In viaggio con Federica nel Video Walking Venice di Rimini Protokoll

Ospito con molto piacere l’articolo di Federica Timeto, che sarà pubblicato sulla rivista duellanti n. 74, Dicembre 2011, perché riguarda uno di quei casi della spettacolarità contemporanea che riescono ad affondare talmente bene nella nostra contemporaneità da poter diventare dei casi emblematici. Di studio, certo, ma anche occasioni utili per percorrere le possibilità dell’esperienza spettatoriale a partire dal mutato senso di posizione nella comunicazione che l’ambiente comunicativo in cui stiamo comporta. Leggeremo di seguito le note dedicate da Federica a Video Walking Venice (Biennale teatro di Venezia) di Rimini Protokoll, compagnia che attraverso la concezione del reality trend riesce a lavorare in maniera efficacissima sul rapporto fra finzione e racconto di realtà, coinvolgendo attori non professionisti e pubblico in un gioco che è teatrale senza essere rappresentazione nel senso rigido del termine. Proprio per questo un evento di spettacolo può essere anche un modo per compiere un viaggio, alla maniera metaforica e complessa di cui spesso ho parlato in questo spazio, e per osservare l’immaginario performativo all’opera.

La prima volta che ho partecipato a Video Walking Venice (VWV, 2011) dei Rimini Protokoll, esito di un laboratorio teatrale coordinato da Stefan Kaegi durante l’ultima edizione della Biennale Teatro, quando ci hanno dato le istruzioni prima di iniziare, dicendoci di lasciare borse e giubbotti sulle sedie, ho chiesto quanto lontano andassimo una volta usciti dalla stanza in Ca’ Giustinian in cui ci era stato dato appuntamento, per registrarci e prendere gli iPod video che ci avrebbero accompagnato durante il percorso. Cominciava a fare freddo in quei giorni, così pensavo che, forse, avrei fatto meglio a tenere addosso il giubbotto durante la mia passeggiata video-guidata. Alla risposta che le camminate in esterno sarebbero durate al massimo cinque minuti, ho pensato che avrei anche potuto lasciare tutto sulla sedia, così da essere più libera nei movimenti. Ovviamente, stavo già domandandomi incuriosita come una passeggiata augmented potesse comprendere dei percorsi così brevi, così poco “walking” e così poco all’aperto. A darci le istruzioni, e aiutarci in caso di difficoltà tecnica durante l’ascolto delle registrazioni – l’ho capito dopo un po’- erano alcuni dei ragazzi che avevano partecipato al laboratorio con Kaegi, gli stessi ad aver creato ognuno uno dei 14 video che avrebbero accompagnato i partecipanti durante VWV. Per cominciare, ci saremmo seduti su una delle sedie di plastica bianca poste di fronte a un grande specchio, su ognuna delle quali avremmo trovato un iPod numerato con delle cuffie da indossare e azionare tutti insieme, al via, una volta raggiunta la postazione all’interno della stanza segnalata dal numero corrispondente. Il video ci avrebbe poi guidato in un percorso di cinque minuti al termine del quale avremmo risistemato l’iPod nella posizione iniziale e saremmo passati alla postazione successiva.

Quel giorno ho iniziato con l’iPod numero 7, perché tanto nelle narrazioni non c’era alcuna sequenzialità, in un angolo della stanza vicino a un grande tavolo di legno grezzo. Dato che sono arrivata solo fino al numero 13, un paio di giorni dopo ho rifatto il percorso per poter “coprire” le postazioni mancanti, dalla 14 alla 6. Ascoltando le registrazioni video, le voci dei partecipanti al laboratorio di VWV mi hanno portato a inginocchiarmi, giocare con degli orsetti di peluche, farne strage, leggere una mappa, indossare una giacca di scena, sparpagliare semi di granturco sul pavimento, cercare Goldoni gridando a squarciagola, guardare le crepe sul muro di un vicolo, attraversare la trasparenza di un vetro, riflettermi in una cornice vuota, accendere un bastoncino d’incenso, nascondermi dietro a un paravento di carta, mangiare una caramella, leggere una dichiarazione d’amore, guardare il cielo, sentire l’odore dell’acqua sul molo, aspettare un amore impossibile. Indicazioni minime, fortemente personali e talvolta anche banali, eppure, forse anche per questo, facilmente condivisibili. Giocate prevalentemente in interno, all’interno di uno spazio piuttosto neutro e anonimo se non per le indicazioni di scena – ovvero gli appunti del laboratorio – scritte coi gessetti colorati: uno spazio qualsiasi, solo provvisoriamente “teatrale”, continuamente rimediato dall’alternanza, richiesta dai movimenti stessi dei partecipanti, tra uno sguardo al luogo sullo schermo e uno sguardo al luogo (appena) schermato.  Eppure abbiamo camminato pochissimo. E allora mi sono chiesta: perché questo titolo?

