Rappresentazione senza rappresentazione. The evening di Richard Maxwell

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Che la forma teatrale ci metta costantemente di fronte alle possibilità del processo del raddoppiamento di realtà, ovvero dei modi con cui il meccanismo realtà/finzione può essere articolato, è un assunto noto. The Evening, recente lavoro di Richard Maxwell e della sua compagnia New York City Players, andato in scena il 19 e il 20 maggio all’Arena del Sole di Bologna, ne è un’ulteriore, particolarmente interessante, dimostrazione.

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Sul piano dell’immaginario The Evening “rappresenta” uno scenario che, per lo meno all’occhio dello spettatore italiano, rimanda all’America che nasce dal western (tema peraltro già trattato da Maxwell) e finisce nei bar e nelle solitudini di quei personaggi un po’ persi, eroi caduti o meglio ancora caduchi, raccontati dal cinema e dalla serialità televisiva contemporanea. Identità fragili, post 11 settembre viene da dire, che si confrontano più o meno esplicitamente con la morte sullo sfondo dell’inferno dantesco cui questo lavoro dichiara di ispirarsi.
Ed è così che inizia lo spettacolo: Cammisa Buerhaus in scena legge un testo che racconta gli ultimi giorni di vita di uomo accudito dal figlio. Prologo biografico dello stesso Maxwell che ha perso il padre durante la scrittura di questo spettacolo.
Poi entrano gli attori e viene costruita una storia con dei personaggi – una prostituta-barista (Bea interpretata da Cammisa Buerhaus), un pugile in declino (Asi aka Brian Mendes), un manager sballato (Cosmo aka Jim Fletcher) – accompagnati da un gruppo musicale (James Moore, Andie Springer, David Louis Zuckerman) che suona dal vivo le musiche (anche queste di Maxwell) nella più normale situazione da bar: avventori che interagiscono e musicisti che vanno avanti imperterriti nell’escalation drammatica.

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C’è una relazione transitiva fra i tre personaggi, fra i loro desideri mancati: lei vuole andare via; il pugile vuole trattenerla; il manager la sostiene perché trova nello “sballo” la sua propria forma di fuga. Fino a quando lei non spara a entrambi e da lì, spogliando i compagni e rivelando il dispositivo scenico della sacca con il sangue finto nascosto sotto i vestiti, comincia a essere smontata la scena: il bar, gli strumenti, le casse vengono tolte e viene ricostruita una scena siderale, completamente bianca, in cui i tre si fermano e lei, indossata una giacca di pelo bianco ci proietta in un altro immaginario ancora, fantascientifico e primordiale, recitando un’ultima poesia.

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È questo il dispositivo tutto teatrale su cui viene messa a punto una particolare declinazione del raddoppiamento di realtà: la rappresentazione – la trama, i suoi personaggi, la scenografia iper-realistica – tracima nella non-rappresentazione attraverso una serie di espedienti drammaturgici fatti di presenze sceniche e relazioni “improprie” (per dirla con Piersandra Di Matteo) che rompono e mantengono il patto finzionale con lo spettatore (Ferraresi).

Prima di tutto il testo: dal prologo biografico alla serie di dialoghi banali, normali che diventano via via più lirici e potenti fino alla dimensione poetica del finale. La recitazione sottratta, meccanica, per personaggi “disossati” (ancora Di Matteo), che proprio per questo possono essere trattati da Maxwell come archetipi, adatti alle necessità simboliche del nostro tempo ovvero a figure ambivalenti, sbagliate, che attivano meglio i processi d’identificazione e proiezione del pubblico. I musicisti “veri”, la musica “vera” che solo in parte sembra fare da contrappunto e da coro alla vicenda per poi andare per i fatti suoi. La scenografia – il bancone, la tv che trasmette una partita di football americano, il tavolino, le sedie, le birre, la pizza – costretta in uno spazio ridottissimo, stretto sul proscenio che diventa costrizione reale – quando lei cerca di scappare da lui non può far altro che nascondersi dietro al batterista e di fatto restare sempre lì, ad esempio – e prigione simbolica, metafora degli atti mancati, del desiderio che non riesce ad avverarsi e che pian piano muore.

Fra pubblico e privato. Riflessioni intorno all’Urban Spray Lexicon Project di Ateliersi

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ph. Ilaria Scarpa

Che il teatro e le arti performative in genere vadano pensate come contesti privilegiati per la riflessività individuale e collettiva può essere considerato un dato scontato. Tuttavia sono proprio le modalità con cui di volta in volta tale capacità riflessiva viene declinata, sperimentata, stressata a mettere in questione il senso dell’operare artistico: sia sul piano della sua funzione, cioè del posto che occupa nel sistema sociale dell’arte e nella società nel suo complesso, sia sul piano della messa a punto dei suoi linguaggi e della sperimentazione estetica.

In questo quadro può essere colto il valore di un progetto come Urban Spray Lexicon di Ateliersicollettivo di produzione artistica che opera nell’ambito della arti performative e teatrali con base a Bologna – il cui asse portante è costituito dall’approfondita ricerca delle tante e diverse scritte murali che compongono i panorami urbani, trattati da Ateliersi come vero e proprio materiale drammaturgico, base di partenza di una scrittura poetica che traduce i segni visivi in gesti performativi.

