Fra pubblico e privato. Riflessioni intorno all’Urban Spray Lexicon Project di Ateliersi

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ph. Ilaria Scarpa

Che il teatro e le arti performative in genere vadano pensate come contesti privilegiati per la riflessività individuale e collettiva può essere considerato un dato scontato. Tuttavia sono proprio le modalità con cui di volta in volta tale capacità riflessiva viene declinata, sperimentata, stressata a mettere in questione il senso dell’operare artistico: sia sul piano della sua funzione, cioè del posto che occupa nel sistema sociale dell’arte e nella società nel suo complesso, sia sul piano della messa a punto dei suoi linguaggi e della sperimentazione estetica.

In questo quadro può essere colto il valore di un progetto come Urban Spray Lexicon di Ateliersicollettivo di produzione artistica che opera nell’ambito della arti performative e teatrali con base a Bologna – il cui asse portante è costituito dall’approfondita ricerca delle tante e diverse scritte murali che compongono i panorami urbani, trattati da Ateliersi come vero e proprio materiale drammaturgico, base di partenza di una scrittura poetica che traduce i segni visivi in gesti performativi.

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ph. sito Ateliersi

Il progetto è stato avviato nel 2011 – in occasione della partecipazione all’evento di street art Bologna al muro – con la messa a punto, l’anno successivo, del primo capitolo Boia-concerto breve per imbrattamenti, voce e sintetizzatori, poema composto e interpretato da Fiorenza Menni a partire dal materiale di un archivio web che raccoglie centinaia di scritte fotografate e raccolte negli ultimi quattro anni sui muri di Bologna. Un processo di raccolta e ricognizione delle scritte che si è via via arricchito e complessificato attraverso la collezione delle scritte del passato scovate anche in libri, riviste, archivi privati e delle scritte di oggi che vengono meticolosamente fotografate, annotate, sistematizzate.

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ph. sito Ateliersi

Sul fronte mediologico il progetto lavora quindi sulla scrittura e su alcuni ribaltamenti particolarmente affascinanti. Ad esempio quello del rapporto fra scrittura e memoria, fra questo scrivere qualcosa – fissarlo su un supporto – per quel qualcuno che passa di lì. La scritta va vista allora, prima di tutto, come un incidente ottico del percorso quotidiano, ancora novecentesco, che nell’operazione di Ateliersi diventa anche il pre-testo per la resa performativa, per la possibilità di permutare e ricombinare frasi, proclami, affermazioni, dichiarazioni in qualcosa di nuovo. Un modo per dare corpo poetico a quanto invece lo sguardo in movimento rende effimero e fugace.

Sul fronte performativo Urban Spray Lexicon Project è composto da altri due capitoli: Se la mia pelle vuoi e Freedom has many forms – note e notizie sul come e perché delle scritte sui muri (2013) performance, la prima, e performance-lezione (costruita con Andrea La Bozzetta), la seconda, che Ateliersi porta nelle case e in spazi alternativi al teatro (gallerie, case d’artista, atelier, librerie, ecc.).

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Sabato 16 gennaio abbiamo ospitato una tappa dell’Urban Spray Lexicon Home Tour. In una stanza riallestita sapientemente da Ateliersi per accogliere adeguatamente gli amici-pubblico invitati è andato in scena Se la mia pelle vuoi, con Fiorenza Menni, Andrea Mochi Sismondi e Mauro Sommavilla alla chitarra.

Giocata scenograficamente sull’adattamento della casa e con l’uso delle luci – anche quelle esterne della strada, casuali, che accentuavano l’effetto “urbanità” – e sull’accompagnamento musicale molto efficace, la performance si è strutturata intorno al poema costruito attraverso le scritte e una serie di scambi dialogici fra Menni e Mochi Sismondi. Dialoghi quotidiani, intimi, normali, privati che cortocircuitano poi con l’elenco di affermazioni pubbliche, quelle delle scritte sui muri, che sostanziano il poema. Una serie di frasi politiche, poi esistenziali, poi ancora dichiarazioni d’amore – quelle banalissime che conosciamo tutti – alcune tragiche, altre molto ironiche e illuminanti. Piccole e grandi epifanie di quel mistero che sta nel simbolico e nell’immaginario e che si esprime nel suo tragitto antropologico, dall’individuale al collettivo. Sì perché il filo rosso della ricerca di Ateliersi va proprio rintracciato nel rapporto fra pubblico e privato che, a sua volta, si presta ad essere osservato su livelli diversi. Piani di un discorso che Ateliersi riesce a tenere coerentemente insieme.

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ph. Tihana Maravic

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ph. Gianni Giulianelli

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Un primo piano riguarda la ricerca poetica di Ateliersi che rimanda alla mediologia del teatro, vedi la questione ancora cruciale del testo, e alla necessità politica di un teatro riflessivo che si confronta costantemente con le istanze di realtà (ma ovviamente senza naturalismo).

[Il progetto nasce] Per risolvere un problema di relazione con il testo da recitare in scena. Ad un certo punto stavamo facendo un passaggio tale nel nostro lavoro che non trovavamo nessun tipo di senso e di interesse rispetto ad una scrittura già consegnata o tanto meno da pensare in maniera poetica o teatrale (Fiorenza Menni, conversazione sul divano dopo Se la mia pelle vuoi).

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Un altro livello riguarda la caratura del materiale utilizzato per la prima volta in occasione della partecipazione all’evento “Bologna al muro”. Il lavoro storiografico sulle scritte permette ad Ateliersi, ad esempio, di cogliere le strategie della controinformazione italiana fra il 1968 e il 1977 e di restituirle non soltanto in chiave performativa ma anche in termini di produzione culturale particolarmente interessanti.

La prima raccolta del nostro materiale è di tipo storico e riguarda le scritte del ’68 e del ’77, bellissime e molto diverse a livello linguistico. Quelle del ’68 sono scritte molto lunghe, molto articolate perché richiedevano una riflessione mentre quelle del ’77 fanno uno scarto linguistico di grande essenzialità, di grande impatto comico e con dei giochi linguistici molto forti tipo “felce e mirtillo” e “godere operaio”.

Sono parole forti, concettualmente immaginifiche, legate ad una realtà. Sono parole che stanno nella parte ignobile e non hanno pretese, sono anonime.

Possono essere al limite rimandate a dei gruppi politici cioè tu puoi ricostruire chiaramente una provenienza per quelle politiche e per quelle amorose mentre per quelle esistenziali no, ti chiedi soltanto perché uno esca di casa e debba scrivere su un muro.

Tutto questo ha dato proprio una spinta di senso, un modo per tenerci ancora in relazione con la realtà. Noi venivamo da un percorso molto lungo, dove abbiamo vissuto in una comunità rom, e tornare alla non-realtà sarebbe stato molto difficile. Questo lavoro ce l’ha permesso (Fiorenza Menni).

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Concepito in maniera drammaturgicamente aperta il progetto integra al lavoro di archivio il contributo user generated di coloro che essendo a conoscenza del progetto cominciano a guardare diversamente le scritte in cui si imbattono e che inviano alla compagnia come nuovo materiale. Il poema perciò presenta i caratteri di un sistema che pur mantenendo la sua identità organizzativa, adatta la sua struttura cioè modifica e si aggiorna secondo lo zeitgeist, lo spirito del tempo, dipendendo sostanzialmente da “come si muove il mondo intorno”.

