Macello punk. Biopolitica ed estetica analogica nel teatro riflessivo di Pietro Babina e Giovanni Brunetto

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ph Claudia Marini

Macello è il lavoro di Pietro Babina e Giovanni Brunetto basato sulla collezione di poesie di Ivano Ferrari (Mantova 1948), pubblicate da Einaudi nel 2004 ma scritte all’età di 26 anni quando lavorava nel mattatoio della sua città. Babina, inizialmente interessato a costruire un percorso sulla memoria dei campi di concentramento nazisti per indagare i processi che inducono gli esseri umani allo sterminio di altri esseri umani, ha trovato nel testo poetico di Ferrari un potente strumento analogico, capace di ricostruire in forma di metafora un’indagine sulla riproduzione meccanica della morte e sull’attività di sterminio normalizzata che riguarda gli animali e che, guardando bene, permea in maniere più o meno evidenti molti ambiti del sociale. Non ultimo quello artistico e teatrale.

Si tratta di un esempio puntuale di quel teatro riflessivo che intercetta le istanze del presente per trattarle drammaturgicamente, che pensa lo spettacolo come strumento di osservazione e occasione estetica. Se, da un lato, questa tendenza ha assunto negli ultimi anni la forma del teatro documentario, con casi esemplari e memorabili, attingendo a storie e testimonianze ritrattate in chiave teatrale, in questo lavoro, dall’altro lato, sembra emergere una tensione di tipo diverso. Attraverso il testo poetico, che di per sé rifugge la didascalia e la forma documentaristica, insieme alla messa a punto di una precisa partitura sonora e visiva, lo spettacolo fa emergere, o forse richiama, alcune sensibilità sul rapporto con il mondo animale che, se prima riguardavano quasi esclusivamente la cultura animalista, oggi si diffondono a diversi livelli di attenzione e consapevolezza mettendo in discussione lo specismo e il supposto rapporto gerarchico fra noi (che stiamo “sopra”) e gli animali (che starebbero “sotto”). Una cultura che, passando per le riflessioni relative agli allevamenti intensivi e alla macellazione in serie, si estende a un ragionamento politico più generale, relativo alle derive capitaliste e neo-liberali che si riflettono, appunto, anche sul nostro senso di superiorità rispetto agli altri esseri viventi.

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ph Claudia Marini

Lo spettacolo è costruito come una jam session a cui i due autori hanno lavorato parallelamente per produrre un’azione poetica che vede, da un lato, Pietro Babina declamare in scena il testo, e gestire una complessa e precisa partitura per parole, voci e suoni frutto del lavoro drammaturgico sui testi originari in collaborazione con Jonny Costantino. Dall’altro lato della scena, dalla sua postazione, Brunetto gestisce la parte visiva dello spettacolo: un montaggio live di immagini fotografiche, realizzate dallo stesso Brunetto, proiettate da macchinari vintage – come quello per le diapositive e i lucidi su un insieme di schermi, vintage anche loro, raccolti e disposti a comporre una parete frammentata. Il che riporta, sul piano compositivo al formato estetico dei Teatri Novanta, di cui Pietro Babina e Giovanni Brunetto sono stati fra gli esponenti più importanti, attraverso una raffinata e soltanto apparente artigianalità.

Durante l’incontro che si è svolto il 25 gennaio 2020 in occasione della presentazione di Macello nell’ambito de La Stagione dei Teatri al Teatro Rasi di Ravenna, questi aspetti sono stati efficacemente chiariti da Babina e Brunetto permettendoci di cogliere i passaggi del processo di costruzione del lavoro, la connessione fra testo, corpi e immagini.

 

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Macello punk

«Questo lavoro è stato un po’ un tuffo nel passato perché quando ero più giovane io stesso ho partecipato attivamente a gruppi animalisti, punk, anarchici, attivisti che facevano azioni e manifestazioni per la liberazione degli animali. Perciò quando ho letto il testo ho avuto un attimo di smarrimento e di angoscia perché è un testo molto forte che mi ha riportato anche a quelle esperienze del passato vissute direttamente. Per me è stato un lavoro molto punk, riportato alle origini. Io e Pietro abbiamo lavorato insieme per tanti anni, con i video. Negli anni passati non ho realizzato dei lavori di immagini con Pietro, però ho acquisito tante competenze e un immaginario che ho condiviso con lui. Quindi è stato anche un bel modo per ritrovarsi, lavorare insieme dopo tanti anni» (Giovanni Brunetto).

Immaginario fanzine

«Sul lavoro delle immagini mi sono basato su un’intuizione e una pratica riprese dall’esperienza dei lavori punk facendo una sorta di collage di immagini con luci e proiezioni di diapositive, fotografie seguendo il processo che usavamo per le fanzine. Si è trattato di un’intuizione che ho ritrovato sentendo Ivano che raccontava come anche lui prima di scrivere poesie lavorasse con dei collage di immagini… quindi c’è stata una sorta di feeling analogico. Io ho compreso nel lavoro di Ivano questa sensibilità come “collage di immagini”. Le immagini che avete visto nella performance sono tutte immagini che ho fatto io con la macchina fotografica a pellicola. Non ho voluto prendere niente dal lavoro di altri. Per me la fotografia è diventata una sorta di terzo occhio, vedere il mondo sotto un certo aspetto.