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ph. sito Ateliersi

Il progetto è stato avviato nel 2011 – in occasione della partecipazione all’evento di street art Bologna al muro – con la messa a punto, l’anno successivo, del primo capitolo Boia-concerto breve per imbrattamenti, voce e sintetizzatori, poema composto e interpretato da Fiorenza Menni a partire dal materiale di un archivio web che raccoglie centinaia di scritte fotografate e raccolte negli ultimi quattro anni sui muri di Bologna. Un processo di raccolta e ricognizione delle scritte che si è via via arricchito e complessificato attraverso la collezione delle scritte del passato scovate anche in libri, riviste, archivi privati e delle scritte di oggi che vengono meticolosamente fotografate, annotate, sistematizzate.

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ph. sito Ateliersi

Sul fronte mediologico il progetto lavora quindi sulla scrittura e su alcuni ribaltamenti particolarmente affascinanti. Ad esempio quello del rapporto fra scrittura e memoria, fra questo scrivere qualcosa – fissarlo su un supporto – per quel qualcuno che passa di lì. La scritta va vista allora, prima di tutto, come un incidente ottico del percorso quotidiano, ancora novecentesco, che nell’operazione di Ateliersi diventa anche il pre-testo per la resa performativa, per la possibilità di permutare e ricombinare frasi, proclami, affermazioni, dichiarazioni in qualcosa di nuovo. Un modo per dare corpo poetico a quanto invece lo sguardo in movimento rende effimero e fugace.

Sul fronte performativo Urban Spray Lexicon Project è composto da altri due capitoli: Se la mia pelle vuoi e Freedom has many forms – note e notizie sul come e perché delle scritte sui muri (2013) performance, la prima, e performance-lezione (costruita con Andrea La Bozzetta), la seconda, che Ateliersi porta nelle case e in spazi alternativi al teatro (gallerie, case d’artista, atelier, librerie, ecc.).

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Sabato 16 gennaio abbiamo ospitato una tappa dell’Urban Spray Lexicon Home Tour. In una stanza riallestita sapientemente da Ateliersi per accogliere adeguatamente gli amici-pubblico invitati è andato in scena Se la mia pelle vuoi, con Fiorenza Menni, Andrea Mochi Sismondi e Mauro Sommavilla alla chitarra.

Giocata scenograficamente sull’adattamento della casa e con l’uso delle luci – anche quelle esterne della strada, casuali, che accentuavano l’effetto “urbanità” – e sull’accompagnamento musicale molto efficace, la performance si è strutturata intorno al poema costruito attraverso le scritte e una serie di scambi dialogici fra Menni e Mochi Sismondi. Dialoghi quotidiani, intimi, normali, privati che cortocircuitano poi con l’elenco di affermazioni pubbliche, quelle delle scritte sui muri, che sostanziano il poema. Una serie di frasi politiche, poi esistenziali, poi ancora dichiarazioni d’amore – quelle banalissime che conosciamo tutti – alcune tragiche, altre molto ironiche e illuminanti. Piccole e grandi epifanie di quel mistero che sta nel simbolico e nell’immaginario e che si esprime nel suo tragitto antropologico, dall’individuale al collettivo. Sì perché il filo rosso della ricerca di Ateliersi va proprio rintracciato nel rapporto fra pubblico e privato che, a sua volta, si presta ad essere osservato su livelli diversi. Piani di un discorso che Ateliersi riesce a tenere coerentemente insieme.

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ph. Tihana Maravic

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ph. Gianni Giulianelli

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Un primo piano riguarda la ricerca poetica di Ateliersi che rimanda alla mediologia del teatro, vedi la questione ancora cruciale del testo, e alla necessità politica di un teatro riflessivo che si confronta costantemente con le istanze di realtà (ma ovviamente senza naturalismo).

[Il progetto nasce] Per risolvere un problema di relazione con il testo da recitare in scena. Ad un certo punto stavamo facendo un passaggio tale nel nostro lavoro che non trovavamo nessun tipo di senso e di interesse rispetto ad una scrittura già consegnata o tanto meno da pensare in maniera poetica o teatrale (Fiorenza Menni, conversazione sul divano dopo Se la mia pelle vuoi).

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Un altro livello riguarda la caratura del materiale utilizzato per la prima volta in occasione della partecipazione all’evento “Bologna al muro”. Il lavoro storiografico sulle scritte permette ad Ateliersi, ad esempio, di cogliere le strategie della controinformazione italiana fra il 1968 e il 1977 e di restituirle non soltanto in chiave performativa ma anche in termini di produzione culturale particolarmente interessanti.

La prima raccolta del nostro materiale è di tipo storico e riguarda le scritte del ’68 e del ’77, bellissime e molto diverse a livello linguistico. Quelle del ’68 sono scritte molto lunghe, molto articolate perché richiedevano una riflessione mentre quelle del ’77 fanno uno scarto linguistico di grande essenzialità, di grande impatto comico e con dei giochi linguistici molto forti tipo “felce e mirtillo” e “godere operaio”.

Sono parole forti, concettualmente immaginifiche, legate ad una realtà. Sono parole che stanno nella parte ignobile e non hanno pretese, sono anonime.

