Nei rimossi dalla Storia: Negri senza memoria di Alessandro Berti

di Francesca Giuliani

Ph Daniela Neri

C’è, ormai da qualche anno, una tendenza nelle arti performative a provare a smontare i racconti che il passato ci ha tramandato demistificando alcune parole, decolonizzando alcune narrazioni e rintracciando, nelle traiettorie storiche, l’origine del perpetrarsi dell’errore interpretativo o l’operazione di una vera e propria cancellazione. È così che operano ad esempio il duo Frosini/Timpano che, per citare solo uno dei loro lavori, in Acqua di Colonia (2018) riportano in superficie un rimosso storico che ha profondamente segnato, anche se in pochi anni, lo “spirito nazionale”, ovvero il colonialismo italiano in Africa. Un simile tentativo di aprire ulteriormente il dibattito intorno alle molteplici forme di razzismo, al fine di identificarne le radici e le cause generate dai punti ciechi della storia, affiora non solo in ambito teatrale, ma anche nei paesaggi della danza contemporanea; in questo caso, per fare solo uno degli esempi, il gruppo Chiasma diretto da Sandro Lombardo con Opacity project (2018-2020) sviluppa una ricerca coreografica intorno alle eredità coloniali e agli immaginari post-coloniali dell’Occidente. 

Alla base di queste nuove prospettive sceniche e drammaturgiche c’è una lunga ricerca bibliografica sui temi, un’indagine che tocca il cinema e la letteratura, la musica e la storia, la moda e l’arte per cercare nelle pieghe della società e della cultura occidentali le origini di una ferita che non si è ancora rimarginata. In questa frattura affonda lo sguardo anche Alessandro Berti/casavuota, attore, drammaturgo e regista, che ha presentato in doppia serata, ospite della stagione di Ravenna Teatri, i primi due capitoli di una trilogia dal titolo già esemplificativo Bugie Bianche. L’ultimo appuntamento al Teatro Socjale di Piangipane ha visto Negri senza memoria, il secondo capitolo, seguito da un incontro con l’artista curato dal critico e studioso Andrea Pogosgnich.

Come si può far riaffiorare il rimosso della storia? Da questa domanda si sviluppa la ricerca di Berti che racconta di come l’innesco sia stato attivato da una precisa riflessione su un fatto reale: la narrazione che è stata fatta dai media attorno alle violenze perpetrate da un gruppo di ragazzi di origini africane contro una giovane coppia polacca nell’estate del 2017 a Rimini. Se il primo capitolo, Black Dick, ripercorre la storia dell’uso del corpo del nero da parte della società bianca occidentale, in questo secondo capitolo la narrazione affonda lo sguardo nell’esperienza dell’immigrazione italiana in America nel primo Novecento per andare a vedere dove e quando si è originato il gap, la linea di demarcazione tra bianchi e neri. All’inizio i neri e i bianchi italiani erano uguali in tutto tranne che per la questione tempo: i neri erano schiavi da secoli mentre gli italiani erano appena giunti nelle terre della democrazia. Ed è la frase detta in radio dal rapper nero newyorkese Chuck Nice, che scatenò molte polemiche fra gli italo-americani, «Italians are niggaz with short memory» (gli italiani sono come i neri ma con la memoria corta) che, oltre a ispirare il titolo dello spettacolo, dà il via alla narrazione.

Ph Daniela Neri

Ad accoglierci un testo stampato, appoggiato su ciascuna sedia, con fronte e retro differenti solo per il tipo di cancellazione attuato: è The House I live un brano di Archi Shepp, famoso jazzista afroamericano attivo anche politicamente, che fu rivisitato e reso mainstream da Sinatra ma dopo un attento taglio che ne ha modificato nettamente il senso. Di queste cancellazioni, falsi miti, e mistificazioni ci parlerà Berti mescolando senza soluzione di continuità il teatro di narrazione al teatro-canzone, la stand-up comedy al reading letterario; la drammaturgia si costruisce attraverso brandelli di canzoni, citazioni di film e testi letterari facendo riaffiorare storie di linciaggi e di soprusi, di iniziali alleanze e di muri di demarcazione che quasi subito gli italiani innalzano contro i neri per distinguersi da loro, in un momento in cui quel confine è ancora incerto e la paura di entrare a far parte della zona “sbagliata” è forte. Lo spazio è minimale, come anche le azioni. Berti è in scena con una chitarra e sta quasi sempre in proscenio; alle spalle un tavolo con dell’acqua illuminato dall’alto. Solo per una volta vi si avvicinerà, fermandosi un istante, per poi tornare in proscenio a farsi travolgere dal turbinio del dire. Con la chitarra tra le braccia racconta attraverso le canzoni come anch’esse abbiamo influito nel portare avanti una storia alternativa, quella costruita dai bianchi che è poi diventata la sola ad essere tramandata; i canti popolari si mischiano ai brani jazz più famosi e l’inglese dei testi utilizzati all’italiano per essere tradotti direttamente in scena.