Abbiamo lavorato in modo parallelo costruendo lo spettacolo insieme pian piano: io con tutti questi macchinari strani e complicati seguendo la mia anima analogica. Quando Pietro è in scena non lo vedo quasi mai ma sento le parole ed è stato quello che ci ha legato: il verbo, la parola, il ritmo del testo, della musica perché ovviamente ogni tanto guardo cosa succede ma più che altro lo sento ed è come una sorta di compagnia uditiva che mi fa stare più concentrato sulle immagini che tento di riprodurre e che sono diverse ogni sera. Ho una sequenza di azione però è sempre modificata ogni sera perché non è una cosa ripetitiva e uguale a se stessa. È un montaggio dal vivo. Un montaggio di immagini che segue la traccia del testo e la voce di Pietro ma ho anche una certa libertà di sperimentare le cose che magari la sera prima non ho fatto» (Giovanni Brunetto).

Schermi vintage e visione per frammento

«Io sono un accumulatore seriale di attrezzatura vintage e ho comprato negli anni questi “schermetti” che compongono la parete per proiettare le immagini. Non volevamo lavorare su uno schermo piatto ma su uno schermo che fosse però sezionato e sezionasse a sua volta le immagini e creasse delle profondità differenti. Secondo me questa è stata una scelta molto azzeccata perché comunque rende molto la scomposizione di quello che si vede. Questo non è un lavoro piatto ma è una tavola molto frammentata» (Giovanni Brunetto).

Parallelamente, il lavoro sul testo realizzato da Babina consiste nel permutare e ricombinare le poesie secondo un montaggio nuovo, che senza seguire l’ordine cronologico originario, così legato all’esperienza diretta del poeta, costruisce un percorso narrativo per un personaggio che, nelle intenzioni di Babina, agisce nel presente e parla di una condizione che riguarda l’attualità evitando la scorciatoia del passato. Allo stesso modo Babina costruisce una punteggiatura sonora che, diversamente dal lavoro molto accurato e preciso sul testo, ha seguito un procedimento compositivo più istintivo, ritmico e ipnotico. Diversamente da Brunetto, Babina non improvvisa in scena ma segue uno spartito preciso.

Un montaggio testuale per un personaggio

«Quando ho cominciato a lavorare sul testo ho cominciato a vederci delle trame, delle azioni e talmente tante cose che hanno fatto sì che dovessi trovare una drammaturgia. L’ordine delle poesie, così come sono nel libro, è un ordine cronologico, così come Ivano Ferrari le ha scritte nel tempo, su dei quaderni che possiede e che teneva con sé nel macello dove lavorava.

Ho cominciato a individuare dei temi e la cosa che mi è sembrato necessario per andare in scena è che ci fosse la creazione di un personaggio, che nel corso del tempo attraverso le parole si incarnasse una figura. Mi interessava che a un certo punto avessimo un personaggio davanti e non solo un dicitore delle poesie. Questo presupposto ha guidato la logica di costruzione che comincia con delle cose molto personali tipo “qualcuno si chiede se io ami”, “se durante il giorno…”, “io sono quello che stabilisce la commestibilità dei vostri miasmatici cibi”. Il personaggio è tutto rivolto a se stesso, fa prima un quadro di sé poi entra nel lavoro.

Diversamente dalla struttura del libro, ho radunato dei temi che ho intuito esserci per creare dei macro gruppi che guidassero nel momento della macellazione, del personale, dei compagni che lavorano, il momento politico della manifestazione fino al momento degli umori e dei coltelli che sono dei personaggi a loro volta perché agiscono come delle marionette che compiono delle azioni» (Pietro Babina).

Riflessività per il presente

«Ecco nel libro sono tutte sparse queste cose io le ho radunate in macro gruppi che effettivamente a mio parere funzionano perché in un momento così rapido e veloce tu riesci a focalizzare tutti i vari personaggi che partecipano, compresi gli umori, il sangue, lo sperma, il plasma, la merda… e non è una provocazione perché quello è il mondo. E poi ci sono gli uomini che sono vittime a loro volta, e che è la cosa che a me preme. La nostra società non solo macella queste bestie, ma macella anche tutti coloro che manda a fare questo lavoro. È evidente che chi lavora lì dentro per sopravvivere sviluppa delle forme mentali pseudo-naziste per così dire perché non puoi vivere in una condizione del genere avendo il peso che ha Ivano Ferrari. Infatti, per lui era devastante. Forse perché continuava a mantenere viva quella sensibilità mentre gli altri l’avevano ottusa completamente» (Pietro Babina).

Punteggiatura sonora

«Come sempre la musica è il mio punto di riferimento, ho cercato di costruire un lavoro musicale che seguisse delle logiche, per questo mi sono dato alla fine una partitura precisa. In questo lavoro l’aspetto di partitura musicale è nella scelta dei suoni e degli accostamenti a volte mimetici, a volte sentimentali ed è basata su un’idea musicale che in parte segue le suggestioni del testo, in parte le diverse cose che ascolto» (Pietro Babina).