Possono essere al limite rimandate a dei gruppi politici cioè tu puoi ricostruire chiaramente una provenienza per quelle politiche e per quelle amorose mentre per quelle esistenziali no, ti chiedi soltanto perché uno esca di casa e debba scrivere su un muro.

Tutto questo ha dato proprio una spinta di senso, un modo per tenerci ancora in relazione con la realtà. Noi venivamo da un percorso molto lungo, dove abbiamo vissuto in una comunità rom, e tornare alla non-realtà sarebbe stato molto difficile. Questo lavoro ce l’ha permesso (Fiorenza Menni).

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Concepito in maniera drammaturgicamente aperta il progetto integra al lavoro di archivio il contributo user generated di coloro che essendo a conoscenza del progetto cominciano a guardare diversamente le scritte in cui si imbattono e che inviano alla compagnia come nuovo materiale. Il poema perciò presenta i caratteri di un sistema che pur mantenendo la sua identità organizzativa, adatta la sua struttura cioè modifica e si aggiorna secondo lo zeitgeist, lo spirito del tempo, dipendendo sostanzialmente da “come si muove il mondo intorno”.

Siamo partiti con i poemi che hanno questa capacità di portarti dentro, di farti ridere, di farti piangere poi ad un certo punto abbiamo ragionato sul momento che ti porta ad uscire di casa e voler incidere su un muro il tuo grido, il tuo urlo, la tua affermazione o domanda. Questo ci ha portato ad approfondire il rapporto fra pubblico e privato considerando il muro come una vera e propria membrana fra lo spazio privato, intimo, di uno spazio esistenziale vissuto da solo, e l’aspirazione alla condivisione sociale.

Abbiamo perciò lavorato in maniera carsica facendo emergere e re-immergere la questione del pubblico/privato partendo dalla scrittura dei dialoghi [nella prima parte della performance] contenenti molte delle cose che ci appartengono, scegliendo una serie di temi e lavorando sulla nostra vita, sul nostro intimo anche perché per noi il gesto pubblico consiste ne portare queste cose nel campo dell’immaginifico, nel campo del teatro e della condivisione (Andrea Mochi Sismondi).

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Nell’ultima parte della performance Andrea Mochi Sismondi legge una lettera inviata da un amico writer che non è potuto venire perché agli arresti domiciliari a causa delle sue scritte sui muri. Di seguito ci vengono consegnati dei cartoncini con delle scritte.

Molti ci chiedono chi sia questo amico e cosa gli sia successo. Ma questo amico è Céline che nel costruisce tutto il racconto di Voyage au bout de la nuit spingendo esistenzialmente dei periodi, dei periodi che leggendo e rileggendo quel libro ci sembrava fossero esigenze di scrittura. Per cui abbiamo lavorato su quel testo per costruire delle false scritte sui muri, delle scritte che vi ritrovate… C’è questo gioco bellissimo un po’ come succede con l’oroscopo. Quando incontri una scritta dici “ma questa è la mia”! (Andrea Mochi Sismondi).

Il rapporto pubblico/privato trova poi nell’home tour un’ulteriore importantissima declinazione anche di tipo politico: dal teatro come fatto pubblico che avviene nel privato di una casa fino all’avvicinamento fra attori e spettatori che rompe la distanza “normale” della relazione teatrale. Un esperimento efficace anche sul piano dell’audience development proprio perché si pone come dimensione di fruizione del teatro che spinge sulla dimensione comunitaria e sulle modalità di messa a punto di una pratica d’indipendenza capace di conciliare l’autonomia (creativa e produttiva) con le logiche di un sistema artistico e teatrale che deve funzionare.

Noi siamo una compagnia indipendente ma anche con dei riconoscimenti i quali ci chiedono anche progettualmente di fare certe cose. […] Un formato come questo lo devi costruire all’esterno del circuito teatrale e noi abbiamo pensato di poter sfruttare i tanti amici che abbiamo in Italia. […] Andare a ricercare un certo rapporto con le persone è alla base del nostro fare teatro e quando abbiamo visto cosa accade nelle serate dell’home tour allora ci siamo detti che questa è una situazione interessante (Fiorenza Menni).

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Alla fine della chiacchierata Fiorenza ci ha chiesto di leggere i nostri cartoncini con le scritte false riprese da Céline – i desideri del povero sono puniti con la prigione; la vanità intelligente non esiste; questa città non serve a niente; quel buco mi sembra adatto; non ci sorveglia più nessuno; se mi distraggo, non muoio – un modo garbato per chiudere il cerchio sul noi-pubblico e sulla dimensione partecipativa che può farci sentire comunità.

 

Lessici famigliari. Riflessività e comunicazione in due casi del “giovane” teatro

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Fra i lavori presentati (e che ho visto) nell’ambito di Trasparenze/Festival – che per me è diventato un appuntamento da non mancare (grazie a Silvia Mei) – La famiglia Campione dei toscani Gli Omini e I ragazzi del cavalcavia delle romane Industria Indipendente marcano un ulteriore campo d’azione di quello che varie volte ho chiamato teatro riflessivo, cioè attento alle istanze di “realtà”. Per farlo utilizzano il sistema “sociale” famiglia come luogo di osservazione del “sociale” e la comunicazione come processo che lo fa funzionare. Una dinamica che inizialmente riguarda le interazioni fra i suoi membri ma che poi – sganciandosi da quelle relazioni concrete ancorate a delle persone/personaggi – va a costruire una metafora di famiglia, un costrutto simbolico, astratto e universale e perciò molto adatto per pensare.