Siamo partiti con i poemi che hanno questa capacità di portarti dentro, di farti ridere, di farti piangere poi ad un certo punto abbiamo ragionato sul momento che ti porta ad uscire di casa e voler incidere su un muro il tuo grido, il tuo urlo, la tua affermazione o domanda. Questo ci ha portato ad approfondire il rapporto fra pubblico e privato considerando il muro come una vera e propria membrana fra lo spazio privato, intimo, di uno spazio esistenziale vissuto da solo, e l’aspirazione alla condivisione sociale.

Abbiamo perciò lavorato in maniera carsica facendo emergere e re-immergere la questione del pubblico/privato partendo dalla scrittura dei dialoghi [nella prima parte della performance] contenenti molte delle cose che ci appartengono, scegliendo una serie di temi e lavorando sulla nostra vita, sul nostro intimo anche perché per noi il gesto pubblico consiste ne portare queste cose nel campo dell’immaginifico, nel campo del teatro e della condivisione (Andrea Mochi Sismondi).

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Nell’ultima parte della performance Andrea Mochi Sismondi legge una lettera inviata da un amico writer che non è potuto venire perché agli arresti domiciliari a causa delle sue scritte sui muri. Di seguito ci vengono consegnati dei cartoncini con delle scritte.

Molti ci chiedono chi sia questo amico e cosa gli sia successo. Ma questo amico è Céline che nel costruisce tutto il racconto di Voyage au bout de la nuit spingendo esistenzialmente dei periodi, dei periodi che leggendo e rileggendo quel libro ci sembrava fossero esigenze di scrittura. Per cui abbiamo lavorato su quel testo per costruire delle false scritte sui muri, delle scritte che vi ritrovate… C’è questo gioco bellissimo un po’ come succede con l’oroscopo. Quando incontri una scritta dici “ma questa è la mia”! (Andrea Mochi Sismondi).

Il rapporto pubblico/privato trova poi nell’home tour un’ulteriore importantissima declinazione anche di tipo politico: dal teatro come fatto pubblico che avviene nel privato di una casa fino all’avvicinamento fra attori e spettatori che rompe la distanza “normale” della relazione teatrale. Un esperimento efficace anche sul piano dell’audience development proprio perché si pone come dimensione di fruizione del teatro che spinge sulla dimensione comunitaria e sulle modalità di messa a punto di una pratica d’indipendenza capace di conciliare l’autonomia (creativa e produttiva) con le logiche di un sistema artistico e teatrale che deve funzionare.

Noi siamo una compagnia indipendente ma anche con dei riconoscimenti i quali ci chiedono anche progettualmente di fare certe cose. […] Un formato come questo lo devi costruire all’esterno del circuito teatrale e noi abbiamo pensato di poter sfruttare i tanti amici che abbiamo in Italia. […] Andare a ricercare un certo rapporto con le persone è alla base del nostro fare teatro e quando abbiamo visto cosa accade nelle serate dell’home tour allora ci siamo detti che questa è una situazione interessante (Fiorenza Menni).

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Alla fine della chiacchierata Fiorenza ci ha chiesto di leggere i nostri cartoncini con le scritte false riprese da Céline – i desideri del povero sono puniti con la prigione; la vanità intelligente non esiste; questa città non serve a niente; quel buco mi sembra adatto; non ci sorveglia più nessuno; se mi distraggo, non muoio – un modo garbato per chiudere il cerchio sul noi-pubblico e sulla dimensione partecipativa che può farci sentire comunità.

 

Di natura violenta. Uomo, tecnologia e natura secondo Cosmesi

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È andato in scena in questi giorni al Sì di Bologna Di natura violenta, la nuova produzione di Cosmesi, la compagnia di artisti visivi per il teatro formata da Eva Geatti e Nicola Toffolini qui affiancati da diversi compagni di viaggio.

Questo lavoro segna una piccola grande rivoluzione nella ricerca di Cosmesi che passa dalla centralità dell’immagine a quella della parola. O meglio passa all’analisi della complementarietà dei due ambiti imprescindibili della comunicazione umana cioè il registro analogico e quello numerico. Una scelta che consiste nel ridurre e rendere per sottrazione il peso dell’immagine e del corpo performante, in favore della centralità della dimensione verbale che serve per dire delle cose disambiguando l’immagine.

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Le cose di cui vuole parlare Cosmesi riguardano uno dei grandi archetipi dell’immaginario che è appunto la Natura la cui ambivalenza, il fatto cioè di essere per sua natura matrice di vita e potenza distruttrice, è sintetizzata nella metafora della natura violentata che, mi pare di capire, spiega meglio la condizione del nostro tempo considerando che ad essere di natura violenta, di fatto, è l’essere umano.

Si tratta insomma di prendere una posizione politica nei confronti della deriva tecnologica e dei suoi effetti perversi, di mettere a confronto l’utopia della tecnica con le sue ricadute distopiche, di assumere come principi guida di un diverso rapporto fra individuo e società le idee di devoluzione o decrescita felice su cui una parte importante della riflessione scientifica, economica e sociologica dibatte da diversi anni.

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Per parlare artisticamente di questi temi servono degli esempi emblematici, capaci di “teatralità” e quindi particolarmente potenti sul piano drammaturgico e simbolico. Ecco perché Cosmesi rintraccia in due figure “estreme” come H. D. Thoreau e Theodore Kaczynski l’idea e il fulcro narrativo del lavoro.

Il primo è il filosofo, scrittore e poeta statunitense che ha teorizzato (e praticato) il concetto di disobbedienza civile e che ha posto la questione della natura come oggetto della pratica filosofica nello scritto autobiografico Walden, ovvero la vita nei boschi; il secondo, più noto come Unabomber, è il docente universitario e terrorista statunitense autore di molti attentati e del Manifesto incentrato sull’analisi della società industriale e le sue catastrofiche conseguenze.

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Il meccanismo narrativo dello spettacolo è perciò incentrato sull’uso di frammenti dei testi originali di H. D. Thoreau e Theodore Kaczynski proiettati sul velatino dietro cui si svolgono le azioni sia in italiano sia in inglese e che non fungono da sovratitoli ma da tracce di discorso su cui fissare l’attenzione: da ascoltare – attraverso le voci registrate di Guido Beretta e Filippo Pagotto – e da leggere. Se infatti l’ascolto è la pratica più adatta all’oralità dello spettacolo dal vivo – potenziato fra l’altro dalla musiche e dal suono live – Cosmesi ci esorta alla lettura come azione intima, utile per riflettere, per pensare ognuno per sé.

In scena Eva Geatti compie gesti che fanno da contrappunto ai testi, si ritaglia un bel momento coreografico, si concede un breve e incalzante monologo dedicato alla necessità di rinunciare a qualcosa, di togliere, senza per questo pensare di poter rinunciare a tutto.

Poi alla fine si accendono le luci e vediamo in scena Nicola Toffolini e Theo, seduti alla consolle dietro ai computer, artefici delle proiezioni e dell’ambiente sonoro.