Lo spettacolo inizia con Pietro nella sua postazione impacchettato come un pezzo di carne sottovuoto confezionato del supermercato. Un segno inequivocabile dell’estensione metaforica che viene data al lavoro che, attraverso l’oggetto esplicito che tratta, rimanda alla condizione generalizzata della violenza reale e simbolica. Un richiamo, attraverso il poeta e l’attore che si immolano, al tema del sacrificio che qui, mi pare, diversamente dall’idea del sacrificio e del capro espiatorio come fondamento del legame sociale (penso a Girard) assume, piuttosto una prospettiva biopolitica. Macello lancia un grido di dolore e di rifiuto «non solo strettamente della carneficina e della nostra attitudine specista, ma del massacro dell’artista di un certo tipo», ovvero di critica al sistema mercantile che condiziona il lavoro artistico in senso neo-liberale e che invece di assecondare la creatività «sta prosciugando i motori profondi, quelli più viscerali del fare questo tipo di attività». Un conflitto che lo spettacolo non ha la pretesa di sanare ma che permette di osservare riflessivamente, senza mai «cercare la pancia dello spettatore» (si veda a proposito anche l’intervista a Pietro Babina di Laura Budriesi), il mondo che siamo.

Schegge di Primavera #2 Onirici anni e memorie generazionali

Se volessimo trovare un nodo tematico che colleghi gli spettacoli della quarta serata di Primavera dei Teatri, la seconda per me, potrebbe essere il sogno.

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Il sogno è quello che innesca le dinamiche interne e conflitti fra i membri del Gruppo Italiano raccontate da Frigoproduzioni in Tropicana. Molti ricorderanno il gruppo musicale diventato famoso nel 1983 con la canzone Tropicana appunto. Pezzo facile, successo di mercato e tormentone estivo che diventa il pre-testo di un immaginario catastrofico, metafora del nostro tempo. Il contrasto fra il ritmo orecchiabile del calypso e il testo tragico della canzone è il fulcro su cui si costruisce la dinamica di relazione fra i componenti del gruppo: l’autore del testo (Francesco Alebrici), l’arrangiatore che sa imbastire brani di successo perché conosce la struttura delle canzoni anche se in realtà gli piace altro, Frank Zappa soprattutto (DanieleTurconi), la cantante star e talentuosa (Claudia Marsicano), il quarto elemento, il corista arrivato per ultimo e sacrificabile alle logiche interne della band (Salvatore Aronica).

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Fra contrasti, litigi, rimpianti, recriminazioni, paure che i personaggi rivelano a se stessi e al pubblico attraverso l’impianto metateatrale del lavoro cresce l’entropia che porta il gruppo a dissolversi, anzi a “gremarsi”, per citare il testo della canzone messo a tema nello spettacolo. Destino tragico di un mondo come il nostro che per i giovani di Frigoproduzioni sembra rintracciabile nei riferimenti di un immaginario pop che non è anagraficamente il loro ma che torna nei loro lavori. Segno e simbolo di identità collettive che si tengono insieme come generazioni mediali.

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Nella dormienza terapeutica e nella confusione di sogno, ricordi e fatti si imbastisce il bellissimo Personale Politico Pentothal – Opera rap per Andrea Pazienza, progetto Fratelli Dalla Via + Gold Leaves.
Grazie a una costruzione drammaturgica che sta fra il teatro e il concerto rap lo spettacolo mette a punto una narrazione strutturata su tre momenti – il talento, lo sballo, l’impegno – che servono a Marta Dalla Via per imbastire un racconto ispirato a Le straordinarie avventure di Penthotal, fumetto di Andrea Pazienza del 1977, diario onirico ambientato a Bologna, e costruito nel registro linguistico e dadaista del suo autore. La storia è raccontata dalla fidanzata di Stefano Tamburini, creatore di Ranxerox altro famoso fumetto di quei tempi che sono quelli di Radio Alice, della rivista Cannibali, legata al movimento del ’77, poi degli anni ’80 di Frigidaire. Sono i tempi di Bologna, della fattanza, di una stagione politica finita male, segnata dalla morte di Francesco Lorusso. Attraverso il linguaggio di una “sopravvissuta condannata alla fabula” il racconto è a sua volta un diario onirico, allo stesso modo sconnesso temporalmente e per piani (personale, collettivo, sociale, emotivo).

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Gli interventi musicali di DJ MS (Simone Meneguzzo), dei rapper Moova (Omar Faedo), Letal V (Michele Seclì), Giobba (Roberto di Fresco) fanno da contrappunto al racconto di Marta Dalla Via, rafforzando il lavoro sul linguaggio/sui linguaggi che caratterizza la ricerca dei Fratelli Dalla Via.

con-nome-masiar-2.jpgSe in questi due lavori, molto diversi fra loro, il sogno è il filo che lega anche l’immaginario generazionale e l’apparato storico dei primi anni ottanta, il sogno di Masculu e fìammina di e con Saverio La Ruina / Scena Verticale è rintracciabile nella forma del ricordo – che proprio per la mediazione del tempo e dell’elaborazione simbolica di ognuno perde sempre e per fortuna l’aggancio ai fatti – cui risalire per confidare a una madre morta, come in un sogno appunto, la propria omosessualità. Rivisto nel suo contesto naturale, come langue condivisa, lo spettacolo diventa esperienza antropologica. Valeva la pena rivederlo.

