profondissimo dell’istituto tradizionale della famiglia giapponese attraverso la questione omossessuale e trans gender. Si tratta, in sintesi, di un film che parte dalla rifunzionalizzazione della performance teatrale antica per passare attraverso il linguaggio cinematografico e innestare la narrazione mitica sulla narrazione documentaristica del reale.

Il teatro greco, ci spiega Danese, è un paradigma narrativo potentissimo. Referente importante che ipostatizza il mito rendendolo dialogante con la realtà che vuole rappresentare. Non è un caso che il film utilizzi degli espedienti “meta”, dei dispositivi documentaristici – come l’interruzione delle fasi fiction con interviste, l’uso di personaggi che rappresentano se stessi, ecc. – proprio per creare il cortocircuito fra il mito – eterno – e l’attualità che riesce a spiegare. Detto altrimenti: il mito racconta qualcosa metaforicamente ma nello stesso tempo contiene in sé ciò di cui è metafora, dialoga continuamente con la realtà stessa che rappresenta.

Così come succede, sul versante molto diverso se non opposto dell’immaginario egemone americano per come lo vede e descrive Fabio Tarzia – Lo zio Sam scatena le guerre per raccontarle? Immaginario e realtà nella costruzione dell’identità americana – a cominciare dalle due matrici da cui origina: quella puritana e quella della frontiera che sembrano fatte apposta per concretizzare l’idea della realizzazione del sogno americano, dal lato del rapporto fra Dio e i suoi eletti, o dell’incubo generato dalla minaccia di Satana e perciò del nemico. In questo senso l’11 settembre rappresenta, lo sappiamo, la violazione perfetta.

Una delle strutture fondamentali di questa costruzione è la guerra che deve essere raccontata e realizzata in maniera specifica per funzionare e porsi come sistema di soluzione del conflitto. A partire dal presupposto che la relazione fra immaginario e realtà sia una costante dell’identità americana, la narrazione e la concretizzazione della guerra ha senso solo se rispecchia delle specifiche strutture narrative: una violazione dall’esterno; la reazione potente e punitiva – che è poi la punizione per conto di Dio – e la messa in sicurezza dello spazio; il ritorno a casa. Questa sequenza rappresenta la struttura della guerra puritana americana che, se funziona, permette all’identità collettiva di costruirsi perfettamente o rovesciarsi nell’incubo e nella crisi d’identità se qualcosa s’inceppa, come in Vietnam in cui l’applicazione della struttura guerra-narrazione (parte l’esercito, libera, mette in sicurezza, ritorno a casa) fallisce. Qui nascono una serie di archetipi che diventeranno fondamentali come l’invasione e la conquista dell’avamposto (dall’ambasciata americana a Saigon nel 1968 e semantica sportiva della “perdita della base”, all’assalto khomeneista all’ambasciata americana di Theran con il fallito blitz americano fra 1979 e il 1980) che segnano delle profonde fratture per l’identità americana.

A questo punto interviene il cinema. Se il racconto del Vietnam si sviluppa nel flusso televisivo e nella fissità simbolica della fotografia, il cinema tenta dal canto suo di risolvere il trauma, anche se in maniera icastica e massificata. Da un lato lo sforzo terapeutico di portare a casa i “nostri” ragazzi ma da un altro fare i conti con un’identità in crisi: il soldato che non torna e si suicida con tutta l’America (Il cacciatore), la struttura del bene mandata ad annientare il male – l’azione di commando di Apocalipse Now – che poi si sostituisce ad esso. Un ragionamento che porta alla guerra del Golfo del 1991 che pure non riesce ad esorcizzare il trauma della Vietnam – come il reduce Walter spiega ne Il grande Lebowski citato da Tarzia.

Dopo l’89 l’America è in cerca di un nemico affidabile e lo troverà in Bill Laden e in Al Qaeda per poi trovare nel “realismo magico” di Obama una nuova connotazione del rapporto fra realtà e immaginario. Secondo Tarzia infatti Obama apre alla geopolitica ma non rinuncia alla narrazione dell’immaginario. Lo fa in maniera geniale chiudendo la guerra iniziata da Bush ritirando le truppe dall’Iraq ed eliminando Osama Bin Laden, il simbolo più che l’effettivo capo di un’organizzazione reticolare, e dando forma e rappresentazione ad un nuovo tipo di guerra chiamata “shadow war”.

gruppo

Sono questi passaggi quanto mai sintetici che non tengono conto del “dibattito” generato da tutte le relazioni. Dall’importanza delle serie televisive, cui dovremo dedicare altre giornate di studio, ad altri film e all’esperienza teatrale. Un grazie particolare ai partecipanti, studenti e non, colleghi e dottorandi – tra cui Alessandro Fiori insieme a Stefania Belli ci ha regalato la bella grafica del manifesto. Grazie davvero a Chiara Lagani, Chiara Girolomini, Fabio Bruschi, Mirella Mastronardi, Simone Bruscia.

