La danza come “aiutante”. DAS VERGESSEN | Catia Gatelli e Paola Bianchi in residenza all’Atelier Sì di Bologna #primi appunti

DAS VERGESSEN è una nuova propaggine del progetto ELP di Paola Bianchi incentrato sul rapporto tra l’immagine e il concetto “problema” della trasmissione, ovvero della trasmissione della coreografia attraverso la parola parlata come sottrazione politica della forma imitativa del corpo del “maestro”.

Questa fase del progetto prende vita però dall’incontro sollecitato da Catia Gatelli, già fondatrice di Masque Teatro ma da molti anni basata a Berlino dove porta avanti la sua ricerca teatrale come thauma, nome che ha scelto per indicare l’apertura alla collaborazione e al confronto con altre identità artistiche.

Sollecitata dalle figure degli “aiutanti” indicate da Giorgio Agamben in Profanazioni, Catia Gatelli ha pensato di poter rinvenire nella danza – e proprio adesso, nella fase matura della sua vicenda artistica – un aiutante appunto, un qualcosa che non essendo parte della sua pratica espressiva e di ricerca si può presentare oggi come quel «perduto» che non vuole essere «ricordato o esaudito» ma che vuole piuttosto «restare in noi in quanto dimenticato, in quanto perduto e, unicamente per questo, indimenticabile». Proprio perché gli aiutanti non aiutano nel senso stretto del termine, la danza diventa per Gatelli un ingresso in una possibilità da sondare.

Consegnarsi a ELP significa allora affrontare un labirinto (immagine scelta come guida del progetto) inteso come sfida reale – oltre alla metafora e alla mitologia –, delimitazione dello spazio, pianta, luogo iconograficamente definito ma anche luogo franco della relazione comunicativa tra le due artiste che ad oggi stanno “imparando a capirsi”, a condividere un linguaggio.

Il lavoro è partito, come sempre per ELP, dalla consegna dell’archivio di posture elaborate da Paola nel corso delle fasi precedenti – da Energheia, a O_N e NoPolis – su cui, insieme a Catia, hanno già lavorato in una prima residenza.

DAS VERGESSEN è l’indagine che si costruisce su territori che non si appartengono del tutto e che consiste nel tradurre le “modalità” del corpo negli “stati” del corpo che attraverseranno il labirinto. Ma questo è un aspetto che approfondiremo.

Opera to the people. COMMUNE di Maria-Magdalena-Kozłowska #flashdasantarcangelo22

©Anna-van-Kooij

COMMUNE – dell’autrice, regista e performer polacca Maria Magdalena Kozłowska in programma al Santarcangelo Festival – è un’opera-buffa che gioca ironicamente e seriamente con gli stilemi dell’opera lirica e della protesta politica, richiamandosi allo sciopero delle donne in Polonia, ai collettivi femministi, all’idro-femminismo. In questa combinazione si spiega un lavoro che usa la musica e il canto per creare quell’ambiente prelinguistico che attraverso il sonoro può tenere insieme una collettività, anche temporanea.

In questo senso COMMUNE richiama l’idea del mettere insieme le persone e il loro interrogarsi sul senso politico dell’arte. Un quesito non di certo nuovo ma che qui viene indagato attraverso un formato interessante e divertente. La COMMUNE in scena è, infatti, quella formata dalle 4 performer – Maria Magdalena Kozłowska insieme alle flautiste Teresa Costa e Beatrice Miniaci e la percussionista Aleksandra Wtorek – che aspettano l’arrivo del pubblico in sala stravaccate sulla prima fila della platea, con i volti coperti da passamontagna colorati in evidente richiamo alle Pussy Riot e che, una volta salite sul palco, danno il via a una interlocuzione narrativa con il pubblico – parlata, musicata e danzata – che racconta di ragazze ribelli fin da piccole alle quali una mitica nonna comunista – interpretata dal cantante soprano Maayan Licht – impartirà vere e proprie lezioni di protesta. La nonna mostrerà come incanalare la rabbia attraverso l’opera, unendo il virtuosismo canoro e musicale al testo che parla spudoratamente di corpo, fluidi e odori.

Come spiega Kozłowska nella bella intervista di Guendalina Piselli:

«Abbiamo sperimentato modi per espandere la performatività dello strumentista. Invece della tradizionale immobilità, abbiamo aggiunto molto movimento, il che non significa rinunciare al virtuosismo. Al contrario, in questo modo la passione per la musica diventa più incarnata. Cerchiamo un’opera positiva per il corpo, emancipatrice. Qui le donne non soffrono: celebrano i loro fluidi corporei indisciplinati e danno voce ai loro sentimenti complessi».

Lo scenario del Teatro Galli, forse la prima occasione per portare un lavoro come questo su un palco d’opera tradizionale e ripensarne l’estetica, restituisce una scena nera, arredata con le sculture d’acqua di Jan Tomza, che insieme ai costumi, rimandano all’immaginario oscuro post-punk creando un effetto visivo potente proprio perché riesce a far stare insieme questi diversi cliché visuali.

Un lavoro come questo allora ha una forza politica che non deve essere rintracciata nei caratteri novecenteschi, anche se vi rimanda, ma nelle logiche e nelle forme di una generazione più giovane che attinge da fonti diverse – non ultimi i social media – pratiche, discorsi e contenuti ricombinandoli, in questo caso giocosamente, in una rinnovata forza sovversiva sincronizzata con lo spirito del tempo.