 

Schegge di Primavera #1 Note su Pedigree di Babilonia Teatri

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Finalmente a Castrovillari per Primavera dei Teatri. Festival organizzato da Scena Verticale, giunto alla sua diciottesima edizione e al quale auguriamo una lunga e felice vita. Le occasioni di buona cultura che nascono per un territorio e per la sua comunità mi sembrano il punto di partenza importante per quell’audience development che incontra sempre più interesse sul piano progettuale e di studio anche in Italia.

Dei tre spettacoli visti ieri – terza giornata del Festival – dedico questa prima scheggia a Pedigree di Babilonia Teatri che ha debuttato proprio qui Castrovillari, alla Sala Consiliare.

Lo spettacolo affronta la questione della genitorialità possibile, possibile altrimenti, attraverso le parole di un figlio e delle sue due madri, nato biologicamente da un padre donatore e da quello che ne consegue sul piano dell’identità, dello stigma collettivo, della necessaria quanto mai risolta questione di una nuova semantica familiare forse auspicata, forse necessaria ma ancora di là da venire. Ecco allora che sul piano della riflessività sociologica, alla quale il teatro di Babilonia non smette mai di rimandare, lo spettacolo non può che essere quello della contingenza della tarda modernità. Lo spettacolo incarna questa contingenza, la connota come parola problema e la esprime già in quello che fa dire al suo protagonista – Enrico Castellani, sempre credibile in scena – quando afferma “Io non sono un essere binario”. Eppure riconoscere questo stato non basta e gli strumenti che abbiamo per raccapezzarci nella complessità sono per forza quelli della banalità, cioè del piano di discorso popolare – il pop di Babilonia – che è più mediale che filosofico, più di senso comune che aulico, più basso che alto. E non può che essere così. Se è vero che l’arte è un modo per comunicare osservazioni, quello che ci restituisce Babilonia è l’osservazione di una impossibilità di dare risposte definitive. Binarie appunto.

E lo spettacolo è costruito drammaturgicamente per portare qui. Le azioni e i capitoli di testo che imbastiscono il racconto, nella lingua serrata che abbiamo imparato a conoscere, tracciano una specie di cerchio che parte dal gesto performativo di cuocere quattro polli in un girarrosto elettrico e di cui sentiamo progressivamente l’odore. Una chiave immersiva che attiva i corpi e il simbolico perché quei 4 polli sono l’innesco del racconto del protagonista-Enrico bambino e del compagno di scuola Denis che gli rivolge la cruciale domanda sul perché lui non abbia un babbo ma due mamme mentre cercano di risolvere un problema di matematica in cui c’è da fare di conto su quanto pollo si mangi in una famiglia che ha comprato 4 polli ed è composta di 6 figli più un padre e una madre. Quel Denis che, inconsapevolmente, è l’espressione dello stigma sociale, che mette in crisi il nucleo formato dal figlio e dalle sue madri, di un padre che non servirebbe perché il “biologico” è un incubo e un paradosso di oggi: la natura e la sua ridefinizione sempre più artificiale, quella degli hamburger di seitan ad esempio.
Nella traccia sonora delle canzoni di Elvis, già di suo macho travestito, o di “Mamma” di Beniamino Giglio – e della danza del figlio con le sue mamme, nell’abbraccio con i loro vestiti bianchi sottovuoto – si struttura questo racconto, la riflessione arrabbiata, il dubbio, la ricerca di questo padre biologico. C’è poi la decisione di diventare donatore a sua volta ma scegliendo, a differenza del donatore delle sue madri, di non voler essere contattato dal possibile figlio al compimento del diciottesimo anno d’età. Interrompendo così una inevitabile relazione fra riproduzione della specie ed eredità genitoriale, dissolvendo il pedigree; e allo stesso tempo lasciare correre così il rischio che si vorrebbe evitare, come quello di scoparsi la propria sorella. Non c’è scelta giusta, certa, da contrapporre all’errore: solo il tentativo di vivere la contingenza.

Ma c’è anche il bisogno di un ricongiungimento, una specie di nemesi finale, nel pranzo di Natale con i propri fratelli biologici che provengono da diverse parti del mondo e con i quali dividere quei polli. Polli da cui si parte e a cui si torna, con buona pace di Denis e delle risposte che comunque, forse, non è così importante avere.

Immaginario tutto inglese per una cerimonia-spettacolo. Appunti sull’opening delle Olimpiadi di Londra firmate Danny Boyle

Dal punto di vista dell’immaginario e della resa drammaturgica – con le fasi dal vivo e i filmati in video – la cerimonia inaugurale delle Olimpiadi 2012, soprattutto lo show L’isola delle meraviglie diretto da Danny Boyle, si è rivelata all’altezza di una cultura ben consapevole dei suoi elementi di forza e della sua identità radicata e poliedrica insieme.