Come ho già accennato, ho potuto fare il percorso due volte a distanza di due giorni. La prima volta eravamo tantissimi, e molti hanno dovuto rinunciare perché VWV è pensato per quattordici spettatori soltanto. La seconda volta eravamo stranamente in otto, sicché alcune postazioni sono rimaste vuote. E infatti la seconda volta ho vissuto un’esperienza completamente diversa: ascoltavo ed eseguivo le istruzioni, certo, ma qualcosa mancava. Mancavano alcuni partecipanti, e quei vuoti mi davano la sensazione di muovermi sopra a una tela bianca di cui sentivo il supporto rigido sotto i piedi, piuttosto che dentro una scatola che, come invece la prima volta,  avvertivo allo stesso tempo intorno ma anche dentro di me. Come dire, restava solo la finzione, seppur scarnificata, senza l’esperienza (della finzione stessa), e l’oggetto tecnologico  nella banalità del suo funzionamento, senza l’interfaccia. La prima volta, in effetti, avevo visto soprattutto me guardarmi intorno. Me guardare gli altri, toccarli, interpellarli. La seconda volta vedevo il pavimento, le pareti, e il mio iPod. Non c’erano gli altri a guardare me guardare loro.

Mi era mancato l’incontro. È stato allora che ho davvero capito perché videowalking. Insomma, è necessario muoversi fisicamente per muoversi? O il movimento non è piuttosto una questione di relazioni, di scambi conversazionali, di esperienze condivise in cui lo spazio, qualsiasi spazio, dunque anche uno spazio qualsiasi, fa sì che un’esperienza teatrale possa dirsi site-specific solo perché anche relation-specific? Pur nella sua natura laboratoriale e dichiaratamente provvisoria, infatti, VWV prevedeva diversi momenti di interazione fra i partecipanti che riproponevano gli incontri fra i percorsi sviluppati durante il laboratorio, i quali, essendo tutti i video registrati contemporaneamente, finivano per intrecciarsi, lasciando che tangenze previste o inattese si combinassero di continuo. A scandirli erano delle minime indicazioni registiche, come la richiesta di fischiare o l’avvio di una musica, o la chiusura davanti allo specchio ritmata da un “pam pam” con schiocco delle dita a cui tutti erano invitati una volta tornati ai loro posti.

Prendiamo ad esempio uno spettacolo come  Call Cutta (2005): sperimentato come un tour nella città di Berlino, nel quale lo spettatore riceveva istruzioni da un operatore di call center sul suo telefono cellulare, è si è trasformato poi in Call Cutta in a Box (2008), uno spettacolo in cui gli spettatori siedono nella stanza di un ufficio, ognuno di fronte al proprio terminale, instaurando con l’operatore del call center uno scambio più intenso, un viaggio più reciproco anche se immobile, rispetto a quello possibile attraverso un telefono cellulare. E quando anche in Cargo Sofia (2006), gli spettatori viaggiano davvero dentro a un camion guidato da due camionisti bulgari che narrano i luoghi del loro quotidiano, più dell’itinerario effettuato importa il racconto dei luoghi che acquistano senso e vengono attraversati solo nel momento in cui l’incontro e lo scambio generano movimento. Così, anche all’inizio di Bodenprobe Kasachstan (2011), lo spettacolo presentato dal gruppo alla Biennale Teatro insieme al workshop, gli “attori” sul palco si muovono quasi ossessivamente stando tuttavia fermi, chi su una cyclette, chi su un tapis roulant, chi scalando una montagna di feltro grigio con delle racchette da sci. E nel frattempo, raccontando le loro storie di migrazione fra Russia e Germania  e i loro diversi legami coi  flussi del petrolio proveniente dagli oleodotti kazaki, animano una geografia mobile di cui altrimenti resterebbero solo delle linee mute su una carta geografica (presente in scena e pian piano oscurata).