ASSIMILIA. Dal dispositivo ELP di Paola Bianchi una nuova fase di indagine per corpi nel presente

Ph Margherita Masè – Teatri di Vetro 2021

ASSIMILIA è l’ultimo lavoro del complesso progetto ELP al quale Paola Bianchi lavora dal 2018 e che porta avanti le istanze di quella ricerca coreografica incentrata sul corpo politico, emergenza di pratica artistica e di vita espressa nella radicale scelta di indipendenza artistica e prassi creativa, di cui è possibile coglierne livelli e seguirne gli sviluppi nel volume Paola Bianchi, Corpo politico. Distopia del gesto, utopia del movimento a cura di S. Bottiroli e S. Parlagreco, Editoria&Spettacolo, Spoleto 2014 e nel blog paolabianchi.

Nel caso di ELP il movente di fondo può essere rintracciato già nello sviluppo del titolo visto che ELP è l’acronimo di Ethos Logos e Pathos e che, se non viene male interpretata la poetica di Bianchi, rimanda prima di tutto e sempre a una presa di posizione sull’essere artista come scelta umana, di relazione e politica. Un modo di essere che si pone sullo sfondo del rapporto tra individuo e società, relazione tra nuda vita, singolarità, pathos, forza emotiva – che si esprime nel corpo – e comunicazione, sociale, norma, ethos, logos, linguaggio.

I livelli dell’esperienza su cui si interroga Paola Bianchi sono da sempre quelli dei confini entro i quali la libertà del corpo si può esprimere – di cui la danza è sì veicolo privilegiato d’indagine ma che riguarda tutte e tutti come fatto biopolitico – e per questo il suo campo di riflessione comprende sia le dimensioni fisiche (lo spazio), sia quelle simboliche che riguardano prima di tutto le forme del potere.

Ma dire centralità del corpo – e corpo politico che, vale la pena ribadirlo, è parola chiave del progetto artistico di Paola Bianchi – significa anche porre un’attenzione problematica alla relazione del corpo con il linguaggio e con i linguaggi.

In linea con quel tipo di sensibilità che intorno agli anni Novanta ha consolidato il campo degli studi sulla cultura visuale e che ha prodotto una svolta decisiva nell’identificare i territori dell’immagine e degli immaginari come contesti significativi dell’esperienza, il progetto ELP lavora sul piano di un primo innesco – trigger –  drammaturgico sulla raccolta di immagini provenienti da un gruppo di persone invitate a condividere la propria “memoria retinica” (la sociologia visuale chiamerebbe questo processo di raccolta: native image making) così da costruire un repertorio iconografico e iconico condiviso, cioè basato su immagini appartenenti all’immaginario collettivo (in una prima fase occidentale ma successivamente esteso ad alcune persone con background migratorio che vivono in Italia).

Attraverso l’approfondimento dell’analisi – passato soprattutto ma non soltanto attraverso lo scavo analitico di Georges Didi-Huberman e degli studi su Bacon (altra “storica” fonte di indagine di Paola) di Gilles Deleuze – le immagini ricevute sono state elaborate o meglio tradotte nelle posture/figure su cui sono composte le partiture coreografiche.

Non, dunque, rappresentazione didascalica e riconoscibile delle icone del nostro tempo – che restano deposito simbolico non verbalizzabile benché comunicabile – ma piuttosto segni, frammenti posturali, movimenti del corpo, figure appunto che diventano per Paola un pretesto per una sfida politica potente all’autorialità coreografica intesa come processo di trasmissione per imitazione. Cerchiamo di capire come.

A partire dal primo solo ENERGHEIA, costruito attraverso le figure emergenti dall’immaginario occidentale, e successivamente dal solo O_N – elaborato a sua volta dalla traduzione delle immagini non occidentali – passando attraverso i laboratori ESTI, con non professionisti, Paola Bianchi ha messo a punto il processo di trasmissione coreografica basato sulla creazione di archivi di posture descritte verbalmente, registrate e consegnate in file audio a danzatrici e danzatori da cui sono nati lo spettacolo collettivo EKPHRASIS e il solo con Barbara Carulli Other OtherNess. Si tratta di due lavori particolarmente potenti, frutto del lavoro e della relazione fra il processo di incarnazione della parola descrittiva (la coreografia) da parte delle/dei performer e il lavoro in sala con la coreografa, fra enazione, cioè della produzione autonoma del proprio movimento, e co-enazione, cioè dello scambio, confronto relazione durante le prove.

Tutto questo per dire che sia nei laboratori, sia nella realizzazione degli spettacoli – così come nelle altre fasi del progetto, anche in quelle ancora in lavorazione su cui si avrà modo di tornare – la trasmissione riguarda il segnale-parola che diventa informazione solo nel momento in cui viene incarnato da chi lo esegue. Su questa base, quello che va tenuto bene presente, è che il principio creativo, l’idea coreografica, il progetto artistico dell’autrice che l’ha costruito non è espunto. Paola Bianchi non si sottrae dalla sua creazione coreografica. Il processo è più radicale: la parola coreografica che si va a incarnare diventa di chi la esegue il che vuol dire rinunciare all’imitazione del corpo del maestro, vuol dire rinunciare alla logica della trasmissione del sapere come principio gerarchico, spesso confuso con la complementarità che invece va mantenuta. Non dunque negazione dell’autorialità, delle distinzioni interne, delle complementarità, delle differenze ma della gerarchia del potere.