Performance liminode a tutti gli effetti – cioè un rituale che all’efficacia integra la dimensione spettacolare e rimanda alle dimensioni dello svago – la messa in scena è partita come una grande narrazione della storia d’Inghilterra: le origini contadine e la rivoluzione industriale (protagonista in questa fase Kenneth Branagh, a suo modo icona mediale del teatro shakespeariano, nelle vesti del promotore delle ferrovie inglesi) con un’iconografia che è passata dal verde delle campagne inglesi ai marroni-grigi delle ciminiere e dell’ambiente urbano in trasformazione.

Non sono mancate nemmeno le suffragette, movimento nato in Inghilterra nel 1872 e che ha lottato per il diritto di voto delle donne. E chissà che non ci fosse un filo rosso a legare questa rappresentazione con la presenza di molte atlete donne fra le file delle squadre che fino ad ora non le avevano contemplate…

Fino alla celebrazione del Sistema Sanitario Inglese (NHS) – che ha resistito alle pressioni liberiste di Margaret Thatcher e sopravvissuto alle tentazioni mercatiste di Tony Blair – e del Gosh (Great Hormond Street Hospital) l’ospedale pediatrico al centro di Londra.

Da qui il focus sui bambini e sull’immaginario infantile popolato anche da figure cattive e minacciose, necessarie all’elaborazione delle paure, ha visto avvicendarsi le figure della letteratura e del cinema attingendo ai simboli dell’iconografia pop e popolare tra cui Voldemort, Crudelia De Mon, i personaggi di Alice – realizzate come grandi maschere grottesche da carro mascherato – fino all’arrivo di tante rassicuranti Mary Poppins a vegliare sui bambini.

Perfetto humor inglese in diversi passaggi: dal primo esilarante incontro fra il James Bond di Daniel Craig e la (complice) Regina Elisabetta (dal cortometraggio The Arrival in cui Bond va a Buckingham Palace a prendere la Regina fino a quando si lanciano con il paracadute nello stadio e lei entra davvero – come a conciliare i piani di relatà dell’immaginario – a prendere posto elle tribune con lo stesso vestito color pesca…)

all’incursione di Mr Bean in mezzo alla London Symphony Orchestra nell’interpretazione del grande classico di Vangelis Momenti di gloria (con Bean che sogna mentre suona dal vivo la mono nota, di allenarsi con i campioni del 1924), fino all’arrivo di Beckham in motoscafo a portare la torcia al tedoforo, sir Steve Redgrave leggenda del canottaggio inglese, che a sua volta ha consegnato la torcia ai 7 giovani atleti che, simbolo di apertura al futuro, hanno acceso il braciere formato da tanti petali di rame quante sono le squadre in gara.

La storia dell’Inghilterra passa naturalmente per la musica e per le svolte che sono sempre venute da lì.

Mixaggio curato da Underworld di pezzi – a volte troppo soffocati dai conduttori di RaiSport che hanno in mente una TV un po’ troppo vetero – come My Generation (Who), Satisfaction (Rolling Stones). Ma poi anche Queen, Pink Floyd, David Bowie, Led Zeppelin, Clash, Sex Pistols, Chemical Brothers, Radiohead, Blur, Prodigy, New Order, Massive Attak, Duran Duran, Eurythmics, Frankie Goes To Hollywood, Pet Shop Boys, Oasis, Amy Winehouse, Adele, e, naturalmente, i Beatles, con Paul McCartney che ha chiuso con Hey Jude anticipato però dai “famosi grazie alla rete” Arctic Monkeys che tra l’altro hanno eseguito piuttosto bene la sempre bella Come Togheter.

Una cerimonia per essere tale ha bisogno dei suoi momenti istituzionali: l’avvio dei giochi pronunciato da Elisabetta II, i discorsi ufficiali, la parata delle squadre – con molti atleti che riprendevano e fotografavano l’evento di cui facevano parte come segno di quell’accoppiamento fra media e vissuto che segna il nostro modo di fare esperienza.

Cose ridicole: la divisa della delegazione tedesca, il foglietto “mamma sono qui” di un atleta italiano. Il tutto sbeffeggiato su Twitter dove come sempre si sono letti i commenti più divertenti.

foto da qui

Facebook e la scrittura performativa di Angelo Pretolani

È da tempo che ho per le mani il libro di Angelo Pretolani Sotto il selciato c’è la spiaggia (Fiorina Edizioni, Pavia) che prende il titolo dalla serie di performance – e prima ancora direi anche dal film di Helma Sanders – che dal 2008 esegue quotidianamente su Facebook ed è dallo stesso tempo che vorrei metterne in luce alcune questioni. Lo faccio ora.

L’aspetto interessante di questa operazione sta nel mettere insieme il paradigma scrittura-lettura con quello della performance, del comportamento. Ambito artistico nel quale Pretolani è attivo dagli anni ’70, prima ancora che la body art diventasse il fulcro di quella gamma di arti performative incentrate sull’uso del corpo.