La scelta di far svolgere VWV  prevalentemente in interno, allora, appare coerente con l’idea di un teatro in cui lo spazio, quello rappresentato al pari di quello esperito, non preesiste a chi lo esperisce, ma si costituisce attraverso gli incontri e il racconto di questi incontri. In VWV, Venezia non è né il contenitore per una passeggiata turistica, né il fondale per un divertente giochino video tecnologico; non la scena fissa su cui tracciare dei segni per far muovere gli attori, ma il segno stesso che si traccia man mano che  a raccontarlo, e ad “informarlo”, sono gli attori stessi che ne diventano in questo modo consapevoli. Se mancano le persone non sono possibili gli incontri, e, parrebbero dire anche i Rimini Protokoll, non è possibile nemmeno il teatro, per il quale l’esperienza teatrale inizia e poi “scorre” e “galleggia” letteralmente nella conversazione fra persone, come ha affermato qualche anno fa Kaegi in un’intervista. Per lo meno non è possibile un teatro che, come quello dei Rimini Protokoll, è basato sullo scambio continuo, che può essere movimento fisico, ma è anche e soprattutto movimento di voci e idee che passano tra i corpi degli spettatori e i corpi degli “attori”, rimescolandosi di continuo. Ogni spettacolo dei Rimini Protokoll nasce da un lungo lavoro preliminare basato sugli incontri con le persone. Sono quegli stessi attori non professionisti che poi vanno anche in scena, ma che inizialmente sono considerati gli “esperti” perché possiedono delle competenze che informano le loro vite e  il loro modo di guardare, e sanno e vogliono comunicarle. Ecco perché anche l’aspetto politico  e civile del teatro dei Rimini Protokoll non consiste soltanto nei temi trattati – la globalizzazione e i movimenti di cose e persone che diversamente vi si collegano -, ma soprattutto nel modo in cui le informazioni passano, costruendo incontri, raccontando esperienze, instaurando scambi. Federica Timeto

Bye bye viaggio. Incontri speciali per l’epilogo della “mia” Sociologia del turismo

Si chiude un ciclo per me, quello che in questi anni grazie al corso di Sociologia del turismo, a certi suoi studenti e agli incontri con alcuni ospiti di particolare riguardo (oltre ai seminari di Roberta e Giovanni da cui ho imparato un bel po’ rimando ad esempio qui , qui e qui), è stato caratterizzato dallo studio sul viaggio e il suo immaginario. E dall’interesse che si è poi rafforzato per questi temi e di cui, grazie anche alla partecipazione ad alcune ricerche del LaRiCA, ho cercato di dar conto principlamente in questo blog e nel volume In viaggio. Comunicazione, immaginario e pratiche del turismo contemporaneo.

Sono quindi contenta che mi accompagnino alla chiusura del corso gli ultimi due ospiti cui tengo molto.

Lunedì 19 gennaio 2010, alle ore 11.00 Pier Pierucci, direttore creativo di Aquafan e figura cui noi riminesi uderground siamo molto riconoscenti, si confronterà con i pochi ma interessati studenti, su il senso di quei “segnali deboli” che si fanno percepire, o meglio che certi sguardi attenti possono cogliere, in uno spazio terzo (?) come Aquafan. Non solo offerta di svago quindi ma immaginari emergenti che possono essere carpiti e magari capiti nei luoghi “sacri” nel senso di “separati” del divertimento. Come LaRiCA abbiamo alle spalle una bella esperienza di ricerca, che abbiamo presentato e che sarà pubblicata a breve.

Martedì 20 gennaio, sempre alle 11.00, Monica Domeniconi – che guarda caso abbiamo conosciuto all’ultimo convegno di Sociologia Visuale dedicato alle declinazioni dell’idea di paesaggio – ci permetterà di riflettere ancora sull’immaginario e sull’identità dei luoghi a partire dall’iconografia del territorio irlandese. L’immagine qui sopra rimanda al lavoro di Sean Hillen, che gli studi di Monica mi hanno fatto conoscere. La tradizione del collage unita alla pratica del fotomontaggio e del “cut&paste” trova in questo artista, e nelle rappresentazioni usate anche per le campagne promozionali per l’Irlanda, un esempio interessantissimo di affrancamento dalle maglie stringenti del rappresentazionismo verso l’immaginario performativo e verso un’esperienza sempre possibile altrimenti delle immagini.