Il lavoro sulla parola, la traduzione dell’immagine in parola, è poi particolarmente interessante perché rimanda al dibattito che anima ancora la legittimità scientifica delle immagini e il paradosso iconoclastico dell’Occidente, e probabilmente non solo. Tanto che sono molti e diversi gli immaginari che un lavoro come ELP intercetta, come si diceva, trovando spazio anche nelle immagini che hanno portato alla fase intitolata CORPI DELLA PROTESTA e alla realizzazione della durational performance NoPolis.

Ph Margherita Masè – Teatri di Vetro 2021

Ed è nel contesto di ricerca che origina e procede nella connessione fra corpo, potere e linguaggio per indagare un proprio modo di «stare e agire nel mondo» indistinto da un proprio «essere nella scena» che si è innestata la pandemia – con il suo portato di criticità – per “costringere” verso un ulteriore livello di indagine la poetica del corpo da cui nasce il nuovo solo ASSIMILIA.

Concentrato nel presente ASSIMILIA lavora sul senso di quelle cose simili che ci tengono insieme fra libertà e costrizione. Un corpo che non è più libero di muoversi nello spazio [e mentre noi lo sperimentiamo per questioni legate alla salute pubblica politicamente gestite maldestramente, intorno a noi le tragedie dei corpi si consumano senza che si levino grandi proteste per la libertà mi pare] – in ASSIMILIA è di nuovo quello di Paola Bianchi che esegue gli archivi di posture ottenuti attraverso la registrazione della descrizione delle immagini ascoltandole ogni volta dagli auricolari indossati in scena e che sente solo lei mentre si muove dentro uno spazio-scatola-laboratorio costruito dalle luci di Paolo Pollo Rodighiero e dallo straniante ambiente sonoro di Stefano Murgia costretta da una gonna lunga e pesante.

Ph Margherita Masè – Teatri di Vetro 2021

L’impalcatura visiva che compone la drammaturgia della messa in scena è un aspetto saliente del lavoro di Bianchi che cura personalmente il design e la realizzazione del costume di scena. Il pesante tessuto della gonna lunga, che la trattiene e rende più faticosi i movimenti, diventa parte della coreografia, dimensione iconografica, drappeggio statuario, ostacolo sempre superato da una gamba, da un piede, fino a quando viene sollevata e agganciata in vita per lasciare finalmente scorrere meglio il movimento.

Ph Margherita Masè – Teatri di Vetro 2021

Su un impianto coreografico mirabile – dove l’esperienza di danzatrice di Paola Bianchi e la consapevolezza del suo gesto raggiungono picchi elevatissimi – ASSIMILIA aggiunge un ulteriore tassello alla dimensione drammaturgica di ELP e alla messa a punto del dispositivo di ricerca sulla trasmissione. Infatti, se dal lato più riflessivo, il lavoro ci parla del processo dell’etero-direzione, che per le teorie dell’informazione è anche la strategia più efficace della trasmissione, lo spettacolo ci dice anche qualcos’altro.

Attraverso l’auto-esposizione alla parola descrittiva della coreografia l’attenzione si sposta verso la consapevolezza dell’etero-direzione ma anche, e dal punto di vista del meccanismo creativo, al processo di auto-etero-direzione che è la condizione paradossale e particolarmente interessante che scopriamo quando verso la fine sentiamo la voce di Paola che le indica i movimenti da eseguire.

Il disvelamento del dispositivo diventa così un ulteriore elemento con cui Paola Bianchi mantiene il patto spettatoriale, ovvero la proposta di una relazione con il pubblico che non è mai scontata, didascalica e che non accetta la finzione come formula narrativa.

Nel mondo “psichedelico” di Lewis Carroll: Sylvie e Bruno di Fanny & Alexander

di Francesca Giuliani

Ph Zani-Casadio

Si entra all’Almagià di Ravenna e si è avvolti da una nebbia misteriosa: in Sylvie e Bruno di Fanny & Alexander palcoscenico e platea condividono lo stesso universo favoloso. In scena si muovono su un rettangolo bianco, entrando e uscendo da esso, Andrea ArgentieriMarco CavalcoliChiara Lagani, Roberto MagnaniElisa Pol, guidati dalla regia di Luigi De Angelis, immersi nel paesaggio sonoro ideato da Emanuele Wiltsch Barberio. La narrazione si stratifica su due livelli paralleli, uno realistico e uno onirico; entrambi non si incontrano mai se non per collisione di alcune parole che fanno switchare da una storia all’altra o per intrusione dei due bambini nei sogni del narratore che più spesso si addormenta. La struttura narrativa mescola la fiaba – personaggi che si trasformano in animali, il bosco e le fate, il destino che serpeggia – al romanzo vittoriano dove lo sviluppo del dramma era più spesso spezzato dai commenti del narratore: da una parte Sylvie e Bruno in un mondo fantastico; dall’altra Lady Muriel amata da un dottore e dal suo giovane amico ma fidanzata a un militare.

Ci sono due aspetti che colpiscono fin da subito in questa riscrittura scenica dell’omonimo testo di Lewis Carrol, recentemente tradotto da Chiara Lagani per Einaudi: il primo è lo spazio vuoto che amplifica il potere che ha il teatro di creare infiniti mondi attraverso il solo utilizzo sapiente dei suoi meccanismi drammaturgici di base: gli attori in primis, i suoni e le luci; il secondo è la scrittura, e quindi la letteratura, che orchestra parole che sanno scardinare le porte delle stanze del meraviglioso.