Ne deriva – come leggiamo nella prefazione al volume – una scrittura performativa che è il riflesso dell’atto eseguito altrove dallo stesso Pretolani. In ottica mediologica potremmo dire che la performance dal vivo viene trasferita su una piattaforma diversa – Facebook in questo caso, il video in altre occasioni, acquisendo una dimensione autonoma.

La coerenza di questo tipo di ricerca, basata su un’idea e una pratica processuale dell’arte, è rintracciabile nel modo in cui Pretolani dichiara di “esporsi” più che di “esprimersi” e perciò sceglie il luogo ideale per questa esposizione cioè il social network più diffuso in Italia, nel quale agire in vista della relazione con i fruitori. E quindi con i like e con i commenti.

Prima quindi che la timeline di Facebook permettesse di storicizzare anche la “serie” Sotto il selciato c’è la spiaggia – mettendone quindi in evidenza anche la sua ibridazione con la logica televisiva del palinsesto e della serialità appunto – le performance sono state raccolte e “messe in fila” nella forma libro che, letto tutto insieme, permette di seguire una vicenda che è artistica ma anche umana, relazionale e molto interessante dal punto di vista della comunicazione. In certi passaggi conversazionali anche molto divertente.

Ad esempio quando Angelo risponde garbatamente al commento di una persona che gli suggerisce di vedere i lavori dei performer storici o quando sottolinea di non ricevere risposte a messaggi inviati oppure ancora quando in un commento si legge “ma perché non vieni ad aiutarmi in panificio?”.

Sebbene le scelte editoriali non rendano completamente merito all’operazione, facendo perdere di fatto l’immaginario di Facebook e la sua peculiarità visuale, il libro assume la forma di una specie di diario condiviso in cui possiamo ritrovare i contribuiti creativi degli utenti – ringraziati uno ad uno per nome nel volume – e perciò la vera essenza partecipativa che il web potenzia svelando, ancora una volta, la sua qualità performativa.

Drusilla Foer, o della realtà dell’immaginario

Ibrido e contaminato com’è dalle forme mediali e dai linguaggi della rete, il territorio della perfomance non può non comprendere il “caso” di Drusilla Foer, ossia dell’elegante e divertente signora dell’alta borghesia fiorentina che da qualche tempo dispensa in rete massime e aneddoti biografici degni di quei personaggi dell’élite mondana di cui ancora si legge nelle riviste.

foto di Mustafa Sabbagh, styling Simone Velsecchi

Inventata e interpretata dall’attore en travesti che non svela la sua identità, Drusilla Foer rappresenta quel tipo di operazione della comunicazione che usa il dispositivo della finzione per far emergere la realtà dell’immaginario e i dispositivi mediali per diffonderla.

Alla diffusione virale della video-intervista Venti minuti di lei condotta dalla giornalista Carlotta Romualdi – di cui ringrazio Claudia per la segnalazione – hanno fatto seguito, oltre all’apertura della pagina Facebook che conta oggi 2697 friends e da vera celebrity la trovate anche su Twitter, il video per la campagna Anlaids promossa da Luisa Via Roma e quello, di diversa cifra ovviamente, per il compleanno dell’amico Diego, un servizio sul tg locale e il video Evviva l’Italia con gli auguri di inzio anno sulla pagina di Firenze de La Repubblica online. A dimostrazione di come, anche in questo caso, i media generalisti vampirizzino e facciano da cassa di risonanza ai fenomeni che nascono e sì diffondono in rete.

Nella cornice dell’immaginario gay e dell’idea dell’icona di stile, diva d’antan amica delle celebrità (da Tina Turner a Gandhi) apparsa sulle copertine di Life, di Vogue ma anche di Wired e finanche de La settimana enigmistica, Drusilla riesce a mettere in fila con l’atteggiamento un po’ blasè degli snob “veri” gli stereotipi della cultura di massa richiamando, senza scomodarle però, figure come Paolo Poli o Alighiero Noschese ma anche Diana Vreeland o Elsa Martinelli… (da leggere qui).

Per farlo usa la forma teatrale – nella recitazione e nel modo in cui costruisce il testo ad esempio – e la trasferisce nel video come formato che permette di giocare con la dinamica televisiva – l’intervista, il discorso, la campagna pubblicitaria – senza trasformarla in prodotto televisivo e nemmeno cinematografico in accordo con le modalità di rimediazione e di transmedialità che mi pare di rinvenire nei lavori di uno come Francesco Vezzoli, ad esempio.

E poi, cioè soprattutto, c’è il web come supporto adeguato a mantenere la qualità della performance (e più specificatamente teatrale come si legge sull’interessante post di Artisceniche), l’apparato di relazione e di affezione al personaggio che sta già riuscendo a garantirsi il suo posto nel regno del fandom.

Io nel frattempo ho seguito la sollecitazione di Drusilla per ricordare ogni giorno un personaggio “celebre” e mi sono andata a cercare notizie su Gisella Sofio

Balla coi piedi

Qualche anno fa, grazie ad un invito dell’ultimo minuto ma molto gradito, ho assistito ad un balletto classico al Teatro Sanzio di Urbino. L’evento era uno di quelli “da non perdere” per cui la sala era gremita. Dal mio posto in prima fila ho potuto godere da vicino delle movenze e dei volti dei ballerini e aspettare con fiducia che facessero qualche salto per vedergli i piedi.