Il cinema continuo. O gli avatar immaginari a LucaniaLab

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Siamo a un punto in cui, più o meno consapevolmente, si dà per scontato il fatto che il viaggio sia la metafora migliore dell’immaginario collettivo contemporaeno, meta-territoriale e diffuso dei territori mediali. Sia nei contesti iconografici dei grandi media sia nei mondi on line dove si concretizza l’immaginario performativo del viaggio: come esperienza incarnata dei luoghi.

E’ un po’ così che succede nel museo inaugurato ieri – 24giu09 – nella land di Lucania, su progetto di Asian Lednev e realizzato daTonino Lane, sempre nell’mbito delle attività promosse dall’Apt della Basilicata, di cui diamo resoconti più puntuali nelle pagine di Basilicata Travel.

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All’inaugurazione, cui hanno partecipato molti avatar amici e qualcuno nuovo per me, Asian e Joannes Bedrosian hanno introdotto il progetto museale che – in questa prima fase di realizzazione – si avvale delle immagini messe a disposizione su Flickr dalla stessa Apt. In questo modo le foto che scorrono come fotogrammi nel nastro trasportatore che sostanzia l’idea del cinema continuo, non solo corrispondono alla rimediazione cinematografica che – proprio perché rimanda al linguaggio del cinema – serve a produrre immaginario, ma permettono un’ulteriore esperienza di tali immagini.

SecondLife consente di sperimentare forme, innovare le dinamiche di fruizione delle immagini stesse e infatti il cinema continuo – ma potremmo dire allora con Youngblood “espanso” – non è fatto per la visione frontale ma per essere attraversato, sorvolato, viaggiato, narrativazzato in proprio. Questo effetto straniante costituisce il fascino di una installazione espositiva (e turistica allo stesso tempo) che tiene insieme l’immagine tradizionale, rappresentazionista e “realista”, con il modo inedito di costruire il percorso di fruizione a partire da sè, dalla propria abilità e competenza e a volte dal lag della land e dai limiti del proprio computer!

E’ interessante perché realizza molte delle dimensioni che nella prima ricerca su L’esperienza del territorio in SecondLife avevamo identificato e provato ad esporre in alcune linee guida che mi sembra di ritrovare.

Mi piace questo museo perché non rinnega la qualità visiva dei luoghi, e della Basilicata che è così bella, ma la rende visionaria. Se Edgar Morin scriveva un saggio di antropologia sociale dal titolo Il cinema. O l’uomo immaginario oggi possiamo tenere d’occhio una altrettanto intrigante dinamica antropo-sociale: quella del Cinema continuo e degli avatar immaginari.

Una tribù che balla. Le feste di LucaniaLab fra innovazione e antropologia

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Sono riprese le attività di LucaniaLab in SecondLife. Come da tradizione con una festa, a tema nipponico contemporaneo, con Gianky dj. Tanto per farsi un’idea Liu sfoggiava un abito della stilista in SecondLife Eshi Otawara.

Una festa è un buon modo per riattivare un territorio – anche del Metaverso – proprio per la connotazione antropologica di una performance culturale che ha radici e funzioni antiche. Forme collettive del piacere, tanto per scomodare Horkheimer e Adorno, dove i partecipanti si fanno spettacolo a se stessi (e stavolta scomodiamo Rousseau).

Certo si tratta di forma più che di contenuto, ci mancherebbe altro, però l’obiettivo è quello di dar vita a un luogo, a una land di cui sperimentiamo i linguaggi dell’innovazione. Le attività rientrano nel più ampio progetto di comunicazione del territorio e di ricerca voluto dall’Apt della Basilicata. Il team è quello del lavoro su L’esperienza del territorio in SecondLife che viene ripreso e ampliato (Giuseppe, Giovanni con Valentina e me, Fabio e Tonino).

