Balla che ti passa. L’8 marzo e la sua inutilità

Non è che me ne freghi molto dell’8 marzo però la puntata di oggi di Tutta la città ne parla, Radio3 condotta dall’intelligente e garbato Giorgio Zanchini, mi ha convinto a lasciare una traccia qui. A partire dal tema lanciato da un’ascoltatrice di Prima Pagina che sottolineava l’opportunità di non considerare questa ricorrenza una festa ma un’occasione di riflessione sulla condizione femminile, in Italia, passando per gli interventi delle ospiti della trasmissione, fino ad arrivare al silenzio degli studenti quando oggi in classe chiedevo quale fosse a loro parere l’immaginario femminile dominante da noi, c’è una linea di continuità che fa pensare.

I temi sono quelli noti: il lavoro, la maternità, la politica, il corpo. Ma c’è una cosa che mi colpisce sempre e che riguarda quelle forme becere dell’immaginario (avevo iniziato qui ma ce ne sono 7) che hanno caratterizzato i post seriali che ho smesso di scrivere per questioni di ridondanza. Come dire: alla lunga non dicevano niente di più di un dato verso il quale sembriamo essere assuefatti e assuefatte.

Chiara Saraceno diceva che se fosse più giovane, e forse non esserlo più tanto per alcune può essere un buon momento per tirarsi fuori, sarebbe disperata o quanto meno depressa. Anche io lo sono. Senza contare il fatto che oggi mi si è sbeccato il gel rosso sulle unghie.

Cecilia e l’ascoltatrice. Quando informazione e partecipazione emotiva passano per radio

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la foto:http://www.flickr.com/photos/25837743@N04/3058635406/

Ho sentito durante il filo diretto con gli ascoltatori di Prima Pagina di Radio3Rai la testimonianza di una giovane signora che raccontava di come le sia praticamente impossibile garantire nella legalità il lavoro di Cecilia, la donna peruviana che l’aiuta in casa (il cui marito si è sperperato i soldi che lei mandava per lui e le figlie piccole rimaste là, la cui figlia piccola è morta fulminata mentre lei impotente dall’Italia partecipava in diretta telefonica alla tragedia).

Con la voce rotta dal pianto, sincero, e con molta dignità questa ascoltatrice ha detto quel che c’è da dire a dispetto di tutto quello che sentiamo sull’immigrazione, la clandestinità, sul respingimento, ecc.

Ora: è vero i media funzionano bene quando c’è un riferimento alle persone, l’infrazione alle norme, quando spettacolarizzano il dolore. Ma in questo caso dove sarebbero l’assuefazione e l’indifferenza verso un tale tipo di informazione? Mi chiedo: è forse la radio, per le sue caratteristiche di linguaggio e di qualità che riesce a raggiungere, a rendere un “caso umano” così coinvolgente e politicamente importante? Potrebbe essere irritativo? Non lo so proprio. So solo che oggi ho un gran magone.

A mezzanotte va la ronda…

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E ci voleva tanto per varare un decreto antistupri?

Sarà sicuramente imperfetto a cominciare dalle ronde che tra l’altro sarebbero soltanto presidi sul territorio. E comunque si dice “sicurezza partecipata” (culture partecipative anche qui?). Però: chi fa la ronda nelle case? Sui luoghi di lavoro?  Basta leggere l’elenco, la nomenclatura, delle forme di violenza previste e usate da chi fa ricerca per capire che l’aggressione in strada è solo una delle possibilità. E i poliziotti di quartiere che fine hanno fatto?

A ognuna di noi è capitato più volte nella vita, mi è già capitato di dirlo, di essere oggetto di violenza più o meno esplicita e molto spesso simbolica da parte di un maschio. O in ogni caso di sentire e vedere cose che rimandano allo strisciante senso di superiorità che anche gli uomini più evoluti esprimono (da apprezzamenti sulle qualità fisiche di una donna quando non ce ne sarebbe bisogno fino a cose che sappiamo tutti).