[La struttura su piani narrativi paralleli è possibile perché il teatro di F&A si porta dentro (rimedia) non solo il formato letterario ma quello cinematografico del montaggio e degli scarti temporali].

Ph Zani-Casadio

Questa è anche la forza del teatro di Fanny & Alexander che apre squarci profondi nei testi letterari che prende a cuore e, portandoli in scena, ricarica di nuova linfa vitale i temi e i personaggi connettendoli al presente, facendoli risuonare con l’oggi: così è stato per Storia di un’amicizia (2017-‘19), tratto dalla tetralogia di Elena Ferrante, L’amica Geniale, così è stato con l’ampio progetto Il Mago di Oz (2007-‘09) ispirato al romanzo di L. Frank Baum, solo per citarne due.

Con Sylvie e Bruno c’è ancora qualcosa in più: quest’opera sta su un margine poroso che fa sì che molti dei lavori della compagnia dialoghino fra loro, giungendo fin anche all’origine della compagnia stessa, come già era stato fatto in una loro prima regia lirica, quella de Il Flauto Magico: lì come qui due bambini giocano a creare mondi immaginari e lo fanno sapendo di essere guardati. E questo è chiaro fin da subito: gli attori si siedono su degli sgabelli bianchi – unici oggetti di scena – in fila davanti alla platea e si rivolgono direttamente allo spettatore; spesso si fermeranno a guardarci e più spesso romperanno il quadro della rappresentazione descrivendo e commentandosi addosso le azioni. E così facendo ci conducono dentro l’origine stessa della parola teatro, quel luogo da cui si guarda e dal quale si è guardati; non a caso quelle due aperture che illuminano dal fondo la scena appaiono come due occhi che si aprono e si chiudono cambiando, attraverso il solo utilizzo del colore – tema questo già presente nel favoloso mondo di Oz – anche la percezione visiva ed emotiva di quanto si sta osservando.

Ph Zani-Casadio

Un saltello che dice l’atto del cadere nel pozzo di Alice per giungere al di là segna l’inizio del viaggio che si compie tra il reale e l’immaginario. E proprio come accade nei giochi dei bambini il corpo di ciascun attore attraversa più personaggi e si fa medium; così facendo ripercorrono lo stesso percorso interpretativo che fanno Lila/Fiorenza Menni ed Elena/Chiara Lagani a partire dallo spettacolo Da parte loro nessuna domanda imbarazzante: lì come qui l’eterodirezione e la ripetizione cumulativa di alcuni gesti fanno cadere nella vertigine del meraviglioso, lì dove i mondi si sovrappongono, realtà e fantasia convivono, e i personaggi di generi letterari differenti si incontrano. E in Sylvie e Bruno Ubu incontra Lady Macbeth, Sylvie e Bruno il Bianconiglio, e così via fino a collassare nel mondo di oggi dove nascosti tra il dire dei personaggi appare a un tratto anche Mario Draghi.

Se, come ci dicono i neuro scienziati, quella Rem è la fase più psichedelica del sogno, lì dove i mondi collidono, la fantasia e la realtà si sovrappongono e i colori esplodono, è proprio in questo anfratto del sonno che ci conducono gli attori sovrapponendo i molteplici piani del racconto scenico: il qui e ora del loro essere in scena, la narrazione che conduce al racconto, i mondi che si sovrappongono per farci infine tornare alla realtà: da una parte il Mondo del Fuori, un popolo in rivolta che cade sotto una dittatura, riecheggiando il recente assalto a Capitol Hill, dall’altra un mondo da romanzo ottocentesco che viene colpito dal diffondersi di una febbre mortale. I cortocircuiti tra le opere e i personaggi, la realtà del racconto e la fantasia si incastrano in determinate parole o brandelli di frasi che si sovrappongono invertendo l’ordine del racconto come se ci fosse qualcuno che gioca ad accendere e spegnere un interruttore, incastrando sempre di più lo spettatore nel vortice concentrico della scena. Per poi lasciarlo lì, a un passo dal vuoto, a scandagliare la matassa.

Nei rimossi dalla Storia: Negri senza memoria di Alessandro Berti

di Francesca Giuliani

Ph Daniela Neri

C’è, ormai da qualche anno, una tendenza nelle arti performative a provare a smontare i racconti che il passato ci ha tramandato demistificando alcune parole, decolonizzando alcune narrazioni e rintracciando, nelle traiettorie storiche, l’origine del perpetrarsi dell’errore interpretativo o l’operazione di una vera e propria cancellazione. È così che operano ad esempio il duo Frosini/Timpano che, per citare solo uno dei loro lavori, in Acqua di Colonia (2018) riportano in superficie un rimosso storico che ha profondamente segnato, anche se in pochi anni, lo “spirito nazionale”, ovvero il colonialismo italiano in Africa. Un simile tentativo di aprire ulteriormente il dibattito intorno alle molteplici forme di razzismo, al fine di identificarne le radici e le cause generate dai punti ciechi della storia, affiora non solo in ambito teatrale, ma anche nei paesaggi della danza contemporanea; in questo caso, per fare solo uno degli esempi, il gruppo Chiasma diretto da Sandro Lombardo con Opacity project (2018-2020) sviluppa una ricerca coreografica intorno alle eredità coloniali e agli immaginari post-coloniali dell’Occidente. 