Quello che serve per la “vera” anima di ogni territorio sono le persone. Quindi, anche se ancora in pochi, giovedì 7 maggio è stata una serata importante e divertente. Il che non guasta.

Giovedì 14, cioè domani, si replica. Tema della festa “fantascienza pop”, alla Barbarella per intendersi sull’immaginario. Avatar, accorrete numerosi!

Del non confondersi. Osservazioni di viaggio di una turista speciale

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Il seminario Turisti, viaggiatori, volontari. Guadagnarsi il punto di vista dal basso tenuto da Laura Caslini nel corso svuotato di Sociologia del turismo – ieri 6 aprile 2009 a Pesaro – è stato per me e come immagino per gli studenti presenti, una buonissima occasione per riflettere sui temi centrali del turismo contemporaneo. Con lo stile consueto, per chi conosce Laura/Deneb, miscela di levità e raffinatezza profonda di pensiero, il racconto dell’esperienza di turismo sostenibile di Terra e libertà (progetto di volontariato estivo della ong IPSIA) ci ha fatto capire come il viaggio oggi abbia più che mai a che fare con la teoria dell’osservatore.

All’interno di una cornice che tiene insieme la condizione del tempo libero come luogo di espressione di scelte e vocazioni, la dinamica della scoperta con l’importanza delle relazioni (con il gruppo dei partecipanti, con i bambini coinvolti nei campi estivi e di gioco organizzati dai volontari e dai responsabili del campo, con i locali palestinesi e israeliani, dei Balcani e degli altri paesi  in cui opera il progetto) senza dimenticare la visita ai luoghi e il divertimento che deve caratterizzare una vacanza, il carattere principale di questo tipo di esperienza sta nella possibilità di sperimentare un modo diverso di stare in un luogo. Soprattutto quando, come in questo caso, si tratta di un luogo che non è primariamente un sito turistico. Ma ovviamente guardabile come tale a partire da una certa applicazione della prospettiva esterna di osservazione.

Il che significa – seguendo un po’ a mio modo la traccia del ragionamento di Laura – 1. punto di vista della relazione: entrare nel quotidiano ma senza dimenticare lo statuto dell’osservatore perché, sarebbe d’accordo Urbain, il turista ha il privilegio di cogliere cose che i locali non vedono e nella fattispecie attraversare facilmente i confini dei territori occupati e i posti di blocco a differenza degli autoctoni ovviamente. Quindi: varcare soglie, zone liminali; 2. tempo condiviso che permette di cambiare il tuo punto di vista; 3. double coding: per cogliere l’esperienza di viaggio come forma del riferimento interno dell’osservatore che con-fonde realtà e percezione. Dice Laura “la stessa cosa succede quando si vedono i luoghi: vediamo in funzione di quello che sappiano, i nostri riferimenti culturali e soggettivi, quindi l’esperienza di uno differisce per forza da quella di un altro” per cui il senso sta nel “percorrere l’esperienza in funzione della propria identità: lo sguardo turistico è uno sguardo che porta ricchezza – anche perchè – dal punto di vista dell’altro, l’altro sei tu”.

Il 60% di chi compie questo tipo di vacanza la ripete e nel tempo l’età dei partecipanti si alza. E continua nei social-network. O meglio grazie agli adolescenti che utilizzano diffusamente Facebook si ridefinisce e mantiene la rete di relazioni deterritorializzata e rigiocata nei territori vocazionalmente. Non tanto ideale continuazione del viaggio quindi, quanto, piuttosto possibilità di tenere viva la relazione quotidiana attraverso il network, se non ho capito male la riflessione di Giovanni che ha partecipato all’incontro (grazie anche a Roberta e Lella Mazzoli).

Ma è anche questo il progetto su cui Laura lavora: mettere in atto un pensiero comune che strutturi questo tipo di esigenza – anche espressiva – dimostrata in particolare dai ragazzi un po’ più grandi, alfabetizzati ai media e ai loro linguaggi.

Il carattere “lasco” della rete consente di conciliare la gratuità e l’interesse a pratecipare, ma anche ad uscire e rientrare sulla base di esigenze dei singoli perché tanto l’impalcatura sistemica reggerà.