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La famiglia Campione è uno spaccato intimo, privato su una famiglia piccolo borghese come tante – campione, appunto – che svela da subito le patologie relazionali e i paradossi comunicativi che caratterizzano il mondo più vicino che ci sia. Non è un caso che questo lavoro sia il frutto di una ricerca di stampo etnografico condotta dalla compagnia su cinque comuni della provincia fiorentina e che ha coinvolto un’ottantina di persone, producendo delle tappe confluite successivamente in questa versione dello spettacolo.

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I tre (molto bravi) attori (Francesco Rotelli, Francesca Sarteanesi, Luca Zacchini) interpretano nove personaggi (più uno – Giulia Zacchini – che vedremo solo per una attimo alla fine). Una moglie un po’ arrabbiata, un ex marito in disgrazia e arrendevole, un nuovo compagno strafottente e grossolano; quattro figli: un maschio che sta sempre in casa, una figlia inconcludente che vuole aprire una gelateria a Londra ma magari anche in Italia, un’altra (anche lei frutto della prima coppia) che si è chiusa in bagno per tentare di non comunicare; un figlio, nato dalla seconda unione e molto simile al padre, in partenza per Dubai in cerca di fortuna; tre anziani nonni che, dall’alto di una vita già vissuta, dispensano perle di saggezza con lucida ironia.

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Un lessico quotidiano dalla forte cadenza dialettale, toscana, segna gli scambi di battuta fra di loro, dà forma ai personaggi, alle loro personalità e, soprattutto, mostra l’eccesso di comunicabilità – ancor più evidente quando si tenta di non comunicare – che caratterizza un contesto sociale particolare come la famiglia e le sue dinamiche. Ad esempio l’avvicendarsi delle posizioni comunicative, la loro complementarietà: il marito debole sovrastato da quello forte, anche se poi s’impone con la sua presenza e i suoi regali alla ex e ai figli. Oppure la figlia chiusa in bagno che solo apparentemente si sottrae alla comunicazione obbligando di fatto gli altri a prenderla in considerazione e a preoccuparsi per lei. Questi scambi sono scanditi dalla presenza di mele in scena, mele che vengono morse, condivise, passate e, alla fine, accaparrate dalla figlia che se le porta in bagno. Una sorta di quasi-oggetti (direbbe Michel Serres) che, passando di mano in mano, costruiscono la relazione. Perché nonostante tutto la relazione fra questi genitori, figli, fratelli, nonni, coniugi ed ex c’è, non è da negoziare, svelando di fatto la normalità di una famiglia campione allargata che ci fa pensare e sorridere della nostra.

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Altro spaccato di “realtà” e altro scenario linguistico e culturale è quello proposto da I ragazzi del cavalcavia di Industria Indipendente (Erika Z. Galli e Martina Ruggeri), in prima assoluta a Modena il 9 maggio, vincitore del Premio Giuria Popolare Dante Cappelletti 2015. Liberamente ispirato agli incresciosi fatti di cronaca che la nostra memoria mediale sostanzia nella formula dei “sassi lanciati dal cavalcavia”, lo spettacolo descrive il passare nella città di T. delle giornate del Natale 1996 della famiglia F. Lo spettacolo quindi prende dichiaratamente spunto dalle vicende dei fratelli Furlan di Tortona che in quell’anno lanciarono dal cavalcavia di Cavallosa di Tortona il masso di tre chili che uccise la neo sposa Maria Letizia Berdini.

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Quattro fratelli maschi e uno zio si muovono lungo una serie di scene costruite per quadri che, con pochissimi elementi di contesto, riescono a definire efficacemente il frame drammaturgico. Attori (Alberto Alemanno, Maziar Firouzi, Francesco La Mantia, Daniele Pilli, Michael Schermi) e registe (Erika Z. Galli, Martina Ruggeri – assistenti alla regia Astrid Meloni/Maria Teresa Berardelli) (anche in questo caso tutti davvero bravi) ci fanno passare da una cava – o qualcosa del genere – in cui i fratelli più grandi addestrano militarmente il più giovane del gruppo al machismo e alla vera mascolinità; cercano di iniziarlo al rapporto con le donne usando una palla da bowling per descriverne la fisionomia salvo poi comportarsi da branco e coalizzarsi contro la ragazza designata quando non mostra interesse. Discoteca, droga, tifo calcistico, rivalità con altri maschi, ambiente domestico e attaccamento alla mamma si alternano a momenti in cui la presa di coscienza dei personaggi non serve che a tracciare il percorso di un destino predefinito che porta all’ultimo eccesso, all’ammazzare la noia buttando i sassi sulle macchine. Il testo spettacolare nel suo complesso funziona perché attraversa i luoghi comuni, sia linguistici sia comportamentali, riuscendo a produrre un’immagine di quel nord Italia anni novanta in cui, fra le altre cose, si è imposto un certo stereotipo del maschile, vera e propria gabbia simbolica da cui, mi pare, sia ancora abbastanza difficile uscire. http://www.youtube.com/watch?v=ecy5MhbpXwI

Raddoppiamento di realtà. Il Santo Genet della Compagnia della Fortezza

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(foto GBA)

Con Santo Genet la Compagnia della Fortezza diretta da Armando Punzo porta al Festival Volterrateatro2014 (in prima nazionale ma anticipato nel 2013 come possiamo leggere qui e qui) e nel carcere come suo ambiente ideale, l’opera e la poetica di Jean Genet.