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Capiamo allora che Cosmesi ci ha portato dentro a un gioco paradossale in cui il rapporto fra tecnologia e natura, che Thoreau e Unabomber non potevano che trattare nei termini dialettici otto-novecenteschi, è affrontato attraverso un processo che porta a pensare alla natura tecnologica della nostra esperienza. Natura tecnologica che riguarda anche il teatro, originario dispositivo dello sguardo. E prima ancora la scrittura da cui tutto il sapere scientifico (e tecnologico appunto) deriva, cui le due figure rivoluzionarie si sono rivolte per far circolare le proprie idee.

Cosmesi si affida alla tecnologia cambiandole di segno rispetto alle visioni apocalittiche dei due autori, anche se non saprei dire quanto questo sia nelle loro intenzioni. Sta di fatto che la tecno-logica è innervata nel processo creativo di Cosmesi, caratterizza un’estetica frammentata, schermica, sonora che è la vera chiave di lettura della nostra contemporaneità collassata ma anche di alcune delle sue potenzialità.

 

[foto da B-FIES/MOTHERLODE dove lo spettacolo ha debuttato l’1 agosto 2015]

 

Lessici famigliari. Riflessività e comunicazione in due casi del “giovane” teatro

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Fra i lavori presentati (e che ho visto) nell’ambito di Trasparenze/Festival – che per me è diventato un appuntamento da non mancare (grazie a Silvia Mei) – La famiglia Campione dei toscani Gli Omini e I ragazzi del cavalcavia delle romane Industria Indipendente marcano un ulteriore campo d’azione di quello che varie volte ho chiamato teatro riflessivo, cioè attento alle istanze di “realtà”. Per farlo utilizzano il sistema “sociale” famiglia come luogo di osservazione del “sociale” e la comunicazione come processo che lo fa funzionare. Una dinamica che inizialmente riguarda le interazioni fra i suoi membri ma che poi – sganciandosi da quelle relazioni concrete ancorate a delle persone/personaggi – va a costruire una metafora di famiglia, un costrutto simbolico, astratto e universale e perciò molto adatto per pensare.

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La famiglia Campione è uno spaccato intimo, privato su una famiglia piccolo borghese come tante – campione, appunto – che svela da subito le patologie relazionali e i paradossi comunicativi che caratterizzano il mondo più vicino che ci sia. Non è un caso che questo lavoro sia il frutto di una ricerca di stampo etnografico condotta dalla compagnia su cinque comuni della provincia fiorentina e che ha coinvolto un’ottantina di persone, producendo delle tappe confluite successivamente in questa versione dello spettacolo.

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I tre (molto bravi) attori (Francesco Rotelli, Francesca Sarteanesi, Luca Zacchini) interpretano nove personaggi (più uno – Giulia Zacchini – che vedremo solo per una attimo alla fine). Una moglie un po’ arrabbiata, un ex marito in disgrazia e arrendevole, un nuovo compagno strafottente e grossolano; quattro figli: un maschio che sta sempre in casa, una figlia inconcludente che vuole aprire una gelateria a Londra ma magari anche in Italia, un’altra (anche lei frutto della prima coppia) che si è chiusa in bagno per tentare di non comunicare; un figlio, nato dalla seconda unione e molto simile al padre, in partenza per Dubai in cerca di fortuna; tre anziani nonni che, dall’alto di una vita già vissuta, dispensano perle di saggezza con lucida ironia.

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Un lessico quotidiano dalla forte cadenza dialettale, toscana, segna gli scambi di battuta fra di loro, dà forma ai personaggi, alle loro personalità e, soprattutto, mostra l’eccesso di comunicabilità – ancor più evidente quando si tenta di non comunicare – che caratterizza un contesto sociale particolare come la famiglia e le sue dinamiche. Ad esempio l’avvicendarsi delle posizioni comunicative, la loro complementarietà: il marito debole sovrastato da quello forte, anche se poi s’impone con la sua presenza e i suoi regali alla ex e ai figli. Oppure la figlia chiusa in bagno che solo apparentemente si sottrae alla comunicazione obbligando di fatto gli altri a prenderla in considerazione e a preoccuparsi per lei. Questi scambi sono scanditi dalla presenza di mele in scena, mele che vengono morse, condivise, passate e, alla fine, accaparrate dalla figlia che se le porta in bagno. Una sorta di quasi-oggetti (direbbe Michel Serres) che, passando di mano in mano, costruiscono la relazione. Perché nonostante tutto la relazione fra questi genitori, figli, fratelli, nonni, coniugi ed ex c’è, non è da negoziare, svelando di fatto la normalità di una famiglia campione allargata che ci fa pensare e sorridere della nostra.

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Altro spaccato di “realtà” e altro scenario linguistico e culturale è quello proposto da I ragazzi del cavalcavia di Industria Indipendente (Erika Z. Galli e Martina Ruggeri), in prima assoluta a Modena il 9 maggio, vincitore del Premio Giuria Popolare Dante Cappelletti 2015. Liberamente ispirato agli incresciosi fatti di cronaca che la nostra memoria mediale sostanzia nella formula dei “sassi lanciati dal cavalcavia”, lo spettacolo descrive il passare nella città di T. delle giornate del Natale 1996 della famiglia F. Lo spettacolo quindi prende dichiaratamente spunto dalle vicende dei fratelli Furlan di Tortona che in quell’anno lanciarono dal cavalcavia di Cavallosa di Tortona il masso di tre chili che uccise la neo sposa Maria Letizia Berdini.

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Quattro fratelli maschi e uno zio si muovono lungo una serie di scene costruite per quadri che, con pochissimi elementi di contesto, riescono a definire efficacemente il frame drammaturgico. Attori (Alberto Alemanno, Maziar Firouzi, Francesco La Mantia, Daniele Pilli, Michael Schermi) e registe (Erika Z. Galli, Martina Ruggeri – assistenti alla regia Astrid Meloni/Maria Teresa Berardelli) (anche in questo caso tutti davvero bravi) ci fanno passare da una cava – o qualcosa del genere – in cui i fratelli più grandi addestrano militarmente il più giovane del gruppo al machismo e alla vera mascolinità; cercano di iniziarlo al rapporto con le donne usando una palla da bowling per descriverne la fisionomia salvo poi comportarsi da branco e coalizzarsi contro la ragazza designata quando non mostra interesse. Discoteca, droga, tifo calcistico, rivalità con altri maschi, ambiente domestico e attaccamento alla mamma si alternano a momenti in cui la presa di coscienza dei personaggi non serve che a tracciare il percorso di un destino predefinito che porta all’ultimo eccesso, all’ammazzare la noia buttando i sassi sulle macchine. Il testo spettacolare nel suo complesso funziona perché attraversa i luoghi comuni, sia linguistici sia comportamentali, riuscendo a produrre un’immagine di quel nord Italia anni novanta in cui, fra le altre cose, si è imposto un certo stereotipo del maschile, vera e propria gabbia simbolica da cui, mi pare, sia ancora abbastanza difficile uscire. http://www.youtube.com/watch?v=ecy5MhbpXwI

Quando finisce l’amore

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L’amore è una normalissima improbabilità. L’ha spiegato bene Niklas Luhmann quando in Amore come passione, indagando i cambiamenti dell’amore come una particolare forma della comunicazione, fa notare come in epoca moderna il suo codice di funzionamento si sia incentrato su passione e sessualità.