La giornata è stata dedicata ad Emilio Pozzi già docente di teatro e figura importante della nostra Facoltà, ricordato durante i saluti istituzionali.

Deviazioni di danza 1

È iniziata ieri sera al Salone Snaporaz di Cattolica la rassegna di danza contemporanea c_a_p05 deviAZIONI. La direzione artistica del progetto è del [collettivo] c_a_p – noto a questo blog e molto vicino a chi lo scrive – formato da Paola Bianchi, Valentina Buldrini e Chiara Girolomini e nato nel 2009 con l’intento di promuovere e diffondere la cultura della danza contemporanea.

E potrebbero sembrare proprio le deviazioni del corpo e della sua immagine il filo conduttore che lega i due lavori scelti per inaugurare la rassegna.

Con Joseph Alessandro Sciarroni costruisce una drammaturgia dell’osservazione che utilizza la webcam e gli effetti di Photo Booth del Mac per giocare sia con la propria immagine, deformandola e sdoppiandola, sia con i confini dello schermo, mentre le canzoni su cui danzare sono scelte dalla libreria di iTunes. Già da qui la relazione con il pubblico è costruita intorno al dispositivo del guardare dato che Sciarroni dà le spalle sul palco ma è visto di fronte nella proiezione video e così quello che vediamo noi è quello che vede lui, in una dinamica riflessiva garantita dal linguaggio e dalle affordance tecnologiche.

Processo potenziato nella seconda parte della performance dal collegamento online con gli utenti di Chatroulette, sito che mette in contatto visivo uno o più utenti che sono insieme con uno o più partner (sempre insieme) in remoto. Con i rischi che comporta.

Ieri sera, dopo qualche passaggio da un chatter ad un altro, due o tre ragazzi in linea dalla Finlandia hanno accettato di guardare qualcuno che davanti a loro si è travestito da Batman e ha eseguito per loro la sua coreografia fino a svelare “la diretta” teatrale e la presenza del pubblico in sala.

Una forma di engagement dello spettatore quindi, basata sulla costruzione di un’esperienza che senza mai perdere il ritmo e la forma teatrale, fa della realtà dei pubblici connessi una chiave di lettura efficace non solo dello spettacolo ma del mondo in cui viviamo.

(Si vedano ad esempio le recensioni sul sito per approfondire, fra cui Graziani e Tringali).

Un mondo che nella visione di Grazia Capri e del suo Per voce sola, il secondo lavoro in programma, è fatto anche di solitudine, violenza, costrizione. Il che potrebbe farci pensare ad un’altra interpretazione del concetto di deviazione.

Quello di Grazia Capri è uno sguardo prima di tutto al femminile ma è solo un punto di partenza per rendere universale il tema della violenza.

La danzatrice si muove all’interno di un perimetro quadrato, tracciato dal nastro adesivo sul palco, e fra pareti invisibili senza però poterne uscire, nonostante i tentativi: tirarsi su per i capelli, mettersi in verticale…

In definitiva il lavoro definisce al meglio la sua qualità iconografica e visuale grazie all’alternarsi fra il movimento per lo più a terra e con pesanti cadute e le figure statiche prese in prestito dallo yoga per rappresentare i tentativi di auto sollevamento/bootstrap di corpo e mente dalla condizione costrittiva.

Insomma lo schermo frontale, spazio e confine delle azioni di Sciarroni, è “proiettato” sul pavimento che delimita e limita le azioni di Capri in un gioco speculare che sembra legare i due lavori e l’immaginario che li contiene.

Nell’incontro con il pubblico, che la rassegna prevede come “azione” finale per ogni serata, abbiamo potuto dialogare con Paola Bianchi, Alessandro Sciarroni e Grazia Capri sugli spettacoli e sulle curiosità che la dimensione analogica della danza dischiude per forza e perciò sul senso che emerge, fatalmente, in quella relazione magica fra agire dell’artista ed esperire dello spettatore che resta l’elemento fondante di ogni performance.

Parola/Suono/Corpo. La sintesi drammaturgica nella danza di Lisbeth Gruwez a Màntica

Foto Luc Depreitere dal sito

Spettacolo indimenticabile ieri sera a Màntica, festival organizzato dalla Socìetas Raffaello Sanzio al Teatro Comandini di Cesena.

La coreografa e danzatrice Lisbeth Gruwez/Voetvolk,  ha presentato It’s going to get worse and worse and worse, my friend perfetta sintesi drammaturgica fra corpo, maestria tecnica ed espressiva, musica, parole.