Ecco perché il trafiletto dal titolo Il piede sempre visibile. UN Studio: Dance Palace, San Pietroburgo nell’articolo La forma in scena, su Nova del 10 febbraio 2011 ha attirato la mia attenzione. Si tratta di nuovo complesso progettato per garantire l’acustica e la prossimità del pubblico al palcoscenico con lo scopo di valorizzare proprio l’esperienza spettatoriale. Da sottolineare quando afferma:

Un requisito essenziale è stato quello di rendere possibile la vista dei piedi dei ballerini da ogni posto in sala, in qualsiasi momento, a prescindere da dove l’artista fosse posizionato sul palco.

Certo, si sa, i teatri ottocenteschi (quello di Urbino è del 1829) proponevano con la loro forma il carattere sociale del teatro, forse anche l’essere visti più che il vedere tuttavia, forse, bisognerebbe evitare di impiegare la prima fila di sedie quando la visione – sempre cruciale per il “medium” teatro e per la danza in particolare – non è assicurata. E anche se posso dire che in quell’occasione “io c’ero” ho sempre ripensato a quell’esperienza come a qualcosa di bislacco, seppur divertente.

Cosa che tra l’altro succede con i palchi laterali che cerchiamo di evitare tutti come la peste bubbonica. Ultimo caso in ordine di tempo il bel Tristi tropici della compagnia Virgilio Sieni, al Bonci di Cesena, dove mi sono trovata a confondere i lampioni delle colonne con una ballerina seduta di cui non capivo le forme, o ad evitare mani penzolanti, teste protese di gente che, come me, cercava di vedere meglio…

Tutto questo per dire che in tempi di tecnologie avanzate e di modalità visive espanse lo spettacolo teatrale mantiene quel carattere del vedere, adesso, subito e possibilmente bene, che ne qualifica il carattere fin dal suo nascere. Non è quindi per niente banale il fatto che lo studio olandese che firma questo progetto abbia pensato al teatro, allo spazio, e a come funziona. E perciò al suo pubblico.

Mi è sembrata, insomma, una buona notizia.

La performance e i “suoi” tempi. Ovvero: Marina Abramovic

Secondo me l’incontro con Marina Abramovic sarebbe stato molto utile a tutti coloro che pur incuriositi dall’arte contemporanea e in particolare dai percorsi della performance e della body art tendono ad assumere quell’atteggiamento scettico o di fastidio a volte che si riassume nell’affermazione “io non capisco” o nella fatidica domanda “ma questa è arte?”.

Avrebbero avuto modo di incontrare una persona affascinante e vitale, ironica nel racconto dei piccoli aneddoti sui suoi esordi e capace di far capire il senso vero di un’idea dell’opera d’arte dal vivo, del corpo vivo per un pubblico, come processo che ha nel tempo, ovvero nella sua dilatazione, il suo più forte e carico significato simbolico.

Tempo come qui e ora del gesto fondato sul corpo messo alla prova ed esibito non tanto per l’intrattenimento – ovvero in quel gusto del pubblico verso lo sforzo e il sudore attorale che già Barthes rinveniva nei suoi Miti d’oggi e che definiva come “trovata del giovane teatro” – ma piuttosto per l’efficacia simbolica che la fatica assume. E’ un insegnamento per la vita.

Non sono importanti le cose facili, ha detto Abramovic, ma il coraggio di affrontare le cose difficili. Ed esporre il proprio corpo, anche invecchiato e bello, come lei stessa fa oggi, assume nei nostri tempi beceri il valore di una differenza che può farci molto pensare e che assume, per chi la voglia vedere, un’attualità insperata.

E c’è il tempo della performance come arte che per non dissolversi e lasciare una traccia ha bisogno di essere documentata. La presa di distanza rispetto all’uso un po’ feticistico delle tecnologie dei perfomer più giovani, forse un po’ ingrati rispetto al lavoro pioneristico del passato, può essere rinvenuto nel film documentario Seven Easy Pieces. Una lezione sulla performance e sulla sua traduzione in video ancora una volta nel nome del tempo.

Compongono il film di Babette Mangolte cinque omaggi ai lavori “classici” di Bruce Nauman, Vito Acconci, Valie Export, Gina Pane, Joseph Beuys, basati sul re-enactment più reinterpretazione di due delle sue performance, eseguite nel 2005 al Guggenheim e dedicate a Susan Sontag. Una sede importante per Abramovic che ha atteso 12 anni per poter portare lì il suo lavoro. Consacrazione avvenuta si potrebbe dire.

Il merito del film sta nel tenerti lì perché riesce a calibrare in novantacinque minuti la ripresa delle perfomance, che nella reinterpretazione di Abramovic durano 7 ore ciascuna, con il montaggio e i tagli necessari a far cogliere e sentire “fisicamente” il peso del tempo.

