di Francesca Giuliani

Si entra all’Almagià di Ravenna e si è avvolti da una nebbia misteriosa: in Sylvie e Bruno di Fanny & Alexander palcoscenico e platea condividono lo stesso universo favoloso. In scena si muovono su un rettangolo bianco, entrando e uscendo da esso, Andrea Argentieri, Marco Cavalcoli, Chiara Lagani, Roberto Magnani, Elisa Pol, guidati dalla regia di Luigi De Angelis, immersi nel paesaggio sonoro ideato da Emanuele Wiltsch Barberio. La narrazione si stratifica su due livelli paralleli, uno realistico e uno onirico; entrambi non si incontrano mai se non per collisione di alcune parole che fanno switchare da una storia all’altra o per intrusione dei due bambini nei sogni del narratore che più spesso si addormenta. La struttura narrativa mescola la fiaba – personaggi che si trasformano in animali, il bosco e le fate, il destino che serpeggia – al romanzo vittoriano dove lo sviluppo del dramma era più spesso spezzato dai commenti del narratore: da una parte Sylvie e Bruno in un mondo fantastico; dall’altra Lady Muriel amata da un dottore e dal suo giovane amico ma fidanzata a un militare.
Ci sono due aspetti che colpiscono fin da subito in questa riscrittura scenica dell’omonimo testo di Lewis Carrol, recentemente tradotto da Chiara Lagani per Einaudi: il primo è lo spazio vuoto che amplifica il potere che ha il teatro di creare infiniti mondi attraverso il solo utilizzo sapiente dei suoi meccanismi drammaturgici di base: gli attori in primis, i suoni e le luci; il secondo è la scrittura, e quindi la letteratura, che orchestra parole che sanno scardinare le porte delle stanze del meraviglioso.
[La struttura su piani narrativi paralleli è possibile perché il teatro di F&A si porta dentro (rimedia) non solo il formato letterario ma quello cinematografico del montaggio e degli scarti temporali].

Questa è anche la forza del teatro di Fanny & Alexander che apre squarci profondi nei testi letterari che prende a cuore e, portandoli in scena, ricarica di nuova linfa vitale i temi e i personaggi connettendoli al presente, facendoli risuonare con l’oggi: così è stato per Storia di un’amicizia (2017-‘19), tratto dalla tetralogia di Elena Ferrante, L’amica Geniale, così è stato con l’ampio progetto Il Mago di Oz (2007-‘09) ispirato al romanzo di L. Frank Baum, solo per citarne due.
Con Sylvie e Bruno c’è ancora qualcosa in più: quest’opera sta su un margine poroso che fa sì che molti dei lavori della compagnia dialoghino fra loro, giungendo fin anche all’origine della compagnia stessa, come già era stato fatto in una loro prima regia lirica, quella de Il Flauto Magico: lì come qui due bambini giocano a creare mondi immaginari e lo fanno sapendo di essere guardati. E questo è chiaro fin da subito: gli attori si siedono su degli sgabelli bianchi – unici oggetti di scena – in fila davanti alla platea e si rivolgono direttamente allo spettatore; spesso si fermeranno a guardarci e più spesso romperanno il quadro della rappresentazione descrivendo e commentandosi addosso le azioni. E così facendo ci conducono dentro l’origine stessa della parola teatro, quel luogo da cui si guarda e dal quale si è guardati; non a caso quelle due aperture che illuminano dal fondo la scena appaiono come due occhi che si aprono e si chiudono cambiando, attraverso il solo utilizzo del colore – tema questo già presente nel favoloso mondo di Oz – anche la percezione visiva ed emotiva di quanto si sta osservando.

Un saltello che dice l’atto del cadere nel pozzo di Alice per giungere al di là segna l’inizio del viaggio che si compie tra il reale e l’immaginario. E proprio come accade nei giochi dei bambini il corpo di ciascun attore attraversa più personaggi e si fa medium; così facendo ripercorrono lo stesso percorso interpretativo che fanno Lila/Fiorenza Menni ed Elena/Chiara Lagani a partire dallo spettacolo Da parte loro nessuna domanda imbarazzante: lì come qui l’eterodirezione e la ripetizione cumulativa di alcuni gesti fanno cadere nella vertigine del meraviglioso, lì dove i mondi si sovrappongono, realtà e fantasia convivono, e i personaggi di generi letterari differenti si incontrano. E in Sylvie e Bruno Ubu incontra Lady Macbeth, Sylvie e Bruno il Bianconiglio, e così via fino a collassare nel mondo di oggi dove nascosti tra il dire dei personaggi appare a un tratto anche Mario Draghi.
Se, come ci dicono i neuro scienziati, quella Rem è la fase più psichedelica del sogno, lì dove i mondi collidono, la fantasia e la realtà si sovrappongono e i colori esplodono, è proprio in questo anfratto del sonno che ci conducono gli attori sovrapponendo i molteplici piani del racconto scenico: il qui e ora del loro essere in scena, la narrazione che conduce al racconto, i mondi che si sovrappongono per farci infine tornare alla realtà: da una parte il Mondo del Fuori, un popolo in rivolta che cade sotto una dittatura, riecheggiando il recente assalto a Capitol Hill, dall’altra un mondo da romanzo ottocentesco che viene colpito dal diffondersi di una febbre mortale. I cortocircuiti tra le opere e i personaggi, la realtà del racconto e la fantasia si incastrano in determinate parole o brandelli di frasi che si sovrappongono invertendo l’ordine del racconto come se ci fosse qualcuno che gioca ad accendere e spegnere un interruttore, incastrando sempre di più lo spettatore nel vortice concentrico della scena. Per poi lasciarlo lì, a un passo dal vuoto, a scandagliare la matassa.