L’amore quindi non viene trattato più come un sentimento ma come un codice simbolico che informa su come una comunicazione possa realizzarsi anche laddove di fatto è piuttosto improbabile.

L’amore è il medium della costruzione del mondo con gli occhi dell’altro e siccome, alla lunga, questo orientamento all’altro, come persona, al modo in cui vede il mondo, deve fare i conti con la singolarità del punto di vista di ognuno, l’amore come passione è destinato a essere infelice. O per l’appunto: improbabile.

È qui che possiamo rintracciare il senso e la forma di un lavoro come Clôture de l’amour, scritto e diretto da Pascal Rambert, che ha debuttato nel 2011 al Festival di Avignone e che abbiamo visto nella versione italiana (voluta e prodotta dall’ERT) interpretata da Tamara Balducci e Luca Lazzareschi (10 e 11 gennaio 2014 al Teatro degli Atti di Rimini).

Lo spettacolo si compone di due monologhi – o meglio di un dialogo su due uniche lunghe battute: prima lui poi lei che gli risponde – che si svolgono in una bianca e spoglia sala prove il cui passaggio di parola è permesso dall’entrata in scena di un coro di bambini che provano una canzone per poi tornare dietro le quinte e lasciare i due (un regista e un’attrice che hanno gli stessi nomi degli attori) a porre fine alla loro storia d’amore. Là dove l’improbabilità si trasforma in impossibilità di andare avanti, ma non prima di aver messo in moto le strategie comunicative di una razionalità un po’ delirante nella parte maschile e di un’emotività più lucida nella femminile.

Lui è il primo a parlare e vale la pena leggere il testo per capire che il suo monologo è ancorato ricorsivamente a qualcosa che riguarda il prima, che solo lei conosce e che lei ci chiarirà rispondendogli a tono. Lasciarsi insomma si fa discorso, crudele per forza (penso ad esempio a Lasciami di La Cecla), su uno schema comunicativo circolare come una danza ricorsiva che produce un dominio consensuale: ci lasciamo anche se io non sono d’accordo con te. Una danza che chiama costantemente in gioco il corpo: sia nel rimando al corpo d’amore che ritorna nel testo, sia nel modo stesso di essere in scena degli attori.

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I due stanno agli estremi della diagonale del palco in modo che il parlante sia visto di fronte mentre chi ascolta e incassa è di schiena al pubblico. Presente con il suo corpo in una specie di coreografia del dolore che rende più evidente il rapporto fra comunicazione verbale e non verbale, dove la seconda è quella che ci dice più cose sulle relazioni e sugli effetti emotivi.

Come autore eclettico e a vocazione trans-mediale Rambert rappresenta dagli anni ’80 una delle figure di spicco della scena contemporanea. È autore, coreografo, regista teatrale e cinematografico il che porta alla costante operazione di trasferimento e traduzione di un lavoro da un supporto e da un linguaggio a un altro. Lo stesso Clôture de l’amour è la versione scritta di un film intitolato Car Wash, ad esempio, mentre certe sue coreografie sono estensioni di pièce teatrali e viceversa.

Un’attitudine all’attraversamento dei linguaggi che in Clôture de l’amour riguarda anche il lavoro di traduzione nelle lingue dei luoghi che ospitano lo spettacolo – oltre l’Italia, Russia, Stati Uniti, Giappone, Croazia, ecc. – e un ruolo attivo e autoriale per gli attori che sono chiamati ad adattare il testo su di sé, come individui e performer, e sulla propria lingua di origine.

A questo proposito gli attori, incontrati con il pubblico dopo lo spettacolo di venerdì 10 gennaio, hanno messo in luce una serie di aspetti interessanti e che riporto parzialmente di seguito. Il resto merita di essere lasciato là dove si è prodotto. Fra applausi, risate, battute con il pubblico e perciò intraducibile e unico.

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Il testo mette a confronto delle prospettive di osservazione su diversi livelli, due sguardi sulla propria storia d’amore che sta per finire, su un piano, ma anche delle diverse coppie di attori che hanno lavorato su quest’opera nelle versioni “locali”. Potete raccontarci la storia di questa pièce, delle sue traduzioni e il modo in cui vi siete avvicinati alle vostre parti?

Pascal ha allestito questo lavoro in diverse parti del mondo e in lingue diverse e sta portando avanti uno studio antropologico sul linguaggio e su che cosa significa lavorare con gli attori nella loro lingua. Clôture ha la struttura e la drammaturgia uguale in tutti i paesi ma cambiano delle piccole cose a seconda di dove viene allestito. Pascal ci raccontava che in Giappone a teatro non si può usare la parola amore per cui fare uno spettacolo come questo senza dire “ti amo” è stato difficile eppure hanno trovato il modo di farlo. Oppure nella versione moscovita gli attori, che sono molto “stanislavskiani”, si sono rifiutati di usare i loro nomi per evitare di confondersi in un’immedesimazione troppo forte con i personaggi. Tamara Balducci

L’approccio a questo testo è stato un po’ diverso dal solito perché intanto quando Pascal ci ha presentato il testo era scritto come l’Ulisse di Joyce, cioè erano pagine intere senza punteggiatura, senza maiuscole… erano parole, una sorta di flusso di coscienza sul quale bisognava intervenire per ricreare una punteggiatura, un insieme. Però lui l’ha scritto così. Il testo come avete visto è pieno di riferimenti alla lingua parlata, alla lingua bassa, parole in inglese di uso comune, ed è così anche in francese. Ed è un altalenarsi continuo di scrittura alta e di scrittura bassa, di parlato e anche di mondo letterario. Sono due personaggi che si chiamano Luca e Tamara in questo caso, ma che possono chiamarsi in mille altri modi. Certamente due intellettuali, due artisti. Un regista e un’attrice o un coreografo e una ballerina quindi il linguaggio si riflette anche nella biografia di Rambert che è un regista, un intellettuale con tutte le finezze intellettuali francesi, filosofo peraltro. L’approccio a tutto questo è stato abbastanza traumatico. Innanzi tutto per la lunghezza. I due monologhi, come spesso ripetiamo, sono due lunghe battute di un dialogo perché in realtà voi avete un visto un dialogo in cui il personaggio passivo passivo non è visto che a teatro l’essere passivi richiede un’energia. Per ricevere bisogna essere attivi e quando Tamara ed io siamo lì a ricevere questo vomito di parole e di emozioni si assorbe e assorbire è un’attività non è una morta passività. A me non è mai capitato di interpretare un testo che si fonde così con la biografia, anche la mia personale e, credo, con quella di molti ed è anche per questo che il testo risulta essere così forte e d’impatto. Credo vada a colpire la pancia di molti perché tratta cose in un modo che probabilmente molti di noi conoscono. È stato un bel lavoro di training anche psicologico, molto interessante. Luca Lazzareschi

Uno degli aspetti che il testo pare mettere in luce riguarda il modo in cui il punto di vista irriducibile dei due personaggi rimandi al rapporto, anche conflittuale, fra il maschile e il femminile. Cosa ne pensate?