Ed è chiaro da subito che si tratta di un’operazione volta a rendere visibile, ma più ancora tangibile, quel processo di raddoppiamento di realtà che, riguardando prima di tutto il teatro (poi la nascita del romanzo e l’epoca moderna), ha insegnato allo spettatore come contemplare la realtà della finzione, a considerare del tutto normale l’intreccio fra osservazione e realtà, fra apparenza e autenticità.

Questa possibilità di tenere insieme diverse prospettive di osservazione si sostanzia nel caso di Santo Genet nel corto circuito tra due dispositivi: quello del carcere e quello del teatro in cui gli attori sono i detenuti, il palcoscenico è il carcere. Tutto lo spettacolo si svolge sotto lo sguardo incrociato della polizia penitenziaria, del pubblico, degli attori e la macchina drammaturgica è pensata per mettere a tema questa relazione in cui si guarda e si è continuamente/contemporaneamente guardati.

Il funzionamento di questo dispositivo, inoltre, è garantito dall’equilibrio, tutto drammaturgico, fra i vincoli di fruizione cui lo spettatore è sottoposto e la possibilità di attivare i suoi percorsi di partecipazione, anche molto personali, allo spettacolo che, almeno in questa versione, non si basa sulla visione frontale ma sul movimento degli spettatori lungo e dentro agli spazi della scena.

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Già dall’inizio infatti gli spettatori si trovano a varcare una soglia, vengono chiamati a entrare nella zona liminale della rappresentazione dalla maitresse/officiante (lo stesso Armando Punzo) che guarda e sorride dolcissima accompagnando il pubblico nel passaggio lungo un corridoio di statue umane. Una schiera di attori/marinai su un piedistallo che indossano pantaloni bianchi abbottonati davanti, t-shirt a righe con le maniche ripiegate all’interno e cappellino bianco, coerentemente con l’iconografia del marinaio omossessuale così come la riconosciamo in Fassbinder, in specie la versione cinematografica di Querelle de Brest, ma anche nell’immaginario più glamour della moda marinara di Jean Paul Gaultier. E così bellezza, ambiguità e crimine procedono insieme per esprimere non soltanto il ribaltamento esistenzialista dei valori sociali, il fascino della malavita e del delitto a sangue freddo, proprio della poetica di Genet, quanto, piuttosto, quel raddoppiamento di realtà che porta spettatori/liberi e attori/detenuti a condividere lo stesso intorno spazio-temporale in una situazione di contatto fisico e vicinanza non soltanto simbolica.

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Lo spettacolo si compone di tre parti: nella prima gli attori si dispongono nel grande e bianco spazio all’aperto fra archi cornici, sedute, piedistalli. I frammenti testuali danno parola al contesto poetico di Genet e introducono i personaggi. Come ad esempio Divine di Notre Dame de Fleurs interpretato da Aniello Arena. In questo spazio si torna per il finale con tutti gli 80 attori, con altri monologhi e l’ultimo saluto degli attori che imbracciano le statue di cartapesta che li ritraggono e corrono su è giù come in una parata rituale, come in una cerimonia religiosa e festiva dedicata a qualche santo protettore. Chissà forse quelle statue rappresentano anche (ancora) la metafora del rapporto fra realtà e finzione, fra l’essere uomini o maschere.

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La parte centrale dello spettacolo può essere descritta chiamando in causa il principio ologrammatico che nel pensiero complesso di Edgar Morin indica la compresenza tutto/parti e perciò non solo il tutto contiene la parte ma la parte contiene il tutto. Questa parte dello spettacolo infatti si svolge al chiuso in una sezione interna del carcere, fra un corridoio centrale pieno di specchi e le celle-palcoscenico ai lati in cui si svolgono le azioni: gli attori entrano ed escono insieme al pubblico, recitano i loro monologhi in contemporanea, tanto che spetta allo spettatore scegliere dove fermarsi ma ogni frammento (parte) ripropone, in piccolo, la struttura per monologo dello spettacolo nel suo complesso (tutto).

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Costumi e scenografie collaborano a dare forma estetica all’immaginario da bordello e omossessuale, coloratissimo e perturbante marcato dal fatto che gli attori recitano guardando in faccia e attraverso gli specchi ora uno ora l’altro spettatore, ammiccando fra loro e con il pubblico. Una vicinanza fisica che fa sentire la presenza dei corpi e per dare corpo ad un’esperienza che non può essere soltanto neo-corticale, ma più profonda ed efficace. Non è un caso infatti che proprio all’apice della con-fusione, intrappolati nella ressa di persone provocata dalla macchina registica, parta un valzer finale, una festa e un abbraccio di tutti con tutti.

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Un lavoro quindi che pone la questione riflessiva al centro. Prova evidente di come il teatro sappia riappropriarsi del rapporto fra vissuto e rappresentazione per costruire livelli di realtà sempre possibili altrimenti e di come proprio in casi come questi la finzione teatrale produca conseguenze molto concrete nella comunicazione. Quelle che ogni spettatore si porta a casa per prendere le distanze dal “mondo reale”, per guardarlo “da fuori”, grazie ad un universo che sa essere realista e fittizio allo stesso tempo e perciò efficace.