L’odio per la donna ha radici antiche e radicate nelle culture (per farsi un’idea: qui). Basta leggersi i passaggi di Durand sull’acqua ne Le strutture antropologiche dell’immaginario per capirlo. L’ho già detto, anche questo. Di letteratura se ne trova molta, i film e i media, che pure contribuiscono ad alzare la soglia della percezione del rischio (sembra che i fatti di stupro si siano verificati tutti in questo periodo, sospetto no?) hanno avuto il merito di mettere a tema la questione stalking (anzi la parola stesa viene da lì, ne parlammo a suo tempo qui). L’arte non si è sottratta dal rappresentare la violenza sulle donne, il teatro men che meno. Ma forse in questo caso il meccanismo della riflessività si assesta sulla dimensione del distacco. Non saprei.

Le donne, lo ribadisco, non fanno molto per sottrarsi alla tentazione di auto-rappresentarsi come oggetti del desiderio e a riprodurre il dominio maschile (Bourdieu). Se in questo sta una certa forza del femminile, lo dice Morin ne Lo spirito del tempo, non possiamo nemmeno negare che poi alla fine ci rimette sempre.

Quando l’estate scorsa quella coppia di turisti danesi, se non ricordo male, è stata vittima di quell’agguato premeditato per motivi di rapina l’aggiunta dello stupro alla donna era stato oggetto di un articolo che purtroppo non trovo ma che era centratissimo e commuovente. Scritto da un uomo, e non è una cosa da poco, rifletteva sul residuo barbarico che fa sì che per la donna sia sempre riservato qualcosa in più, uno stupro rituale, che infierisca un po’ di più.

Il punto è, secondo me, che la legge serve, eccome. Che protegga i bambini: assolutamente. La certezza della pena anche. Ma serve soprattutto cambiare – l’individuo e le strutture della società (sempre con Bourdieu) – e questa la vedo dura.

Non solo forme becere dell’immaginario

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Mi voglio ricordare di Caramel, film franco-libanese di quest’anno di Nadine Labaki. Oltre alla dimensione del femminile così ben tratteggiata, senza dimenticare quella del maschile e delle relazioni fra i generi a ben vedere, il film mi sembra un buon esempio della meta-territorialità dell’immaginario. La sua capacità cioè di produrre e diffondere forme condivise ma non per questo necessariamente omogenee, omologate. Piuttosto di condivisione “sensiva”. Cioè riescono a rimandare a forme del sentire, del sentimento, che pur nelle varianti, riconosciamo a distanza e che possiamo sentire (appunto) comuni. Forse è Beirut stessa a rappresentare un luogo ideale dell’incontro fra cristianesimo e cultura musulmana, fra tradizione (rappresentata dalle madri ad esempio) e modernità delle più giovani, fra situazioni uguali dappertutto donne-mogli-amanti e mondo lesbico, in latenza, abiti tradizionali e vestiti all’occidentale sempre un po’ adattati a un altro gusto, problemi degli anziani (mai paghi della ricerca d’amore) e dei giovani. C’è anche un po’ di linguaggio da soap opera, che non guasta. 

Così come il desiderio pazzo di rimanere giovani e belle fino alle estreme conseguenze lo troviamo in Jezebel di Irène Némirovsky. Qui però essere desiderate fino all’ultimo non significa essere oggetto sessuale ma piuttosto possedere, usare la propria bellezza per prendere. E anche questa mi sembra una gabbia non poco claustrofobica.

Questioni di donne. Cosa c’entrano le calze con l’Arabia?

Ho letto sull’Espresso un articolo di Tahr Ben Jelloun che racconta e commenta un fatto avvenuto in Arabia Saudita. Forse si sa già. Sta di fatto che una donna violentata da sei uomini, condannati a una pena detentiva, è stata sua volta condannata a beccarsi 200 frustate (prima solo 90 poi 200 perchè ha fatto ricorso). Apprendiamo poi che la vittima appartiene alla minoranza sciita mentre gli aggressori sono sunniti. Il che spiega questa particolare, potremmo dire, discrepanza. In ogni caso questo fatto va riportato, così leggiamo, alla concezione primitiva del rapporto fra i due sessi che, nonostante la modernità del profeta Maometto che aveva una moglie addirittura più anziana di lui e che ha sempre dimostrato rispetto per le donne, resta la prassi di un sistema culturale che considera le donne inferiori agli uomini. 

Non c’entrerà niente ma mi viene da associare questa notizia a un altro fatto.