Sebbene si tratti un aspetto che viene sempre messo in evidenza, io credo che sia un po’ uno stereotipo. Che siano due punti di vista sull’amore e come affrontarlo è vero… ci vuole coraggio in una relazione nel fare il primo passo, dire basta, stop “fare il lavoro duro”, come dice Luca, quindi sono due punti di vista che non si possono incontrare e il risultato è una perdita. Tutti e due perdono. E da una perdita, da un fallimento nascerà qualcos’altro. Però soprattutto per come sono le relazioni al giorno d’oggi, per come stanno andando penso che usare la distinzione fra maschile e femminile sia uno stereotipare la complessità delle relazioni… Sì è vero che nel mio personaggio c’è un voler tenere con sé qualcosa del rapporto, il ricordo, ma non sono convinta che siano modi dell’uomo o della donna ma di modi diversi di affrontare una cosa difficile come una separazione. Tamara

In una intervista Rambert sottolinea il ruolo del tempo nei suoi lavori e la scelta di trattare i momenti di passaggio, le soglie che segnano un cambiamento, quelli che chiama “i momenti cruciali delle relazioni umane”. Come avete affrontato, allora, la messa in scena di questo vostro finale d’amore?

Pascal inserisce tutto quello che c’è da fare in questo testo. L’essere obbligati a stare lì a ricevere, stando praticamente fermi, fa già avvenire nel tuo corpo tutto quello che deve avvenire per prepararti a quello che devi dire. Basta già lasciarsi attraversare da questo. Le parole agganciano alla nostra esperienza personale e quindi non c’è bisogno di andare a cercare troppo lontano. Sei tu sei permeabile in scena a seconda di quello che ti succede e dalle parole che dici ti conosci benissimo il resto va da sé e basta solo respirare per andare avanti. Tamara

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Mi veniva in mente quella canzone bellissima di Fossati che s’intitola La costruzione dell’amore perché qui avviene proprio la decostruzione mattone per mattone, chiodo per chiodo, della relazione. La parte maschile è quella razionale che maggiormente va incidere nei punti deboli… Io trovo invece che nel testo ci siano i due stereotipi del maschile e del femminile. Il maschile razionale va a smontare l’emotività femminile punto per punto e poi, naturalmente, quando il femminile contrattacca vince. E vince per due motivi. Primo perché arriva dopo e qui non c’è possibilità di replica però è anche un po’ così nella vita. […] La capacità femminile di andare nel profondo e di restituire un mondo interiore, come dice il personaggio di Luca, è certamente maggiore di quella maschile. Io credo che questo sia un testo di grande celebrazione del femminile. … La donna esce vincente basti pensare alla battuta finale “Spero che tu abbia una vita interiore”. Poi i grandi testi teatrali, e penso che questo sia un grande testo teatrale e di poesia, non a caso in Francia ha vinto moltissimi premi di drammaturgia e di letteratura, sono costruiti in modo anche curioso. Penso che Pascal ci dia l’autorizzazione a raccontare qualche aneddoto… Pascal Rambert vive a Parigi un po’ in periferia, al primo piano di un palazzo e ha preso nota nel suo studio di cose che sentiva per strada. Cioè molte delle cose che diciamo sono cose che ha sentito di persone che litigavano, che si lasciavano, che parlavano dei figli e le ha messe lì. È questo il grande autore, cioè colui che sa trovare la poesia anche da qualche cosa che l’orecchio di chi non è un autore o un poeta non riesce a percepire. Lui lo riesce ad acchiappare e trasformare in un evento drammaturgico. Poi avrà preso anche sicuramente dalla sua storia personale. Ritengo però che sia un testo il cui equilibrio è molto squilibrato dalla parte del femminile. Io stesso che sono lì come Luca attore penso “ha ragione lei!”. Luca

Lo spettacolo mette a punto una drammaturgia stratificata e circolare che sembra mettere a tema proprio la questione teatrale e categorie come la quarta parete. Nel testo sentiamo spesso frasi come “se ci fosse il pubblico a sentirci”, “se ci fossero coppie in sala”, come vanno intese?

Sono trucchi drammaturgici molto interessanti, di rottura della quarta parete e servono per chiamare in causa il pubblico. Le reazioni che vediamo spesso dimostrano che questi “trucchi” siano molto efficaci. C’è sempre questo gioco speculare tra quello che si dice qui e quello che viene percepito in sala. Luca

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Allo stesso modo mi sembra interessante la circolarità degli sguardi punti di vista e del rapporto fra il linguaggio perché è la dimensione testuale, pur essendo centrale in questo lavoro, rimanda continuamente alla corporeità. Il corpo è costantemente evocato dal vostro stare in scena ma anche dalle cose che dite, all’amore come questione che coinvolge il corpo e la sessualità. Come si realizza questa circolarità dal vostro punto di vista?

Questo un testo sul linguaggio. Non solo sul linguaggio fra due amanti ma sul linguaggio in generale. Una delle tante cose importanti che si dicono nel testo è che il linguaggio deflagra. Tamara a un certo punto dice “le parole sono come cadaveri, uno qua e uno là” e questo è molto vero. Quando un amore finisce o comincia lentamente a consumarsi il linguaggio è la prima cosa che decade, il linguaggio comune. Forse la cosa più bella soprattutto all’inizio è la scoperta di un linguaggio comune, di alcuni nessi fra due entità che scoprono di avere una lingua e un linguaggio comune. Poi questo linguaggio comune diventa uno solo e poi lentamente, a volte, le parole, purtroppo, come accade in questa storia, cominciano a decadere, a non avere più il senso che non avevano prima. I due soggetti cominciano a non capirsi eppure dicono sempre le stesse cose ma evidentemente alle parole si danno significati diversi, gli si mettono degli abiti diversi e in questi non si riconoscono più. Credo che questo, in questo testo, sia l’elemento poetico più deflagrante e bello, dal mio punto di vista. Il testo è secondo me va a rispecchiare esattamente questo aspetto, cioè quello che può accadere nella fisiologia di un rapporto che finisce, nella patologia di una storia d’amore. Quando la fisiologia diventa patologia, i tessuti non si riconoscono più e le cellule cominciano a farsi la guerra pur essendo composti della stessa sostanza. Luca

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Qual è la funzione del coro e come avviene il reclutamento, la scelta della canzone cantata dai bambini? So che ad esempio nella versione statunitense la scelta è ricaduta su un pezzo di  Whitney Houston…

In ogni piazza viene reclutato coro di bambini che propone la canzone in base al proprio repertorio. In Italia, in genere, i bambini cantano Bella di Jovanotti. È molto pop come canzone ma ha un effetto pazzesco perché dopo tutto il monologo di Luca, con la sua pesantezza, l’arrivo di questi bambini tutti colorati che provano una canzone allegra crea una lacerazione. Il contrasto dovrebbe fare male, mettere in evidenza lo scarto con quello che è avvenuto prima e che avverrà dopo. Tamara

Ecco allora che la fine dell’amore è un modo per trattare la dimensione del tempo e di quelle fasi di passaggio che marcano i cambiamenti nella vita degli individui e delle collettività. Forse è qui che si trova il significato non solo estetico del finale quando Luca e Tamara indossano un copricapo di piume blu guardandosi per l’ultima volta.

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Gli attori ci hanno divertito e incuriosito sugli aneddoti legati a questo finale e su come sia stato oggetto di discussioni e revisioni da parte del regista, di come gli attori russi si siano rifiutati di metterli non riconoscendone il senso drammaturgico e di come in America non siano passati alla dogana…

Ma quello che ci resta, a ben vedere o almeno per me, è un’immagine abbastanza chiara di un rituale di abbandono, di una danza fra combattenti, fra due rivali, che dà l’avvio o chiude un conflitto ovvero il dramma sociale che è all’origine della vita, della performance e del teatro.