Alla base di queste nuove prospettive sceniche e drammaturgiche c’è una lunga ricerca bibliografica sui temi, un’indagine che tocca il cinema e la letteratura, la musica e la storia, la moda e l’arte per cercare nelle pieghe della società e della cultura occidentali le origini di una ferita che non si è ancora rimarginata. In questa frattura affonda lo sguardo anche Alessandro Berti/casavuota, attore, drammaturgo e regista, che ha presentato in doppia serata, ospite della stagione di Ravenna Teatri, i primi due capitoli di una trilogia dal titolo già esemplificativo Bugie Bianche. L’ultimo appuntamento al Teatro Socjale di Piangipane ha visto Negri senza memoria, il secondo capitolo, seguito da un incontro con l’artista curato dal critico e studioso Andrea Pogosgnich.

Come si può far riaffiorare il rimosso della storia? Da questa domanda si sviluppa la ricerca di Berti che racconta di come l’innesco sia stato attivato da una precisa riflessione su un fatto reale: la narrazione che è stata fatta dai media attorno alle violenze perpetrate da un gruppo di ragazzi di origini africane contro una giovane coppia polacca nell’estate del 2017 a Rimini. Se il primo capitolo, Black Dick, ripercorre la storia dell’uso del corpo del nero da parte della società bianca occidentale, in questo secondo capitolo la narrazione affonda lo sguardo nell’esperienza dell’immigrazione italiana in America nel primo Novecento per andare a vedere dove e quando si è originato il gap, la linea di demarcazione tra bianchi e neri. All’inizio i neri e i bianchi italiani erano uguali in tutto tranne che per la questione tempo: i neri erano schiavi da secoli mentre gli italiani erano appena giunti nelle terre della democrazia. Ed è la frase detta in radio dal rapper nero newyorkese Chuck Nice, che scatenò molte polemiche fra gli italo-americani, «Italians are niggaz with short memory» (gli italiani sono come i neri ma con la memoria corta) che, oltre a ispirare il titolo dello spettacolo, dà il via alla narrazione.

Ph Daniela Neri

Ad accoglierci un testo stampato, appoggiato su ciascuna sedia, con fronte e retro differenti solo per il tipo di cancellazione attuato: è The House I live un brano di Archi Shepp, famoso jazzista afroamericano attivo anche politicamente, che fu rivisitato e reso mainstream da Sinatra ma dopo un attento taglio che ne ha modificato nettamente il senso. Di queste cancellazioni, falsi miti, e mistificazioni ci parlerà Berti mescolando senza soluzione di continuità il teatro di narrazione al teatro-canzone, la stand-up comedy al reading letterario; la drammaturgia si costruisce attraverso brandelli di canzoni, citazioni di film e testi letterari facendo riaffiorare storie di linciaggi e di soprusi, di iniziali alleanze e di muri di demarcazione che quasi subito gli italiani innalzano contro i neri per distinguersi da loro, in un momento in cui quel confine è ancora incerto e la paura di entrare a far parte della zona “sbagliata” è forte. Lo spazio è minimale, come anche le azioni. Berti è in scena con una chitarra e sta quasi sempre in proscenio; alle spalle un tavolo con dell’acqua illuminato dall’alto. Solo per una volta vi si avvicinerà, fermandosi un istante, per poi tornare in proscenio a farsi travolgere dal turbinio del dire. Con la chitarra tra le braccia racconta attraverso le canzoni come anch’esse abbiamo influito nel portare avanti una storia alternativa, quella costruita dai bianchi che è poi diventata la sola ad essere tramandata; i canti popolari si mischiano ai brani jazz più famosi e l’inglese dei testi utilizzati all’italiano per essere tradotti direttamente in scena.

La visione di questa storia, distante da noi solo nel tempo e nello spazio, è necessaria per prendere le distanze dalla nostra, e dal presente, e per guardarla attraverso le storie di altri, più lontane ma che sono le stesse. Per gettare nuova luce su chi siamo e da dove veniamo non resta che «studiare», come dice Berti, citando durante l’incontro post-spettacolo le parole dello scrittore afro-americano James Baldwin, «studiare per non fare come loro» e per riuscire a oltrepassare quella linea del colore ancora netta, abbattendo i muri artificiali che si sono innalzati tra i differenti popoli che abitano il paese americano, e che oggi sembrano diffondersi e resistere più fortemente anche nel resto dell’Occidente.

Das Weinen (Das Wähnen) di Christoph Marthaler. Un dispositivo naturalista senza rappresentazione che rivela la metafora del nostro presente

Ph Gina Folly

Das Weinen (Das Wähnen) [Il Pianto (Il Pensiero)] è lo spettacolo del regista svizzero Christoph Marthaler, presentato in prima italiana al Teatro Arena del Sole di Bologna.

Il lavoro si basa sulla messa in scena dei testi contenuti nel libro Das Weinen. Das Wähnen (Tränenmeer 4) (Weeping. Imagining Sea of tears 4) regalato a Marthaler dal suo autore, l’artista visivo, poeta e scrittore Dieter Roth, alla fine degli anni Ottanta.

