Abi Warburg insegna e Pathosformel pure. “La prima periferia” e la natura dell’artificiale

Tre bellissimi corpi artificiali – scheletri o androidi o robot, manichini di ferro e legno, forse di immaginario vagamente mutoid – calcano la scena insieme ad altrettanti attori-pupari che li manovrano e che li sistemano, a volte abbracciandoli sembrerebbe, nelle posizioni classificate dall’abate Andrea de Jorio nel 1832. Recensioni utilissime qui e qui.

Lo sfondo musicale e i movimenti bastano a creare tutta l’atmosfera, a tratti veramente sinistra ed emozionante. E’ quindi il corpo che dà la forma di questo lavoro potenziato dal suono che è il mezzo forse ancora più adatto a potenziarne la forza espressiva.

Ma di quale corpo parla questa performance? In scena ci sono dei corpi-macchina che, così come da tanto la ricerca artistica e le sue teorie reclamano, sono corpi artificiali e recitanti e che stanno lì a ribadire che quello che il teatro – la performance dal vivo – sa fare non è soltanto raccontare storie, non è solo testo narrativo e non è legato soltanto al corpo umano e alla sua espressività ma alla sua evocazione e al fatto che siamo noi a riconoscere e ad attribuire, da osservatori, quell’espressività, a costruire nelle nostre teste dei percorsi di senso, a riconoscere il comportamento e quindi ad attivare la comunicazione.

Non è forse un caso che questa giovane, direi solo anagraficamente, compagnia prenda il nome Pathosformel dal concetto che Abi Warburg ha associato alla sua ricerca sulle immagini archetipali e a quella sorta di fermo-immagine che unisce il pathos alla regola e mi verrebbe da dire alla creatività al vincolo necessario per farla emergere.