Le realtà dell’immaginario. Appunti da una giornata di studio su cinema, teatro e “realtà”

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Una giornata di studio intitolata Le realtà dell’immaginario. Riflessioni fra cinema e teatro per una sociologia della performance (anche su Tamburo di Kattrin) poteva prestarsi a giochi semantici e interpretativi diversi, non fosse altro perché partiva dal presupposto che l’immaginario sia una cosa “reale” e con conseguenze “reali” legato com’è al patrimonio simbolico di una comunità e di ognuno di noi. L’ipotesi principale riguardava la possibilità di rintracciare nella compagine delle produzioni culturali di stampo performativo una tendenza “realistica” – intesa come necessità di tenere conto di istanze di realtà – che può essere trattata, anche in chiave critica, come sorta di reality-trend o in modo più avalutativo come cortocircuito fra linguaggi della rappresentazione e linguaggi di realtà (ad esempio qui). Una necessità emersa intorno al 2000 anche sulla spinta del trauma collettivo dell’11 settembre 2001.

Abbiamo chiesto ai nostri ospiti – Erika D’Amico ed io con il supporto di Rodolfo Sacchettini – di confrontarsi con una domanda e con le sue implicazioni sociali, estetiche, metodologiche e perciò sulla qualità riflessiva delle performance culturali.

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La realtà, come questione che si pone oggi come opportunità creativa e come istanza cui rimandano le performing art sia a livello formale sia a livello di contenuto, è stata trattata da Enrico Pitozzi nell’intervento dal titolo Trasfigurazioni sceniche del reale a partire dagli aspetti della ricerca intorno a performance e tecnologie nonché al rapporto fra realtà e reale, concetti diversi fra di loro, che si manifestano nell’oggetto corpo. Quello di Pitozzi è un punto di partenza teorico – ed epistemologico – che pone l’accento sul riferimento interno dell’osservazione e sul fatto che la realtà di un corpo è un lavoro più invisibile di quanto siamo abituati a pensare perché riguarda il funzionamento della percezione ed è basata sull’idea del cervello simulatore, che proietta verso l’esterno piuttosto che cogliere le informazioni da fuori.

Nel campo della performance questi assunti sono messi alla prova con le tecnologie di captazione del movimento e come strumenti per la sperimentazione coreografica. Ad esempio nei lavori della canadese Louise Lecavalier.

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Il secondo versante di articolazione del rapporto fra realtà e immaginario è quello proposto da Alfonso Amendola  – Real to real o dell’immaginario audiovisivo – con riferimento al campo dell’audiovisivo sperimentale caratterizzato dal concetto di reality e dal concetto di narrazione del reale nelle forme del video teatro, della video arte e soprattutto della video poesia (o dei video poemi) che trattano ciclicamente temi come la politica, la militanza, l’eroina, il rapporto con propria terra, fino alla malattia e ai complessi territori della memoria.

Un caso per tutti: la ricerca del lucano Antonello Faretta, vicina alla poetica di Abbas Kiarostami e radicata nel territorio – la Lucania appunto – e alle storie. Dalla malattia raccontata in Garden of Hope (similmente a Nick’s Movie di Wenders per capirsi), a Nine Poems in Basilicata, opera basata su L’ultimo nastro di Krapp di Beckett, in cui la cultura underground delle letture performative di John Giorno, esponente della beat generation americana ma originario lucano, si mischia al sapere arcaico della terra rappresentato da un’anziana lucana. Per arrivare al progetto – verrebbe da dire di etnografia audiovisiva – cui lavora da 5 anni incentrata sulle storie degli abitanti resilienti di Craco, vero e proprio paese fantasma, e ispirato all’Antologia di Spoon River. Fra parole chiave come leggerezza, nuova economia, voyeurismo, esposizione sembra emergere, conclude Amendola, la necessità di raccontare quello che ci accade intorno con lungimiranza e concretezza, abitare le emozioni ma anche le concretezze non per un facile tributo romantico ma per il desiderio di creare micro relazioni sensate, per amplificare la trasversalità dei nostri sguardi e creare spazi di conoscenza o, semplicemente, per ragionare sulle categorie del noi.

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Per Dario Tomasello nell’intervento dal titolo Dispositivi dell’autofiction in Italia tra narrativa, drammaturgia e cinema (2002-2012), quel momento traumatico che ha determinato la vocazione rinnovata alla realtà, il crollo delle Torri Gemelle, ha avuto un peso molto forte in ambito letterario e prodotto una discussione elaborata e riassorbita nel corso dell’ultimo decennio e che va letta alla luce del dibattito sul rapporto fra post-modernismo e realismo. Sta di fatto che se proviamo a pensare il ritorno al realismo come copertura efficace del post-modernismo o meglio la religione del realismo come maschera del post-modernismo, allora l’autofiction – cioè quel genere letterario basato sulla drammatizzazione biografica dell’autore – sarebbe il suo profeta. Il dispositivo  – che ricorda un certo modo della drammaturgia teatrale – è quello del citazionismo e del giocare in prospettiva con la propria biografia negandosi… Gomorra e Saviano ma soprattutto, per Tomasello, Aldo Busi, Antonio Moresco e Walter Siti.