Das Weinen (Das Wähnen) è il risultato di un match interessantissimo fra due figure simili sul piano della concezione artistica. Se infatti Dieter Roth è conosciuto come uno sperimentatore interessato alla processualità creativa e allo sviluppo dei formati seriali (fra le altre cose, ad esempio, è stato in contatto con realtà artistiche delle neo-avanguardie come Fluxus), all’uso di nuove tecniche e materiali (sia nel senso della materialità del quotidiano come pasta, muffe, cioccolata, sia nel senso della ricerca sull’uso dei materiali tecno-visivi come proiettori, monitor, videocassette), alla creazione di libri d’artista intesi come libri-oggetto, poesie intrecciate con i disegni verso nuovi formati narrativi e pittorici, Christoph Marthaler è compositore e regista conosciuto per un teatro musicale e documentario senza testo, per la creazione di spettacoli iconoclastici, sarcastici, che disvelano i luoghi comuni e gli aspetti risibili dell’universo piccolo-borghese (basti pensare, ad esempio, a Groundings spettacolo di denuncia politica del 2003 dedicato alla Svizzera contemporanea).  

Ph Gina Folly

Con Das Weinen (Das Wähnen) Marthaler lavora dunque sull’opera scritta di Roth, che si basa su creazioni linguistiche – prevalentemente in tedesco ma anche in inglese, francese e italiano – senza significato. Partiture sonore, a volte ripetute e intercalate con momenti musicali, cantati, ritmati dagli oggetti e dai movimenti delle bravissime performer e dal performer in scena e dagli oggetti-recitanti (come il dispenser dell’acqua) che sono fra le trovate più divertenti dello spettacolo.

L’azione si svolge in una farmacia in cui succedono cose che non vanno interpretate ma accolte nella forma che Marthaler costruisce con le parole, le assonanze linguistiche e le sonorità delle lingue parlate e cantate in scena. Ed è proprio in un dispositivo che crea il cortocircuito tra la scenografia naturalista, della farmacia con i suoi scaffali, banconi, cassetti e medicinali, e l’assoluta anti-rappresentabilità del testo che va vista la potenza – anche intrattenete – di questo lavoro.

Ph Gina Folly

Nella scena finale l’attore in tunica bianca trasporta a fatica la croce al neon che è sì l’insegna della farmacia ma è anche un richiamo alla via crucis. Un’ultima puntata ironica che però fa venire un dubbio, porta a fare un collegamento fra la lettura di un bugiardino sconclusionato e contraddittorio su cui abbiamo riso poco prima e le medicine scalzate fuori dagli scaffali dalle “farmaciste” in una delle scene conclusive. Che sia una metafora di questi nostri tempi insensati, dove la malattia e la cura, i farmaci e la fiducia o meno che vi riponiamo sono una parte ormai onnipresente della nostra quotidiana via crucis?

Nelle ferite della contemporaneità. Lingua Madre di Lola Arias

di Francesca Giuliani

ph Stefano Triggiani

La prima volta che vidi un lavoro di Lola Arias fu durante l’ultimo periodo di lockdown del 2021 all’interno del cartellone online del teatro Maxim Gorki di Berlino: Furtureland è il titolo della pièce, una docu-science fiction che prende a modello di costruzione drammaturgica il gaming per raccontare, attraverso alcuni adolescenti migranti in Europa, di come questa e i paesi che la costituiscono, nel caso particolare la Germania, “giochino” con le vite di chi è costretto ad abbandonare il suo paese. In questo caso il titolo è emblematico perché se fa presupporre che quello del quale gli adolescenti in scena racconteranno è il paese che accoglierà il loro futuro, man a mano che si entra nella narrazione si comprende bene come la storia sia un’altra perché le leggi della nazione ospitante costringono quei ragazzi non tanto a immaginare un futuro alternativo quanto piuttosto a negarselo. La regolamentazione tedesca, infatti, prevede che tutti i minorenni extracomunitari non accompagnati siano in stato di protezione statale fino al raggiungimento della maggior età, poi non resta che fingere un’altra età o superare delle prove da novelli eroi del game contemporaneo per avere garantita la possibilità di restare.

ph Stefano Triggiani

Anche Lingua Madre, il titolo dell’ultimo lavoro della regista argentina, ideato nell’ambito di Atlas of Transitions – progetto curato da Piersandra Di Matteo che è anche dramaturg dello spettacolo – e presentato all’Arena del Sole di Bologna in occasione della rassegna Matria. Immaginari della maternità contemporanea, mette in campo una simile sfumatura interpretativa. Ad una prima lettura, una spettatrice o uno spettatore, conoscendo la tematica del lavoro legata appunto all’indagare il tema della maternità oggi, fa sicuramente riferimento al fatto che la lingua della madre, la stessa voce e le sue vibrazioni, siano parte fondante nella costruzione identitaria della persona futura. Ma nella logica dello spettacolo quella lingua madre che è la voce che ti viene data è traslata nel dar voce a quelle storie che non vengono raccontate quando si parla di maternità. I protagonisti di questo spettacolo portano in scena il racconto di una maternità svincolata dalla dimensione biologica, una storia fatta sì di natura ma anche di cultura, di artificialità e tecnica scientifica e attraverso le loro esperienze parlano da una parte delle pratiche che contribuiscono a scardinare quell’immaginario piuttosto semplificato e semplificativo che sta attorno all’idea di madre, dall’altra di politiche che non sono pronte a gestire quel cambiamento che è già in atto da tempo – tra l’altro, mentre scrivo il Ddl Zan non passa in Senato. Questa enciclopedia sulla riproduzione del XXI secolo si scrive in scena con le esperienze reali vissute da otto degli undici cittadini bolognesi che hanno partecipato alla costruzione del progetto insieme a Lola Arias e ad antropologi e doule, psicologi e medici che si sono occupati di fecondazione assistita. Come succede sempre nel teatro della regista argentina la logica della microstoria serve a mettere in discussione la Storia, cercando nelle vite singole e singolari gli elementi di continuità e mutamento nascosti dietro i modelli sociali tradizionali.

