A spasso con Cindy. Breve mappa personale della Biennale di Venezia 2011

Io e Cindy Sherman (foto di Marina dalla mia macchina)

“Dura la vita del visitatore di mostre”. È questa la frase tormentone che ho ripetuto alle mie amiche nella intensa “due giornate di Venezia” in visita alla Biennale e alla mostra Tra nel fantastico Palazzo Fortuny, un po’ per farle ridere, un po’ perché è vero.

Durissimo poi è tracciare un percorso scritto delle cose viste anche se si può far conto sui discorsi e le riflessioni condivise con gli altri (quesa volte le mie amiche) per sedimentare e orientare meglio le impressioni. Tante, alcune molte interessanti, qualcuna appuntata molte perse per pigrizia (fotografo tutte le targhette delle cose che mi piacciono, le trascrivo, guardo in rete? Il catalogo no che pesa troppo…). Per fortuna la rete supporta: vedi i link e soprattutto gli autori di articoli e post qui di seguito.

I lavori sullo spazio, e sul tempo, sulle memorie che, così ci è parso parlando fra noi, sono adesso molto più collettive che individuali, le identità, le risorse del pianeta, le metafore del tempo presente mi sembrano i temi e così questa specie di mappa può partire dalle radici di Dalya Yaari Luttwak all’esterno dell’Arsenale …What if Groots Could Grow in the Waters of Arsenale?…

Altre tappe: il parapadiglione di Song Dong che ricostruisce la casa della sua famiglia e ospita altri lavori interessanti nonché la sorpresa da tenere d’occhio Ryan Gander (sua anche la moneta da 25 euro ritrovata un po’ più in là, in altra parte della mostra).

Altre fermate: i piccioni di Cattelan (lavoro contestato e bla bla); l’immaginario del mostro o meglio del lago di Loch Ness di Gerard Byrne e lo strano fantasy-mito sudafricano dell’uccello vampiro di Nicholas Hlobo’s Iimpundulu Zonke Ziyandilandela. I classici e famosi che si vedono con piacere: Cindy Sherman (vedi immagine all’inizio), Pipilotti Rist (bellissime le vedute psichedeliche di Venezia), Luigi Ghirri (evidentemente residuale visto che non si trova niente di sensato da linkare), l’ambiente cosmico di Fischli e Weiss

Ritornare su: Elisabetta Benassi con The Innocents Abroad (opera composta da una serie di 9 lettori di microfiche che leggono il retro di centinaia di fotografie tratte da archivi di quotidiani e che ripercorrono la storia del Novecento: una riflessione sulla natura dell’informazione e sulla sua possibile manipolazione…); il progetto Estaman Radio Drama di Marinella Senatore, in definitiva l’esposizione di una performance e, più o meno in questa chiave, colgo anche il senso del film premiato The Clock di Christian Marclay. Veramente geniale oltre che divertente visto che riesce a conciliare il qui e ora (dello spettatore) con il tempo che passa.

Sbirciata al Padiglione Italia: salvo, fra quello che ho visto in velocità, Filippo Martinez.

Bella ma troppo facile la scelta francese con il solito Boltanski che allestisce Chance.

Non avendo bisogno di vedere la Biennale subito subito mi sono goduta davvero il Padiglione della Gran Bretagna con I, Impostor di Mike Nelson. Darei anche io la palma del Padiglione migliore non fosse altro per il modo in cui concepisce lo spazio espositivo (il site-specific e l’ambiente immersivo) e lo stravolge mettendo in contrasto il dentro (angusto) con il fuori (luminoso) attraverso un immaginario un po’ da horror inglese o da b-movie che fa stare il visitatore sempre così, diciamo, un po’ in attesa o forse in suspence…

Incontro inaspettato ma graditissimo con Fluxus e lo spazio performance della chiesa-cinema allestita nel Padiglione Germania di  Christoph Schlingensief.

Bello anche il Padiglione dell’Ungheria con Hajnal Németh Crash – Passive Interview La catastrofe e la sua narrazione.

Gli Stati Uniti con Gloria di Allora & Calzadilla sempre bravi a lavorare sulle metafore facili ma efficaci nel nostro tempo, per lo più scandito dal loro.

Non sarà forse un caso se nel Padiglione dell’America Latina i lavori presentati indaghino proprio sul rapporto con gli Stati Uniti basti pensare, uno per tutti, al video Episode 1: Tango with Obama di Martin Sastre (Uruguay).

In chiave metaforica va presa anche l’installazione Elevator from the subcontinent di Gigi Scaria nel Padiglione Indiano all’Arsenale che rappresenta il principio di casta così come si integra nel flusso metropolitano.

Non ho ancora deciso su Tabaimo: teleco soup, Padiglione Giappone. Interessante il concept (il sovvertimento acqua-cielo, fluido e recipiente, il sé e il mondo e la “sindrome Galapagos” che riguarda l’incompatibilità tra l’immaginario tecnologico giapponese, i mercati internazionali e altri aspetti della società giapponese) e la resa dell’ambientazione (spazio buio e immagini video). Forse, semplicemente, non mi piacciono i disegni.

Non mi è dispiaciuto invece il passaggio alla Naviland allestita nella Paradiso Gallery, già che era lì che ci si stava rifocillando, al Padiglione Thailandia. Un immaginario pop turistico che mi ha ricordato certe esperienze in Second Life.

Pensandoci un po’ anche la pittura hippy-espressionista di Steven Shearer al Padiglione Canada ha il suo perché.

Non ha deluso le mie aspettative il Padiglione Korea con Lee Yonbaek sul quale ero un po’ più preparata. Anche qui c’è quel po’ di pop che per me ci sta, soprattutto oggi con le nostre sensibilità estetiche e tecnologiche dove queste ultime, per il resto, mi sono sembrate un po’ sotto traccia.