Attraversamenti e forme dell’abitare ma sempre in Motus

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Motus è già di per sè metafora del flusso, della ricerca verso l’esterno, verso il “fuori”. Nella teoria e nella pratica del vissuto stesso della compagnia e dei suoi fondatori – Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande – tutto questo diventa: viaggio.

Un viaggio che, pur con l’intenzione di ragionare sulla produzione più recente, è partito da Catrame perché il punto di partenza sta nel riflettere sulle forme del fare spettacolo, per stare dentro al teatro visto con gli occhi (e con il corpo) del cinema. L’attraversamento poi è quello della filosofia e della letteratura, Deleuze, Ballard e molto altro, ma soprattutto dei linguaggi mediali. La messa in scena dello sguardo, delle forme del guardare e dei punti di vista.

E’ ancora la questione della problematizzazione dello spettatore ad essere centrale. Costretto ad un lavoro, percettivo e cognitivo, lo spettatore è messo nella condizione di scegliere perciò di ridare valore alla differenze, che è poi una cosa che vale per la vita: riflessività della performance. La fase è quella del video in scena, dell’interrogarsi sul “come far interagire un essere vivente (un’espressione che noi amiamo per simpatie bio-cognitive!) con lo spazio/tempo teatrale. Il che ha portato a Twin Rooms e alla stanza digitale.

Si chiedono cosa sia il teatro, e pur non amandolo, ne esplicitano la funzione: come istanza che si confronti con il reale e con il contemporaneo. Dove quest’ultima è l’altra, anzi la vera, parola chiave dei due incontri (l’altro con Silvia Bottiroli) e del corso che li ospita.

Poi c’è lo sguardo contemporaneo di Pasolini, figura emblematica di un paradosso: il vissuto personale che fa i conti con il ruolo dell’intellettuale e dell’artista chiamato a svelare le ombre della società italiana del boom economico per ritrovarne, nella nostra appunto, dei residui ancora attivi. Il lavoro sta per Motus nell’oscillare dalla necessità di essere didascalici e puntuali, per omaggio e rispetto (mi pare) ai riferimenti teorici, e licenza creativa (prendere e rielaborare suggestioni, permutare e ricombinare in forme nuove). Dal testo Petrolio allo spettacolo Come un cane senza padrone, da Teorema il film fino a L’ospite con la sua macchina scenica imponente. Trasformare la letteratura in altre forme. Ad esempio nel video e nella grafica: dal Beckett di A place [that again] e Rumore Rosa, a Le lacrime amare di Petra Von Kamp di Fassbinder. L’urgenza espressiva è quella di liberarsi per un po’ dalla sovrabbondanza e dalla saturazione percettiva del video per tornare alla grafica.

L’immaginario – come comunicazione per immagini – va visto attraverso l’incursione estetica nel sociale che questo tipo di teatro elabora e rielabora. Ma l’urgenza del contemporaneo è anche quella dei suoi temi.

E’ la tappa di Ics (X). Racconti crudeli della giovinezza e di Crac, azzeramento per rimettersi in moto. Ne abbiamo parlato diverse volte in relazione alla problematica generazionale e rimando a quei post. Qui c’è da sottolineare il metodo di lavoro che consiste nel coinvolgimento degli attori nella realizzazione stessa dell’idea drammaturgica. E questo riporta alla messa a tema e alla sua necessità di essere “reale”. Non riproduzione fedele di qualcosa che può essere solo osservato e costruito come risultato dell’osservazione, ovvio, ma come sguardo dall’interno: come dire, e semplifico moltissimo, parlare delle nuove generazioni, attraverso la lente di un adulto, viene meglio se al giovane è data voce.

Nella strada, nei centri commerciali, negli scenari urbani, dei marciapiedi, che prendono il post delle strade del viaggio californiano, del deserto, dei motel. La fascinazione per le architetture delle periferie di centri urbani (Valence, Halle… ) non solo rimanda alla dimensione estetica e dell’arte visiva, che pure è cifra importante dell’opera tutta di Motus e che ne qualifica l’immaginario (anche nei termini del contemporaneo tanto per dire), ma alla nuova geografia dell’abitare: i media, da un lato, e le periferie che sono più vitali di quel che pensiamo.