ph Stefano Triggiani

In scena ci sono una madre che ha fatto ricorso alla fecondazione assistita, una coppia lesbica che ha avuto un figlio grazie al supporto di un amico, una ragazza cattolica che è diventata ragazza madre dopo il primo rapporto sessuale, una donna migrante che ha avuto un figlio solo per tentare di fare accettare l’ingresso del marito in Italia e nel nuovo paese ha trovato anche un altro figlio, una coppia gay che ha deciso di affittare un utero dove la legge lo permette e tutela queste pratiche, un uomo che ha partorito due figli prima di iniziare la transizione da femmina a maschio, una donna che ha partecipato alle lotte a favore dell’aborto e una donna che non sente il desiderio di avere figli. Tutte queste storie non vengono messe in scena come stereotipi di una tipologia di genitorialità ma piuttosto le biografie si stratificano attraverso una tessitura complessa e poetica di documenti e parole, immagini e filmati, musiche e coreografie. Siamo così davanti a una sorta di teatrino anatomico dove ad essere indagato non è tanto un corpo, anche se poi di corpi si tratta, ma una precisa idea che si sviluppa drammaturgicamente attraverso vari capitoli quali ad esempio la famiglia, l’aborto, il sesso. La struttura a due piani che occupa il palco richiama l’immaginario delle Wunderkammer cinquecentesche dove la naturalità di alcuni reperti si unisce senza soluzione di continuità all’artificialità degli strumenti medici e di altri suppellettili. Passando dalla Biblioteca dell’Archiginnasio, che al suo interno ospita anche un teatro anatomico, al Museo di Palazzo Poggi, che si sovrappongono nelle immagini proiettate sugli schermi in alto, il palcoscenico si fa piazza, luogo di comizio e di convivio, si fa discoteca per un primo incontro e sala parto per far spazio a una narrazione che riflettete sulla possibile esistenza di altre maternità e su come rendere visibile il desiderio di tutt* di essere madri e di non esserlo.

ph Stefano Triggiani

Si potrebbe ora andare al tema del teatro partecipato, parlare del teatro del reale, che sono alcuni dei filoni artistici all’interno dei quali si inserisce questo lavoro, ma quello che forse è necessario sottolineare è come non venga semplicemente portato in scena un non-attore come documento vivente della sua storia, ma come quella ricerca, che si è strutturata in un lungo processo di condivisione drammaturgica e scenica, sia stata inevitabilmente “trasformativa” per ognuno dei partecipanti che, con una presenza da attori, portano in scena il loro corpo, la loro storia e lo fanno anche grazie alle storie degli altri che li attraversano.

Alla fine, lo sguardo si apre su una dimensione cyber-scientifica di corpi mutati e mutanti mentre in sottofondo si canta lo Stabat Mater, e in questo, che è un inno, sembrano risuonare le parole di Donna Haraway (2019) «né madre né curatrice, né schiava né matrice, la natura non è risorsa o mezzo per la riproduzione dell’uomo. La natura è, strettamente, un luogo comune».

Flash da #Santarcangelo Festival 2050 (4): Sovrimpressioni di Deflorian/Tagliarini

Ph Claudia Borgia, Lisa Capasso

Abbiamo visto Sovrimpressioni nella bellissima Sala Pamphili del Teatro degli Atti di Rimini, potendo godere di un allestimento “per il lungo” dove su un lungo tavolo rettangolare, diviso da uno specchio, Deflorian e Tagliarini stanno seduti uno di fronte all’altra a capotavola mentre vengono truccati, come se dovessero andare sul set televisivo a fare Ginger e Fred allo stesso modo di Pippo e Amelia nel film di Fellini cui il lavoro è liberamente ispirato.

Ph Claudia Borgia, Lisa Capasso

I due non si toccano mai e non ballano insieme. La loro danza, semmai, si costruisce nella ricorsività del linguaggio, nello scambio conversazionale in cui – nell’indagine sempre più profonda sul rapporto di biografia e finzione della compagnia – Deflorian e Tagliarini raccontano e riflettono su di sé, sugli altri, sui comportamenti propri e altrui, sullo sfondo storico che le motiva o che comunque le spiega, sul tempo che passa e forse su quella tendenza a essere sempre un po’ autoreferenziali quando parliamo di noi.

Ph Claudia Borgia, Lisa Capasso

Il film è evocato così: nel vestito di scena che Daria non indosserà, nei capelli di Antonio che vengono colorati di grigio ricordando Mastroianni che per fare Pippo se li era fatti diradare, negli aneddoti raccontati con apparente leggerezza e che smontano, ad esempio, le mitologie che il cinema ha costruito intorno ai suoi geni maschi. Come Fellini appunto, svelando quel plafond sessista che ha permeato la cultura e di cui sperimentiamo continuamente i residui. Tagliarini balla, ricordando la sua formazione, Deflorian – sull’altro estremo della sala – va a tempo con musica mentre richiama Greta Garbo intervistata al Plaza di New York e la sua scelta di lasciare il cinema nel pieno del suo mito. Perché mentre Pippo e Amelia, che il successo non l’hanno mai avuto, Greta Garbo ha imparato invece tutte le uscite di sicurezza degli hotel per salvaguardare un po’ della sua privacy. Ed è proprio grazie a questi due anziani artisti senza gloria che Deflorian e Tagliarini – che non gli assomigliano per niente – affrontano l’invecchiamento, che a me sembra il vero tema guida del lavoro, con quella levità sempre intelligente, l’ironia e la profondità spesso commuovente che sono le cifre poetiche più evidenti della compagnia.