La visione di questa storia, distante da noi solo nel tempo e nello spazio, è necessaria per prendere le distanze dalla nostra, e dal presente, e per guardarla attraverso le storie di altri, più lontane ma che sono le stesse. Per gettare nuova luce su chi siamo e da dove veniamo non resta che «studiare», come dice Berti, citando durante l’incontro post-spettacolo le parole dello scrittore afro-americano James Baldwin, «studiare per non fare come loro» e per riuscire a oltrepassare quella linea del colore ancora netta, abbattendo i muri artificiali che si sono innalzati tra i differenti popoli che abitano il paese americano, e che oggi sembrano diffondersi e resistere più fortemente anche nel resto dell’Occidente.

Das Weinen (Das Wähnen) di Christoph Marthaler. Un dispositivo naturalista senza rappresentazione che rivela la metafora del nostro presente

Ph Gina Folly

Das Weinen (Das Wähnen) [Il Pianto (Il Pensiero)] è lo spettacolo del regista svizzero Christoph Marthaler, presentato in prima italiana al Teatro Arena del Sole di Bologna.

Il lavoro si basa sulla messa in scena dei testi contenuti nel libro Das Weinen. Das Wähnen (Tränenmeer 4) (Weeping. Imagining Sea of tears 4) regalato a Marthaler dal suo autore, l’artista visivo, poeta e scrittore Dieter Roth, alla fine degli anni Ottanta.

Das Weinen (Das Wähnen) è il risultato di un match interessantissimo fra due figure simili sul piano della concezione artistica. Se infatti Dieter Roth è conosciuto come uno sperimentatore interessato alla processualità creativa e allo sviluppo dei formati seriali (fra le altre cose, ad esempio, è stato in contatto con realtà artistiche delle neo-avanguardie come Fluxus), all’uso di nuove tecniche e materiali (sia nel senso della materialità del quotidiano come pasta, muffe, cioccolata, sia nel senso della ricerca sull’uso dei materiali tecno-visivi come proiettori, monitor, videocassette), alla creazione di libri d’artista intesi come libri-oggetto, poesie intrecciate con i disegni verso nuovi formati narrativi e pittorici, Christoph Marthaler è compositore e regista conosciuto per un teatro musicale e documentario senza testo, per la creazione di spettacoli iconoclastici, sarcastici, che disvelano i luoghi comuni e gli aspetti risibili dell’universo piccolo-borghese (basti pensare, ad esempio, a Groundings spettacolo di denuncia politica del 2003 dedicato alla Svizzera contemporanea).  

Ph Gina Folly

Con Das Weinen (Das Wähnen) Marthaler lavora dunque sull’opera scritta di Roth, che si basa su creazioni linguistiche – prevalentemente in tedesco ma anche in inglese, francese e italiano – senza significato. Partiture sonore, a volte ripetute e intercalate con momenti musicali, cantati, ritmati dagli oggetti e dai movimenti delle bravissime performer e dal performer in scena e dagli oggetti-recitanti (come il dispenser dell’acqua) che sono fra le trovate più divertenti dello spettacolo.

L’azione si svolge in una farmacia in cui succedono cose che non vanno interpretate ma accolte nella forma che Marthaler costruisce con le parole, le assonanze linguistiche e le sonorità delle lingue parlate e cantate in scena. Ed è proprio in un dispositivo che crea il cortocircuito tra la scenografia naturalista, della farmacia con i suoi scaffali, banconi, cassetti e medicinali, e l’assoluta anti-rappresentabilità del testo che va vista la potenza – anche intrattenete – di questo lavoro.

Ph Gina Folly

Nella scena finale l’attore in tunica bianca trasporta a fatica la croce al neon che è sì l’insegna della farmacia ma è anche un richiamo alla via crucis. Un’ultima puntata ironica che però fa venire un dubbio, porta a fare un collegamento fra la lettura di un bugiardino sconclusionato e contraddittorio su cui abbiamo riso poco prima e le medicine scalzate fuori dagli scaffali dalle “farmaciste” in una delle scene conclusive. Che sia una metafora di questi nostri tempi insensati, dove la malattia e la cura, i farmaci e la fiducia o meno che vi riponiamo sono una parte ormai onnipresente della nostra quotidiana via crucis?