Per altri versi – da vedere in prospettiva trans-mediale – il meccanismo dell’auto-fiction può essere visto nel passaggio al romanzo dal teatro e ritorno alla performance da vivo, alla narrazione monologante, di uno come Davide Enia oppure, della poetessa Jolanda Insana o di Mauro Covachic con la sua pentalogia culminante nell’installazione in cui l’autore si incarna nel suo personaggio, così da cogliere la necessità di recuperare il carattere orale e corporeo delle parole.

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Con Roberto Danese e Fabio Tarzia entriamo nei regimi notturno e diurno dell’immaginario, almeno secondo la classificazione di Durand, per cogliere tra l’altro la dialettica tra dimensione meta-territoriale e dimensione situata, la declinazione spaziale (geografica) e temporale che serve all’immaginario per rifunzionalizzare gli archetipi.

Basti pensare, come primo caso, al film di Toshio Matsumoto Funeral Parade of Roses, oggetto della riflessione di Roberto Danese Edipo mon amour: dietro le maschere del Giappone anni ’60 fra teatro classico e cinema d’avanguardia. Una riflessione che tiene conto, prima di tutto, del cinema come linguaggio che rimanda costantemente a se stesso, con i suoi agganci ad altro, con le citazioni interne, ecc. per poi rendere evidente il modo con cui un film degli anni ’60 sia stato in grado di raccontare il mutamento della società giapponese. Un processo che parte dalla struttura del teatro greco classico, nella fattispecie l’Edipo Re di Sofocle di cui ribalta le connotazioni di genere proprio per puntare l’attenzione sul cambiamento profondissimo dell’istituto tradizionale della famiglia giapponese attraverso la questione omossessuale e trans gender. Si tratta, in sintesi, di un film che parte dalla rifunzionalizzazione della performance teatrale antica per passare attraverso il linguaggio cinematografico e innestare la narrazione mitica sulla narrazione documentaristica del reale.

Il teatro greco, ci spiega Danese, è un paradigma narrativo potentissimo. Referente importante che ipostatizza il mito rendendolo dialogante con la realtà che vuole rappresentare. Non è un caso che il film utilizzi degli espedienti “meta”, dei dispositivi documentaristici – come l’interruzione delle fasi fiction con interviste, l’uso di personaggi che rappresentano se stessi, ecc. – proprio per creare il cortocircuito fra il mito – eterno – e l’attualità che riesce a spiegare. Detto altrimenti: il mito racconta qualcosa metaforicamente ma nello stesso tempo contiene in sé ciò di cui è metafora, dialoga continuamente con la realtà stessa che rappresenta.

Così come succede, sul versante molto diverso se non opposto dell’immaginario egemone americano per come lo vede e descrive Fabio Tarzia – Lo zio Sam scatena le guerre per raccontarle? Immaginario e realtà nella costruzione dell’identità americana – a cominciare dalle due matrici da cui origina: quella puritana e quella della frontiera che sembrano fatte apposta per concretizzare l’idea della realizzazione del sogno americano, dal lato del rapporto fra Dio e i suoi eletti, o dell’incubo generato dalla minaccia di Satana e perciò del nemico. In questo senso l’11 settembre rappresenta, lo sappiamo, la violazione perfetta.

Una delle strutture fondamentali di questa costruzione è la guerra che deve essere raccontata e realizzata in maniera specifica per funzionare e porsi come sistema di soluzione del conflitto. A partire dal presupposto che la relazione fra immaginario e realtà sia una costante dell’identità americana, la narrazione e la concretizzazione della guerra ha senso solo se rispecchia delle specifiche strutture narrative: una violazione dall’esterno; la reazione potente e punitiva – che è poi la punizione per conto di Dio – e la messa in sicurezza dello spazio; il ritorno a casa. Questa sequenza rappresenta la struttura della guerra puritana americana che, se funziona, permette all’identità collettiva di costruirsi perfettamente o rovesciarsi nell’incubo e nella crisi d’identità se qualcosa s’inceppa, come in Vietnam in cui l’applicazione della struttura guerra-narrazione (parte l’esercito, libera, mette in sicurezza, ritorno a casa) fallisce. Qui nascono una serie di archetipi che diventeranno fondamentali come l’invasione e la conquista dell’avamposto (dall’ambasciata americana a Saigon nel 1968 e semantica sportiva della “perdita della base”, all’assalto khomeneista all’ambasciata americana di Theran con il fallito blitz americano fra 1979 e il 1980) che segnano delle profonde fratture per l’identità americana.

A questo punto interviene il cinema. Se il racconto del Vietnam si sviluppa nel flusso televisivo e nella fissità simbolica della fotografia, il cinema tenta dal canto suo di risolvere il trauma, anche se in maniera icastica e massificata. Da un lato lo sforzo terapeutico di portare a casa i “nostri” ragazzi ma da un altro fare i conti con un’identità in crisi: il soldato che non torna e si suicida con tutta l’America (Il cacciatore), la struttura del bene mandata ad annientare il male – l’azione di commando di Apocalipse Now – che poi si sostituisce ad esso. Un ragionamento che porta alla guerra del Golfo del 1991 che pure non riesce ad esorcizzare il trauma della Vietnam – come il reduce Walter spiega ne Il grande Lebowski citato da Tarzia.