Il Discorso Grigio di Fanny & Alexander. Un tassello per il “teatro riflessivo”

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Discorso grigio  è il primo episodio del progetto Discorso di Fanny & Alexander ma anche un tassello significativo di quello che da tempo provo a definire come “teatro riflessivo” che usa le istanze della contemporaneità sia a livello estetico sia di contenuti con grande consapevolezza.

Coerentemente con il tipo di ricerca di F&A – stratificato, complesso, che richiede di mettere in campo e contemporaneamente diverse prospettive di osservazione – il progetto indaga sulla forma discorso, sul rapporto tra l’individuo e la comunità e il gruppo sociale. Per questi motivi si pone sulla linea di un teatro sociologicamente interessante, capace cioè di fornire dei parametri di osservazione non tanto “realistici” ma adatti a costruire quei meta-commenti sul mondo, il nostro, indispensabili alla qualità riflessiva della performance.

L’indagine che si articola in 6 spettacoli e 6 radiodrammi attraversa le forme principali del discorso pubblico e delle sue declinazioni – politico, pedagogico, religioso, sindacale, giuridico e militare – associate ad un colore-simbolo. Al politico tocca il grigio. Ça va sans dire.

“Grigio è il colore della mescolanza perfetta di ciò che è bianco e ciò che è nero. È la differenza indifferenziata” (Chiara Lagani intervistata da Michele Dantini).

In questo spettacolo il peso della cultura visuale è garantito visivamente ma non solo: dal grigiore della scena e del personaggio ma anche dalla sua trasformazione in pupazzo/maschera – facendo pensare per inquietante preveggenza i politici clown evocati dal tedesco Steinbueck. Oltre alla testa gigante – maschera grottesca e carnevalesca – indossata nel finale sono le mani “imbottite” del politico idealtipico (magistralmente incarnato da Marco Cavalcoli) a farci entrare a Topolinia (cito Cavalcoli) ma anche nell’immaginario muppet e della performance, qui per citazione diretta Paul McCarthy.

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foto Enrico Fedrigoli

Il passaggio di F&A dai testi tratti dalla letteratura (Nabokov, Baum, ecc.) e dalla loro traduzione cinematografica alla testualità del discorso pubblico, e in specie politico, assume poi una valenza mediologica importante. Intanto c’è la retorica politica giocata in scena con il morphing di voci e attraverso una partitura sonora che oltre ad essere una cifra espressiva “tipica” di F&A costruisce la scena in chiave spaziale e temporale. Il suono, su composizione di Luigi De Angelis, dà il ritmo emotivo, attraversa e costruisce lo spazio ma le voci sono quelle dei politici di oggi e di ieri, integrati in fase successive – ci spiega Marco durante l’incontro con il pubblico dopo lo spettacolo al Teatro Rosaspina di Montescudo – in base alla “drammaturgia per rimandi” su cui con Chiara Lagani è stato messo a punto il lavoro.

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La retorica quindi è fatta di modi, stili comunicativi e di gesti oltre che di parole demagogiche per cui, ancora una volta, quello che emerge dal gioco di riconoscibilità che non vuole essere di semplice imitazione è il corpo del leader (o del capo) e la sua resa mediale. Una resa giocata sul piano visivo ma anche della voce. Come dimostra l’attenzione verso il radiodramma, visto che la radio ha svolto sempre una funzione centrale per la propaganda politica ma è allo stesso tempo anche il luogo in cui possono collassare la sperimentazione artistica e di linguaggio tecnologico.

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Ritroviamo – dopo OZ e soprattutto West – il meccanismo dell’eterodirezione, metafora e sintesi del potere della comunicazione sui corpi, così come lo intendono F&A. Cavalcoli in cuffia segue comandi sui gesti da fare e sulle cose da dire, sorta di “vaso di risonanza delle voci che lo attraversano e lo fanno parlare”. Ed è in tutte queste voci che si compone un blob adattabile e che si rinnova in maniera morfogenetica senza stravolgere l’identità organizzata del lavoro. Nonostante i cambiamenti portati in corso d’opera – in relazione agli eventi congiunturali cui gioco forza la drammaturgia rimanda – lo spettacolo resta lo stesso essendo semmai, come sottolinea Cavalcoli, la declinazione di significato a cambiare così come il modo con cui essere osservato e interpretato dal pubblico.

Così quando l’attore – sempre sul finale – si ferma a guardarci uno a uno negli occhi possiamo pensare le cose più disparate. Non ultima quella di essere colpevoli anche noi.

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Il dispositivo che viene attivato serve mettere insieme le retoriche con cui i media di massa e in maniera esplicita la televisione – ma a ben vedere anche la rete come ambiente che veicola contenuti dell’ambiente circoscritto dalla tv – rendono il discorso politico un’altra forma dell’intrattenimento. I talk show, sempre seguitissimi e adatti all’emergenza della social tv, e la satira sono i linguaggi adatti a creare e far circolare la comunicazione senza costrizione al consenso ma in maniera funzionale al funzionamento della pubblica opinione e delle sue trasformazioni. E in questo mi pare stia il significato di grande attualità di questo modo di fare teatro civile, una nuova cornice che definirei di TEATRO RIFLESSIVO.

Deviazioni di danza 2

La seconda tappa di c_a_p05 deviazioni – ieri, 16 novembre 2012 al Teatro degli Atti di Rimini – è caratterizzata dalla presentazione di due lavori accumunati da un ragionamento intorno al corpo e all’osservare che attinge a forme di pensiero decisamente raffinate e stimolanti.

MINDSCAPE (story). Descrizioni e storie di Massimiliano Barachini, in scena con Jacopo Jenna, pone la questione del corpo come punto di vista soggettivo sul proprio sé che, al di là delle questioni sull’identità cui potrebbe far pensare, sembra piuttosto una questione legata al tema della riflessività. Forma dell’osservazione che qualifica l’esperienza teatrale – del teatro inteso come dispositivo al di là dei generi – e la qualità (anche) spettatoriale del performer.

Un aspetto che, durante l’incontro con gli artisti alla fine dello spettacolo, Jacopo Jenna – il doppio-gemello di Barachini – ha sottolineato e messo in relazione al pubblico e alla ricerca costante del “tuning” fra i due performer e gli altri.

Posso iniziare descrivendo me stesso che danza, nel momento in cui inizio a danzare, o anche nel momento in cui inizio a danzare, o anche nel momento in cui immagino me stesso danzare: il modo in cui preparo il mio corpo-mente per fare un’azione, il modo in cui la mia mente reagisce all’azione che faccio, il mio pensiero, il mio sentire, le emozioni, le invenzioni dell’immaginazione.

(Massimiliano Baracchini)

Su questa base la coreografia organica di Barachini è una “macchina creativa” incentrata sull’improvvisazione e sulla performance in una complessa interazione fra i livelli analogico e numerico della comunicazione, cioè fra il corpo e la parola con cui questa coreografia costruisce il suo livello meta comunicativo.