Dancing as a method is no longer sufficiant as the sole ingredient of a relevant creation. Contemporary dance cannot be separated anymore from the realm of performance.

Gruwez danza sulla musica composta da Marteen Van Cauwenberghe, partitura di suoni e frammenti di discorso del tele-predicatore evangelista Jimmy Swaggart. L’accento, come si legge anche dal sito, è posto sulla veemenza delle parole che per essere persuasive portano il predicatore verso uno stato di trance che, sebbene non abbia più niente del legame con il mito dei “veri” rituali, lo fa perdere nel suo flusso di parole, in un ossessivo e invasato soliloquio. Reso qui ancora più efficace dalla frammentazione e ricomposizione dei suoni/parola garantita dall’elettronica. Già di per sé adatta alla forma-trance.

E così partecipiamo rapiti al crescendo lirico in cui l’interazione/lotta tra il corpo e le parole diventa “un’autentica coreografia del politico” (cito il catalogo del festival), un meraviglioso passo a due fra la voce maschile e la presenza scenica (femminile) della performer (Sarah Vankersschaever, DE STANDAARD). 

Non va infine sottovalutato lo styling (Veronique Branquinho), non a caso indicato fra i credit dello spettacolo, come uno degli elementi che rendono questo lavoro impeccabile da tutti i punti di vista.

Macchina-corpo. Note su Pentesilea di Masque Teatro

Foto di Enrico-Fedrigoli

Per prendere appunti su Pentesilea –  produzione di Masque Teatro diretta da Lorenzo Bazzocchi con Eleonora Sedioli in programma al Festival Crisalide (qui e qui e qui) – tornano buoni dei passaggi, dei ragionamenti, delle affermazioni di Lorenzo Bazzocchi, che ho avuto modo di intervistare nel lontano 2001 insieme a Catia Gatelli (allora ancora in Masque) in occasione della mia ricerca di dottorato.

Il lavoro è basato sull’opera di Heinrich von Kleist attraverso la rilettura dell’Anti-Edipo di Gilles Deleuze e Felix Guattari e risente dell’incontro con Thierry Salmon e la sua esplorazione dell’opera di Kleist e della sua Pentesilea.

Dal buio emerge l’estetica di Masque che ha nel “macchinario” e nell’ingranaggio come personaggio una delle sue cifre distintive. Cui qui si aggiunge un dispositivo per lo sguardo decisamente bello quando sullo sfondo, all’inizio, un primo quadro/inquadratura – già un tableaux vivent con la performer in posa statica – si presenta come piano di ripresa che si allontana per far posto al corpo di azioni centrale della performance.

Dal punto di vista dell’immaginario, cioè della comunicazione visiva e dell’apparato simbolico che caratterizza la messa in scena, è ancora possibile cogliere la messa a tema della “naturalità dell’artificiale”, il rapporto fruttuoso e reciproco con il sapere scientifico. Non è un caso forse che Bazzocchi, ingegnere di formazione, trasferisca nel suo lavoro un tipo di sensibilità che mette assieme scienza, basti pensare all’attenzione riservata a Nikola Tesla, e tecnica, uomo e macchina. Aprendo a metafore di significato che spetta allo spettatore sciogliere.

Tutti i nostri lavori hanno dei grandi impianti scenici che utilizzano la tecnologia ma che può essere la tecnologia video, pneumatica, elettronica […]. Abbiamo sempre affermato che utilizzare un televisore, un pistone pneumatico che solleva un attore, un computer che azione degli elettromagneti per far suonare da solo un pianoforte, anche se si tratta di sofisticate centraline elettroniche, ha lo stesso significato di un drappo rosso o di qualsiasi altro strumento che serve per comporre una drammaturgia di lavoro.

Senza dimenticare la presenza del corpo scenico – potente e lirica in questo Pentisilea – coerentemente con la pratica di Masque.

Per me non è teatro quello basato solo sulla narrazione, parola accoppiata al corpo senza dipingere lo spazio con il proprio corpo, mi viene da dire che non sia teatro. […] C’è questo essere nel teatro con il proprio corpo e non credo valga la pena addentrarsi nella domanda “è o non è teatro?”

Se il rapporto con le tecnologie in scena e della scena era il focus di quella (mia) ricerca ne emergeva, dall’intervista e fra le sue “pieghe”, il senso che troviamo ancora oggi nella qualità comunicativa della performance riguarda la sua efficacia.

Vado a vedere uno spettacolo e ne sono colpito, la mia vita cambia adirittura, c’è insomma qualcosa che mi ha modificato anche se posso aver visto qualcosa che normalmente non definirei teatro.

Come dire: è sempre questione di differenze che fanno la differenza.