Sovrimpressioni è parte di un progetto che comprenderà lo spettacolo Avremo ancora l’occasione di ballare insieme e il film-documentario realizzato con Jacopo Quadri Siamo qui per provare. Non vediamo l’ora di vederli.

Flash da #Santarcangelo Festival 2050 (3): Ultraficción nr. 1 / Fracciones de tiempo di El Conde de Torrefiel

Ph Claudia Borgia

Sul piano della dimensione produttiva Ultraficción nr.1 / Fracciones de tiempo di El Conde de Torrefiel può essere considerato come un esempio particolarmente efficace di quella modalità processuale che caratterizza la parte più interessante delle arti performative contemporanee.

L’ultraficción infatti è sì un appuntamento autonomo ma è allo stesso parte di un percorso drammaturgico in fieri, che porterà alla creazione di uno spettacolo nel 2022.

Il lavoro mette in moto un meccanismo intelligentissimo di spiazzamento del dispositivo teatrale e delle sue convenzioni che attraverso l’indagine letteraria e la dislocazione delle azioni indaga il raddoppiamento di realtà. Cioè la dinamica di realtà e finzione da cui origina il teatro e che qui arriva a postulare l’ultrafinzione, un livello ulteriore di finzione che interpella lo spettatore e la sua prospettiva di osservazione.

Ph Claudia Borgia

Sullo schermo scorre il testo che parla al pubblico e all’agire spettatoriale, racconta episodi apparentemente scollegati che portano a finali inaspettati e si aggancia a situazioni site-specific, reali, di adesso, che succedono durante il Festival, rendendole elementi narrativi finzionali. Intorno, nello spazio, si svolgono le azioni di quello che diventa un dispositivo aumentato, ambientale: le fronde degli alberi che si muovono, la macchina di un tecnico che va a recuperare la ragazza (vera o finta?) della storia, il piccolo gregge di pecore condotte dal pastore e dal suo cane che passano attraverso le sedute, in mezzo al pubblico e che resteranno affettuosamente nella memoria di chi c’era.

Così impostato questo lavoro fa tornare in mente i passaggi dell’interessantissima lecture di Daniel Blanga Gubbay dal titolo The pandemic, the rollercoaster, the grief and the sun sul processo drammaturgico come fenomeno emergente – né lineare, né rappresentazionista – e “more than human”.

Flash da #Santarcangelo Festival 2050 (2): Grand Bois di Bluemotion, Fanny & Alexander con Tempo Reale

Nel complesso della proposta del Festival di Santarcangelo 2050 Futuro Fantastico – che assume come principio guida la semantica dell’ibridazione mutante, la creazione di alleanze e parentele fra forme, corpi, idee – Grand Bois è la parte che tiene insieme e fa emergere il senso profondo di queste connessioni.

Grand Bois è un progetto musicale di Bluemotion e Fanny & Alexander in collaborazione con Tempo Reale, Centro di ricerca produzione e didattica musicale fondato nel 1987 da Luciano Berio. È anche un progetto installativo di Bluemotion e Fanny & Alexander in collaborazione con Santabago.

Grand Bois prende forma come composizione musicale poliritmica pensata come un ecosistema emergente dall’esperienza individuale e collettiva, rituale e spirituale, in accordo con la tradizione haitiana delle cerimonie voodoo cui esplicitamente si ispira.

Una performance itinerante che dalla Piazza Ganganelli, dove all’inizio si raccoglie il pubblico insieme alle musiciste e ai musicisti, si disloca per le terrazze e i tetti di Santarcangelo che diventano le postazioni delle e dei performer riconoscibili e ricercabili sulla mappa fornita ai partecipanti dagli art work di Simone Tso, uniti dall’alto dal canto-muezzin di Ashai Lombardo Arop.

Batteriste/i e percussioniste/i sono collegate/i fra loro mediante un sistema di auricolari in-ear così che dal quartier generale i battiti e le serie di ritmi prodotti dalla/dal singola/o musicista sono mandati alle varie postazioni per dar corpo alla creatura musicale complessa e dare modo al pubblico di concentrarsi sulla dimensione individuale o corale, costruendo il suo percorso di fruizione da solo o insieme agli altri.

Particolarmente affascinante il modo in cui Grand Bois lavora per contagio – un concetto che in diverse occasioni Luigi De Angelis ha elaborato durante la pandemia – fra la dimensione arcaica del rituale e l’eco della trance contemporanea che usa la tecnica come matrice di forme che attraversano i corpi e che ha trovato nel rave la sua espressione ideale. In Grand Bois c’è un melange di tutto questo. Mentre attraversiamo Santarcangelo e i suoi borghi (e conosciamo una Santarcangelo nuova, mai vista da chi non ci abita) sentiamo lo spirito delle discoteche più belle e dei ritmi che le hanno attraversate, lo stare insieme lasciandoci contemporaneamente andare a un’esperienza solo nostra.

[Dedicato al mio Nico, che ha sempre amato la batteria].