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(Massimiliano Barachini, Jacopo Jenna e Paola Bianchi del collettivo c_a_p)

Barachini costruisce la sequenza di movimenti descrivendola con le parole, Jenna segue i passi, in accordo con le dinamiche evolutive del genere e il suo sconfinamento nei territori poliedrici e multimediali delle arti performative in genere, e facendolo mettono in crisi la naturale ambiguità dell’immagine. Ma questo – come ha ribadito Barachini – serve per avvicinare lo spettatore, per aiutarlo a capire attraverso la retorica dell’engagement.

In questa accezione della coreografia come “descrizione dell’attimo che muta” nel fluire di parole e movimento, intese a loro volta come “forme diverse di un unico sentire”, si rintraccia il riferimento a Deleuze e Guattari e l’idea del corpo senza organi, campo di forze orientate al desiderio e non organizzato, perciò, almeno in ipotesi, meno bonificabile dalle istanze sovra-individuali della società che ci contiene. In questo senso l’utilizzo di forme e movimenti presi dalle arti marziali e dal tai chi possono essere considerate parte di uno sguardo orientale teso a rappresentare l’elevazione del corpo/mente.

E ancora di prospettive dell’osservazione sembra parlarci Simona Bertozzi che con Bird’s Eye View prepara il terreno al paesaggio ludico di Mimicry, quarto episodio del progetto Homo Ludens.

Qui evidentemente il rimando teorico è agli studi classici sul gioco di Huizinga e ancor più esplicitamente la classificazione dei giochi di Roger Caillois che comprende, oltre la mimicry (ovvero la maschera in cui il giocatore gioca ad essere qualcosa o qualcun altro), l’agon (la competizione), l’alea (la sorte), e l’ilinx (la vertigine).

Lo spettacolo è da intendersi quindi come una “serie di spunti coreografici” che si presenta però come una particolare forma della narrazione che mette in rapporto il corpo con lo spazio a partire dalla metafora del volo e perciò del cambiamento prospettico del punto di vista.

Basta affidarsi al testo di Simona Bertozzi per capire:

Prima l’uccello è nel corpo, nel segno tattile, fragile e maestoso al contempo, degli arti e delle declinazioni del capo. Si erge alla verticalità ma assottiglia il sostegno. Destruttura e disarticola la caduta, scompare ma per risollevarsi in volo.

Poi il punto di vista è aereo. Si vede da lontano. Il corpo si assottiglia. Somiglia alla bidimensionalità di una sagoma. Sono i dettagli circostanti che definiscono il suo perimetro. Suoni, colori. Al posto dell’estrema mobilità, è la proiezione dello sguardo che vorrebbe accogliere più unità e microcosmi possibili.

Bird’s eye view è un volo solitario per necessità visionaria e visiva, ma radente, arioso, ampio e geometrico per desiderio di vicinanza con altri corpi. L’orchestrazione del volo necessita del calore e del sostegno di un paesaggio umano che predisponga le nuove regole del gioco. Che non dubiti della propria follia, che si affascini e si affezioni alla difficoltà gratuita del ludus.

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(con me Simona Bertozzi e Massimiliano Barachini)

Questo volo – per tornare al racconto di Simona Bertozzi durante l’incontro – si inserisce nel più generale processo di ricerca sul corpo-paesaggio e se la visione aerea è quella che serve a costruire le mappe, allora mappare il corpo e il suo posto nello spazio è il gioco della danza e, si sa, del suo essere una cosa seria.

La cura open source di Salvatore Iaconesi. “Irritazioni” fra medicina, arte e vita

Al di là della faccenda umana, verso la quale non si può che esprimere un sentimento simpatetico da espandere, l’iniziativa di Salvatore Iaconesi è un esempio importante del rapporto (cioè dell’accoppiamento strutturale) fra un sistema sociale, la medicina, e un altro: l’arte. In questo caso la relazione è vista dalla prospettiva del sistema dell’arte: come un artista osserva la questione medica che lo riguarda e la fa rientrare nel circuito della comunicazione. In tal modo, e proprio per il contenuto cui tutta l’operazione rimanda, siamo costretti a fare i conti con la qualità ambivalente dell’arte, sempre sulla soglia fra comunicazione e percezione. Cioè fra il sociale e la vita soggettiva dell’individuo.

Qui infatti si tratta non tanto di comunicare le proprie osservazioni. Cioè non siamo di fronte all’agire di un artista (ego) che osserva e attualizza possibilità rimosse e di un fruitore (alter) che ne fa esperienza interiore. Siamo su un altro livello, laddove il rapporto fra arte e vita si è trasformato, da John Cage in poi, in un assunto fondamentale per uscire dalle maglie stringenti del sistema dell’arte accoppiato al mercato e lontano dal vissuto delle persone.

L’arte tecnologica, per usare una definizione generale e a-problematica, ha lavorato in questa direzione: la sperimentazione artistica dei linguaggi, il loro utilizzo creativo, per il networking e per l’emergere del citizen artist. Artivismo, ad esempio, è un altro termine che mette insieme arte e politica da integrare alla semantica dell’engagement, cioè l’impegno sul campo, che gli artisti di oggi sentono con rinnovato vigore.

Appunto per questo che il contesto della creatività si diffonde al di là dell’interattività, chiamando a raccolta e all’agire gli utenti. Ecco perché mi sembra che La cura sia un progetto da cogliere anche in questi termini. Da un lato c’è la questione dell’open source quale tema centrale per i processi legati alla democratizzazione della rete e del’informazione (spiegato bene da Tanni e Giovanni), dall’altro lato l’esemplificazione – mediata dal “corpo” di Iaconesi – dell’accoppiamento fra media e vissuto potenziato dalla teoria e dalla pratica del networking e della body art, di un corpo e di una vita che si mettono a disposizione della contingenza disseminandosi in rete.

Anche io mi sono trovata ad affrontare una malattia con la forte tentazione di usare la rete come luogo di condivisione, per sentirmi dire delle cose che mi gratificassero. Non so se per Iaconesi sia lo stesso ma di certo la sua è un’operazione culturale che parte da un evento biografico – tra l’altro processo non così insolito per la produzione artistica – da rendere tema e occasione per il tipo di sperimentazione artistica che, con Oriana Persico, porta avanti da sempre.

In più, per tornare all’inizio e concludere, resta da vedere come la comunicazione del sistema della medicina tratterà questo tipo di operazione, in che modo ne sarà “irritato”. Se arrivassero tanti pareri – al di là dei protocolli – si porrà per Iaconesi il problema della selezione di quello che è meglio per lui e non so quanto il condividerlo con “noi” sia utile. Nello stesso tempo l’idea di poter fornire strumenti di gestione alternativi della propria malattia e delle relative informazioni ad altri può essere pensato come un caso di menthorship informale che ben si adatta alle logiche e allo spirito delle culture partecipative.

La memoria individuale e i suoi dilemmi. Appunti su As it Is a Santarcangelo 42

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Con il supporto di Valentina Carnelutti e della macchina della verità comprata su ebay Damir Todorovic – in As it Is visto a Santarcangelo il 15 luglio – indaga sulla memoria e perciò sul dimenticare. E quindi sul tempo.

Sembrerebbe di poter dire, in modo più mirato, che in questo caso il punto sia la memoria individuale (quella di Damir) che viene messa alla prova della teoria e quindi dei piani del corpo e della mente, da un lato, ma anche della relazione che su questo livello rimanda gioco forza alla dimensione collettiva (di un dramma storico) e sociale (il modo per comunicarla).