Dopo l’89 l’America è in cerca di un nemico affidabile e lo troverà in Bill Laden e in Al Qaeda per poi trovare nel “realismo magico” di Obama una nuova connotazione del rapporto fra realtà e immaginario. Secondo Tarzia infatti Obama apre alla geopolitica ma non rinuncia alla narrazione dell’immaginario. Lo fa in maniera geniale chiudendo la guerra iniziata da Bush ritirando le truppe dall’Iraq ed eliminando Osama Bin Laden, il simbolo più che l’effettivo capo di un’organizzazione reticolare, e dando forma e rappresentazione ad un nuovo tipo di guerra chiamata “shadow war”.

gruppo

Sono questi passaggi quanto mai sintetici che non tengono conto del “dibattito” generato da tutte le relazioni. Dall’importanza delle serie televisive, cui dovremo dedicare altre giornate di studio, ad altri film e all’esperienza teatrale. Un grazie particolare ai partecipanti, studenti e non, colleghi e dottorandi – tra cui Alessandro Fiori insieme a Stefania Belli ci ha regalato la bella grafica del manifesto. Grazie davvero a Chiara Lagani, Chiara Girolomini, Fabio Bruschi, Mirella Mastronardi, Simone Bruscia.

La giornata è stata dedicata ad Emilio Pozzi già docente di teatro e figura importante della nostra Facoltà, ricordato durante i saluti istituzionali.

Il gioco relazionale della rappresentazione nel Nowness Mystery di Cuquí Jerez. Spielart 2011.

Con The Nowness Mystery Spielart 2 dicembre 2011 – Cuquí Jerez, con la complicità delle scanzonate Maria Jerez, sua sorella, e Amalia Fernández, interroga i limiti della rappresentazione, il rapporto fra performer e spettatori e in definitiva, coerentemente con un percorso di ricerca che fa da filo rosso a molta della produzione contemporanea, i livelli di realtà che stanno in rapporto dialettico (dentro/fuori) con la finzione.

La piéce si compone come un montaggio di sketch in cui le due attrici in scena improvvisano situazioni banali e giocherellone che vengono collegate senza soluzione di continuità nel tempo previsto e cronometrato dall’inizio dalla stessa Cuquí.

An experiment. A work based on the experience of the present. The void of the present as a space for opportunity and a spece for failure (Cuquí Jerez, foglio di sala).

Ed è lei che da un angolo fuori dalla scena – ma a ben vedere presente e protagonista alla maniera di Tadeusz Kantor – trascrive sul portatile, collegato al proiettore che permette di leggere sullo schermo, commenti sulla resa o meno delle “trovate”, per dirla con Barthes, delle due attrici oppure battute e pensieri che rivolge direttamente agli spettatori.

Nell’andamento dello spettacolo –  processo dinamico fatto di comportamenti recuperati e di spunti improvvisati – c’è la consapevolezza del funzionamento dell’intrattenimento come meccanismo drammaturgico che deve portare da qualche parte, ma senza essere narrativo, verso la conclusione di una “scenetta” da collegare a quella successiva finché il tempo a disposizione lo permette.

Il senso ultimo del Nowness Mystery sembra poi stare tutto in quelle note di regia e in quei flussi di pensiero condivisi in nome del processo comunicativo e ralazionale con gli spettatori. Nella creazione di un evento che, pensato e realizzato così, non può che essere unico e irripetibile, frutto della dinamica comunicativa e del dominio consensuale creato qui ed ora in quella realtà misteriosa e senza tempo del teatro e del suo immaginario.

Non è mai “Too Late”. Riflessività e politica nell’Antigone di Motus

Too Late il secondo contest di Motus per lo studio su Antigone la figura femminile che sfidando Creonte e la ragion si stato nella tragedia di Sofocle diventa l’esempio della lotta fra autorità e potere, ma anche conflitto generazionale (e di genere mi verrebbe da dire).

L’impianto scenico che ci vedo io è quello della ritrovata forza espressiva, del corpo, della performance. Del pubblico intorno che vede quello che vede ed è vicino, prossimo alla scena. E c’è tutto un dentro/fuori fra il testo gli attori che recitano da attori dove le biografie personali e di tutti diventano parte del testo. E così si esprime una naturalezza tutta giovanile. Veramente bravi e credibili Silvia Calderoni e Vladimir Aleksic.

Quello che a me pare di cogliere e che ho bisogno di tenere a mente è la relazione fra l’urgenza di “realtà” che Motus oggi esprime, senza paura di rimandare a nomi e a fatti della nostra attualità politica e culturale. Quella che appunto ci chiede di fare a meno di tutta sta’ ironia che c’è poco da ridere, e di agire in qualche modo.

Il luogo della riflessività che era già della tragedia greca, mezzo di intrattenimento ma anche rito collettivo e di “pubblico addestramento”, mi sembra volersi fare qui gesto epico e politico. Così com’era politico il teatro del Living, che a sua volta usava la versione brechtiana, citato non solo dal manifesto e dell’Antigone attaccato sotto al tavolo in scena ma evocato dal titolo Too Late. A me così i conti tornano.