Uno spunto da Giovanni: si osserva lo spostamento dal centro della metropoli novecentesca con i suoi luoghi per l’intrattenimento (il cinema), centro anche della vita e dello sviluppo della civiltà moderna, alla periferia urbana di un centro che ha perso la sua funzione aggregatrice (per le idee, per la pubblica opinione). Che poi questo per noi vuol dire anche passaggio ai luoghi della rete per l’emergenza e l’elaborazione di idee, opinioni, discorsi, per la circolazione di contenuti nuovi.

Visions of China.

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Un giretto, in compagnia di Martha, all’allestimento di Marco Manray, sempre ad Arena Second Life.

Pratica e immaginario del viaggio dove qui la ricerca di altrove, che già realizza la sua espressione più compiuta in SL, si sposta su un altro Metaverso – quello di HIPIPI – per essere raccontato su Second Life.

Andata e ritorno, dentro e fuori. L’altrove è qui. Meta-territorialità dell’immaginario. Mi sembrano ancora una volta queste le parole chiave, e la cosa mi conforta parecchio (si fa per dire).

Avevamo colto il senso della ricerca di Manray nella tenda pensata e dedicata al suo lavoro da Fabio Fornasari a Rinascimento Virtuale. E le tende le ritroviamo ad Arena come supporto alle belle immagini esposte, insieme alla Moleskine. Un omaggio, mi sembra di poter dire, in continuità con il progetto avviato dalla mostra di Firenze.

E poi c’è il contenuto. Le visioni cinesi. La mia memoria mediale e generazionale mi porta senza altrimenti possibili qui.

Connessioni.

http://www.flickr.com/photos/burnlab/2420400523/in/set-72157603425484823/

Siamo quasi allo slogan, sta di fatto che un’ulteriore prova del fatto che il viaggio sia la metafora più compiuta dell’immaginario meta-territoriale e diffuso (appunto nei territori dell’esperienza sensoriale-mediale) è data dal progetto-performance Chanel Mobile Art.

Le connessioni sono tutte da rintracciare nelle affermazioni di Zaha Adid sullo spirito del padiglione-container giocato sul coinvolgimento degli spettatori partecipanti, nella scelta degli artisti e dei lavori presentati – a loro volta connessi nella ricerca “convergente” di linguaggi, poetiche, temi, letteratura – nel transito Hong Kong, Tokyo, New York, Londra, Parigi, nei video, nelle immagini e nelle estetiche urbane, nel fashion e nelle borsette di Chanel, nel marketing e nella figura di Fabrice Bousteau, il curatore della mostra.

 

 

Morte d’artista. Un pensiero per Pippa Bacca

Sarà che ho un’ammirazione speciale per gli artisti e per chi ama la vita avventurosa. Per le persone coraggiose. Sarà che l’idea con cui questa ragazza – non a caso nipote del grande Piero Manzoni – ha intrapreso un viaggio vestita da sposa, insieme a Silvia Moro, per realizzare la performance itinerante Brides on Tour, mi piace molto e interessa moltissimo come operazione. Mi farebbe fare le riflessioni e i ragionamenti per cui esiste questo spazio.

Però poi devo pensare a qualcosa di diverso e di tragico. Il senso di quella performance, di quell’impresa, era veicolare un messaggio di pace. Finire in quel modo, ed evito la deriva “anti-uomo” che sarei tentata di avviare, è la dimostrazione del contrario.

Nel blog le tracce di questo percorso, artistico prima di tutto, poi per la ricerca e adesso per i messaggi. Leggo ora che è stato bloccato perchè arrivano messaggi offensivi. Io il mio lo metto qui. 

Una modifica di oggi 14 aprile. Leggo che il blog è bloccato per l’arrivo di più messaggi di quanti il server riesca a tenere. Il numero di pensieri che trovo in questo mio piccolo post può darne la misura.

Viaggi in TV, e non solo. Incontro imperdibile con Patrizio Roversi

Si parlerà di viaggio e del suo immaginario con Patrizio Roversi che, come se ci fosse bisogno di dirlo, in coppia con Syusy Blady ha ideato e realizzato Turisti per caso. E creato una nuova semantica del viaggiatore in cui tutti si riconoscono un po’.  

A Pesaro, martedì 15 aprile ore 16, Corso di laurea in Comunicazione Pubblicitaria, nel mio corso di Sociologia del turismo.