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Il processo è apparentemente semplice: Valentina pone a Damir delle domande a partire dal diario che lui, soldato in Bosnia nel 1992, scriveva non sempre in lucidità durante la guerra. L’intento dichiarato è quello di stanare, con la macchina della verità e perciò della tecnica, la differenza fra la realtà dei fatti e il ricordo che ne resta fra elaborazione e rimosso.

Se i fatti accaduti sono stati raccontati a caldo nel diario e affidati alla memoria dei media attraverso la scrittura (e il linguaggio) allora As it Is è uno spettacolo che ha per tema la memoria individuale cioè quel livello che – per lo meno negli studi di Maurice Halbwachs e i due Assman (Jan e Aleida ma si veda per un’analisi che mette in fila tutto Roberta Bartoletti) – proprio per essere oggetto della condivisione con il pubblico si predispone alla comunicazione, cioè all’esterno, come memoria della mente, cioè della coscienza, ma che tuttavia, nel caso di eventi così tragici, deve fare i conti con la memoria del corpo, dentro di sé, non cosciente e incomunicabile.

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Lo spettacolo è questo. La traduzione teatrale della forma biografica non può che portare a mettere in campo i piani della rappresentazione e la continua frizione fra “realtà” e “finzione”. I due si confrontano un po’ per davvero un po’ per finta su fatti che dall’accadimento sono passati attraverso la scrittura e poi di nuovo nell’oralità.

E il teatro come dispositivo che tiene insieme le due modalità diventa non solo per Damir – così mi pare di capire dopo qualche parola che ci siamo scambiati – il luogo della sua personale elaborazione simbolica, e perciò “curativa”, ma il contesto riflessivo in cui vissuto e rappresentato si avvicendano in modo da dare allo spettatore la possibilità di operare per identificazione e/o per proiezione, per coinvolgimento e/o per distacco.

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O forse così dovrebbe essere perché non sempre la resa corrisponde all’aspettativa che suscita. Il meccanismo dello spettacolo andrebbe a mio modestissimo parere perfezionato per evitare certe forzature, soprattutto nel trattare il rapporto vero/falso, che in un lavoro del genere stonano un po’.

[foto 2 e 3 Ilaria Scarpa, foto 1 e 4 foto mie].

Il gioco relazionale della rappresentazione nel Nowness Mystery di Cuquí Jerez. Spielart 2011.

Con The Nowness Mystery Spielart 2 dicembre 2011 – Cuquí Jerez, con la complicità delle scanzonate Maria Jerez, sua sorella, e Amalia Fernández, interroga i limiti della rappresentazione, il rapporto fra performer e spettatori e in definitiva, coerentemente con un percorso di ricerca che fa da filo rosso a molta della produzione contemporanea, i livelli di realtà che stanno in rapporto dialettico (dentro/fuori) con la finzione.

La piéce si compone come un montaggio di sketch in cui le due attrici in scena improvvisano situazioni banali e giocherellone che vengono collegate senza soluzione di continuità nel tempo previsto e cronometrato dall’inizio dalla stessa Cuquí.

An experiment. A work based on the experience of the present. The void of the present as a space for opportunity and a spece for failure (Cuquí Jerez, foglio di sala).

Ed è lei che da un angolo fuori dalla scena – ma a ben vedere presente e protagonista alla maniera di Tadeusz Kantor – trascrive sul portatile, collegato al proiettore che permette di leggere sullo schermo, commenti sulla resa o meno delle “trovate”, per dirla con Barthes, delle due attrici oppure battute e pensieri che rivolge direttamente agli spettatori.

Nell’andamento dello spettacolo –  processo dinamico fatto di comportamenti recuperati e di spunti improvvisati – c’è la consapevolezza del funzionamento dell’intrattenimento come meccanismo drammaturgico che deve portare da qualche parte, ma senza essere narrativo, verso la conclusione di una “scenetta” da collegare a quella successiva finché il tempo a disposizione lo permette.

Il senso ultimo del Nowness Mystery sembra poi stare tutto in quelle note di regia e in quei flussi di pensiero condivisi in nome del processo comunicativo e ralazionale con gli spettatori. Nella creazione di un evento che, pensato e realizzato così, non può che essere unico e irripetibile, frutto della dinamica comunicativa e del dominio consensuale creato qui ed ora in quella realtà misteriosa e senza tempo del teatro e del suo immaginario.

Gruppo di amici in un Interiors. Testo analogico, ironia e questioni di soglia nello spettacolo di Mattew Lenton

Dando soddisfazione al piacere voyeristico di tutti noi la scena di Interiors – di Mattew Lenton, visto al Teatro Storchi di Modena il 13 maggio – si presenta come una normale sala da pranzo illuminata, allestita per una cena fra amici, vista da fuori. E fuori, dove stanno il pubblico e il personaggio narrante che fornisce indizi sul dialogo muto che seguiamo al di là della finestra-quarta parete, è buio pesto, è freddo, nevica e lo capiamo dalle proiezioni video su tutta la “cornice” della finestra. E lo spettacolo si gioca fondamentalmente nel dentro/fuori, ossia in quella dialettica che ripropone costantemente, anche nel teatro, la questione del guardare e dell’essere visti.

Si potrebbe quindi pensare agli spettacoli dello Squat Theatre e alle vetrine dei negozi usate come metafora della soglia fra interno ed esterno e fra le diverse possibilità spettatoriali ma si potrebbe pensare anche all’emergenza delle forme proto-televisive e dello sguardo moderno (mediato) che ci viene dalle letture mediologiche di Benjamin su Parigi (e quindi Baudelaire e quindi Poe e l’uomo della folla).

Qui la forza espressiva – e molto divertente in certi passaggi – è data dal non verbale e dal modo in cui i gesti sono calibrati mostrando, come se ce ne fosse bisogno, che la competenza comunicativa (umana) si gioca (anche) nella traduzione dal numerico all’analogico cioè sul piano delle relazioni fra i comunicanti e spesso nella non coincidenza fra ciò che si dice e ciò che si esprime.

Ispirato dal dramma Intérieur di Maurice Maeterlinck del 1895 e centrato sui temi del destino e della morte, così che anche questa opera dell’immaginario contribuisca al loro esorcismo, lo spettacolo è frutto della riscrittura da parte della compagnia Vanishing Point, e della drammaturga Pamela Carter che, come ci (a Sandra e a me) raccontava Damir Todorovic (uno degli attori e amico dai tempi di Motus), ha lavorato sulla ripulitura, sull’adattamento delle parole da non dire alle caratteristiche degli attori. E così l’efficacia dei gesti è data proprio dalla loro “naturalità” – senza naturalismo – che come sappiamo, a teatro, è molto spesso una conquista.

Un’ironia tutta anglosassone poi è quella che fa ballare una coppia a ritmo di Video Killed the Radio Star poco prima di lasciarsi, o che fa cantare in playback a Peter, il personaggio più anziano e padrone di casa, una canzone di Paul Young anche se poi scopriamo che sarà il primo di loro a morire da lì a qualche settimana… Insomma il presente e il destino incombente, l’ironia e il tragico. La vita che ci spetta.