Un film che non dimentica di indugiare sul pubblico, sempre il vero movente di un’arte che professa e rivendica il suo legame con la vita, e che, mi pare, si trova a sperimentare – anche nella mediazione – il senso vero della solidarietà con l’artista, vittima sacrificale e mai oggetto del divertimento fine a se stesso.

Abi Warburg insegna e Pathosformel pure. “La prima periferia” e la natura dell’artificiale

Tre bellissimi corpi artificiali – scheletri o androidi o robot, manichini di ferro e legno, forse di immaginario vagamente mutoid – calcano la scena insieme ad altrettanti attori-pupari che li manovrano e che li sistemano, a volte abbracciandoli sembrerebbe, nelle posizioni classificate dall’abate Andrea de Jorio nel 1832. Recensioni utilissime qui e qui.

Lo sfondo musicale e i movimenti bastano a creare tutta l’atmosfera, a tratti veramente sinistra ed emozionante. E’ quindi il corpo che dà la forma di questo lavoro potenziato dal suono che è il mezzo forse ancora più adatto a potenziarne la forza espressiva.

Ma di quale corpo parla questa performance? In scena ci sono dei corpi-macchina che, così come da tanto la ricerca artistica e le sue teorie reclamano, sono corpi artificiali e recitanti e che stanno lì a ribadire che quello che il teatro – la performance dal vivo – sa fare non è soltanto raccontare storie, non è solo testo narrativo e non è legato soltanto al corpo umano e alla sua espressività ma alla sua evocazione e al fatto che siamo noi a riconoscere e ad attribuire, da osservatori, quell’espressività, a costruire nelle nostre teste dei percorsi di senso, a riconoscere il comportamento e quindi ad attivare la comunicazione.

Non è forse un caso che questa giovane, direi solo anagraficamente, compagnia prenda il nome Pathosformel dal concetto che Abi Warburg ha associato alla sua ricerca sulle immagini archetipali e a quella sorta di fermo-immagine che unisce il pathos alla regola e mi verrebbe da dire alla creatività al vincolo necessario per farla emergere.

La passione (di Carmen) secondo Emma Dante fra opera in schermo e vecchie audience

Ho visto la diretta della prima della Carmen di Bizet alla Scala di Milano trasmessa al cinema Tiberio di Rimini. Per una volta mi sono sentita sotto l’età media. Quello che abbiamo visto è la versione televisiva quindi caratterizzata dai piani di ripresa che sottolineano le scelte di regia con la possibilità di vedere frammenti e tagli di immagine che il paludato pubblico della Scala non può certo aver visto. Ma anche figure d’insieme, come gruppi scultorei e scene di gruppo, di grande impatto visivo e per qualificare il lavoro sul piano dell’immaginario (la Sicilia evocata) che rende riconoscibile la cifra espressiva della Dante.

Pochi commenti perché si leggerà tanto in giro. Grande Emma Dante perché ha colto il senso dell’opera d’arte totale rendendo teatrale un’opera che ha nella musica e nel canto il suo fulcro. Un’opera a sfondo passionale (nell’affascinante dialettica fra sacro e profano) reso benissimo anche dagli interpreti molto bravi anche dal punto di vista attorale e “corporeo”. Mi veniva in mente il mito del giovane teatro di Barthes con gli attori che devono soffrire per gratificare il pubblico. Ed effettivamente era un po’ così. Forse è stata fischiata per questo. Ma gli imbecilli devono esistere altrimenti le differenze chi le coglie? Ed era bellissima, elegantissima quando sorretta dal maestro Daniel Baremboim è uscita per gli applausi e i buu.

Fra nervoso e divertimento mi restano i commenti della gente intorno a me. Nella sala del cinema. Un vecchio pubblico televisivo che commenta o ridacchia sullo sgabello del direttore d’orchestra, sulla sua giacca e bretelle (un mito), che esulta quando vede la Aspesi fra il pubblico, che commenta e spiega le scene (tipo quella del terzo atto: sembra un burca che sembra una pannocchia…), oppure durante la scena con Carmen e le due zingare che leggono le carte: uh guarda le Yavanna! (solo che questa l’ha detta mio babbo), il vestito e lo smeraldo della Moratti, l’elenco dei nomi dei presidenti tranne quello di Napolitano (l’unico che fosse lì), il costo delle poltrone (2.500 euro). Qualcuno racoccontava dietro di me di aver visto, come me, la puntata di Che tempo che fa dedicata all’opera. Ho sentito frasi del tipo: sì dai c’erano tre maestri questo (traduco: Baremboim) e… Marcorè (a chi si riferiva: a Pollini? Abbado? Yovanotti?). C’è anche chi ha applaudito durante l’Inno d’Italia.

Però è così. Siamo ancora un pubblico di massa. Televisivo. Nonostante tutto ci siamo presi la briga di stare 4 ore, con pause di 30 minuti fra un atto e l’altro) in un cinemino a guardarci una cosa bella e a sentire un’esecuzione che a me è parsa mirabile. Anche perché l’opera lirica, nonostante il modo in cui la si concepisce oggi, ha un suo bel carattere “pop”. Male non farà. Meglio che vedere “dal basso” il sedere della valletta di Papi.