Alcune giovani studentesse che abbiamo avuto modo di ascoltare alla domanda “quale spot pubblicitario programmato in questi giorni ritiene interessante ed efficace?” hanno menzionato convinte e quasi commosse lo spot Calzedonia “Speriamo che sia femmina”. Da neonata a bambina a scuola di danza, poi ragazzina in autoreggenti alle prese con le prime esperienze d’amore, collant e scarpe decolleté per l primo colloquio di lavoro (con piedini rigorosamente piegati all’interno, con le punte che si toccano), poi autoreggente di pizzi per il matrimonio eccitata con le amiche urlanti intorno e poi infine, finalmente, incinta con un dolce marito protettivo e accogliente.

Oltre alle ragazze ascoltate si possono leggere i commenti allo spot su YouTube. Lo spot piace, commuove, ci si identifica. Un’idea di donna e di femminilità, che ovviamente non arriva alla mezza età (questione di target?), rafforzata dalla canzone di Billy Joel, e dal claim “speriamo che sia femmina”. Non so perché ma mi trovo spesso a pensare che avrei preferito nascere maschio.

Questo è il link allo spot per chi non se lo ricordasse http://it.youtube.com/watch?v=SBz4qmL03Mk

Violenza contro le donne. C’entra anche l’immaginario

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Laura risponde a Roberta.

Anche perché avevo già deciso che rispetto alla giornata contro la violenza sulle donne non possiamo esimerci da dire qualcosa. Almeno dal dare un segno di presenza. E se il tema non circola fra i blog vorrà dire che non è considerato tema di conversazione. Ma si vedrà.

Se il caso che tratta Roberta mi fa pensare, ancora una volta, alle dinamiche individuate da Pierre Bourdieu e alla ormai classica definizione di Morin, anche questa ultracitata da me, delle donne come elementi barbari della società (il che spiega la condanna delle donne al film, alla regista, ecc.), quello che alimenta la mia idea di violenza sulle donne è legato prevalentemente alle forme (becere) dell’immaginario.

Ad esempio, l’immagine scelta per questo post non è altro che un manifesto affisso l’anno scorso all’entrata della sede dei nostri corsi di laurea a Pesaro che pubblicizza il locale estivo ospitato nel cortile, Il Canto Pirata. Parla anche troppo da sola no?

L’ultima che ho visto (e ritagliato) riguarda una pubblicità di biancheria intima – Christies – in cui una bellissima ragazza viene ripresa di tre quarti in modo da vedere sia il viso che il sedere con perizoma nero infiocchettato, nell’atto così sexy di lavare i piatti in una cucina finto rustico con tanto di guanti di gomma rosa. Sotto il grembiule nero, ovviamente, niente. Qualcuno mi deve spiegare anche il claim: insolite variazioni. Ne avevo già parlato commentando un post molto interessante delle Gatte di Via Plinio, relativo alla campagna contro l’uso (becero) del corpo femminile in pubblicità. Riprende un’idea non nuova, penso ad esempio a una foto sul calendario Pirelli (mi pare) con Eva Erzigova e a tante altre immagini donna angelo sexy del focolare. Come dire: non facciamoci mancare niente!

Insomma io trovo violente queste forme della comunicazione. Chi mi conosce sa che trovo violenti anche gli esiti nefandi dei pantaloni a vita bassa.  

Tempo fa ho avuto modo di lavorare con il prof. Paolo Curci e con l’amico Gian Maria Galeazzi  (Psichiatria delll’Università di Modena e Reggio Emilia) a una ricerca sul fenomeno dello stalking. Da cui sono uscite un paio di pubblicazioni di cui vado fiera. Non tanto per quello che ho fatto ma per aver fatto parte di un gruppo che si è occupato di un tema ancora poco trattato. La legge contro lo stalker è venuta dopo. Io mi sono occupata prevalentemente della parte dedicata al rapporto con i media – dai casi di star-stalking, alla cronaca, al cinema, alla letteratura – potendo osservare come e in che modo il termine stalking cominciasse a entrare nella semantica.

Sta di fatto che le vittime di stalking sono prevalentemente le donne e si tratta di una patologia della relazione. È iniziata anche la serie di film sull’amore violento (quella condotta da Camilla di MTV), c’è lo spot del ministero e va segnalato anche lo spot radiofonico “istruzioni per i signori uomini”.

Insomma il tema c’è, ma i comportamenti?