Dramma storico e teatro post drammatico. I Legionari di Valters Sīlis a #sant13

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foto di Ilaria Scarpa

Legionari. Discussione con combattimento del regista lettone Valters Sīlis è uno spettacolo teatrale. Direi il più teatrale fra quelli visti durante Santarcangelo•13.

Il tema trattato è la decisione del parlamento svedese nel 1946 di estradare 168 legionari baltici su richiesta dell’Unione Sovietica. Con il ritorno di quest’ultima in Lettonia, Estonia e Lituania a seguito dell’invasione nazista dell’“Operazione Barbarossa”, i soldati furono rimpatriati. Fino alla morte di Stalin la repressione delle spinte indipendentiste e le deportazioni in Siberia furono attuate con estrema durezza (come puntualizza Nicola Ruganti da cui prendo questa efficace sintesi).

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Attraverso i due (bravi) attori in scena Carl Alm e Kārlis Krūmiņš, co-autori con Ieva Kauliņa e Valters Sīlis del testo, lo spettacolo si autodefinisce un esempio di teatro post-drammatico, dichiarando così la sua appartenenza alle forme identificate nell’ormai classico volume di Hans-Thies Lehmann e intitolato, appunto, Post dramatic theatre.

In questa categoria definitoria troviamo riassunti tutti gli elementi necessari a descrivere il mutamento interno all’arte e al teatro – dalle Avanguardie in avanti – e che con il prefisso “post” si pongono in omologia con le svolte culturali e scientifiche del post moderno e del post rappresentazionista. Infatti il teatro dopo il dramma si caratterizza per la messa a punto di un diverso rapporto con il testo drammatico o meglio per il fatto di non focalizzarsi su di esso a favore di una concezione più complessa di performance text (cit. Valentina Valentini). Un’idea che si concretizza nell’assenza di sintesi di un’opera mai davvero conclusa in se stessa, nella mancanza di gerarchia dei segni teatrali e nella loro simultaneità, nella deformazione e nel paradosso, nella centralità della presenza corporea.

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Aspetti che I legionari affronta in chiave meta-teatrale con gli attori che, senza trasgredire il patto con lo spettatore che sa sempre di vedere uno spettacolo, si rivolgono direttamente al pubblico proponendo il frame cognitivo entro cui seguirli. Attraverso domande come: “potete immaginare che dietro le bandiere della Germania nazista, dell’Unione Sovietica, della Lettonia e della Svezia, ci sia la Seconda Guerra Mondiale?”, o ancora gli attori chiedono al pubblico di immaginare che siano parlamentari svedesi che devono prendere una decisione e votare, di alzarsi in piedi per esprimersi a favore o contro l’estradizione dopo aver sentito le dichiarazioni dei membri del parlamento svedese, chiedono al pubblico di leggere delle dichiarazioni mentre in altri due casi basta il contributo silente di due spettatori chiamati in scena: una ragazza che fa la moglie di un soldato prima e di un ragazzo che sarà il vecchio re che presiedeva all’assemblea parlamentare dopo…

Fisicità potente e sfrenata dei due performer, recitazione multi-lingua (anche in italiano), fasi recitate che si alternano con le fasi meta in cui gli attori parlano dello spettacolo con il pubblico, contribuiscono a comprendere lo spettacolo dentro un paradigma più adatto alla connotazione dell’epoca culturale in cui viviamo.

Dal punto di vista dei contenuti infatti il lavoro pone lo spettatore di fronte a una questione storica e umana che resta aperta e problematica, senza risposte definitive del tipo giusto/sbagliato, mentre sul piano della forma rende evidente che l’osservatore è sempre parte di quello che osserva, costruttore dei significati e del senso della sua esperienza. Che poi è anche un modo per condividere le responsabilità della storia.

Educazione e televisione nel teatro riflessivo di Fanny & Alexander. Discorso giallo a #sant13

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foto di Enrico Fedrigoli

Discorso giallo – fra gli spettacoli in programma nella prima settimana di Santarcangelo 13 – è la seconda tappa del progetto Discorsi – articolato in 6 spettacoli e 6 radiodrammi (fra cui Giallo. Radiodramma dal vivo durante il Festival) – con cui Fanny & Alexander indaga sulle forme del discorso pubblico e delle sue declinazioni – politico, pedagogico, religioso, sindacale, giuridico e militare – associate ad un colore-simbolo. Se dunque il grigio è associato alla politica nel “primo episodio della serie”, Discorso Grigio appunto, il giallo viene qui attribuito all’educazione.

I colori dei discorsi sono delle bandiere emblematiche da un lato, dall’altro sono i colori di una lingua denotativa non immediatamente decifrabile. Giallo nei simboli umani è il colore del divieto e della coercizione (strisce gialle, cartellino giallo, semaforo giallo); dall’altro se dici giallo vedi la luce, il sole, l’infanzia. Ma giallo è anche acido, abbagliante, doloroso (Chiara Lagani)

Come ambito dell’esperienza individuale e collettiva l’educazione per F&A non riguarda esclusivamente le tradizionali agenzie deputate alla formazione dell’individuo, della sua crescita e della sua identità, ma pertiene anche al sistema dei media e in particolare alla televisione. Quest’ultima è intesa infatti come un ambiente di socializzazione e di messa a punto di una forma retorica, così come succede per il Discorso Grigio della politica, di straordinaria efficacia.

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Il dispositivo drammaturgico può essere descritto, in prima battuta, come la messa in sequenza di modalità e stili espressivi di tre personaggi televisivi che nella storia spettatoriale e generazionale di F&A possono essere considerati gli emblemi sia dei processi di trasformazione della società, sia di quella televisione che li racconta.

È Chiara Lagani a dare corpo in scena alle tre figure che permettono di ricostruire la storia sociale della retorica educativa di matrice televisiva. La prima è quella di Alberto Manzi, meglio noto come il maestro Manzi della trasmissione Non è mai troppo tardi, andata in onda su Rai1 dal 1959 al 1968, espressione di quella stagione paleo televisiva che dichiarava apertamente la sua vocazione pedagogica. Una missione che cambia totalmente registro negli anni ottanta con la messa a punto dei linguaggi neo-televisivi e di puro intrattenimento di cui Piccoli Fans (su Rai2 dal 1983 al 1984), con la conduzione di Sandra Milo, è un esempio particolarmente compiuto per poi arrivare a una nuova forma della caratteristica pedagogica incarnata, con tutta l’ambiguità che il territorio mediale e televisivo riesce ad esprimere, da Maria De Filippi e dal suo Amici.

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Ecco allora che Discorso Giallo si presta ad essere considerato un ulteriore elemento di quello che, come già ho avuto modo di sottolineare, può essere definito un teatro riflessivo, propenso cioè ad usare le istanze della contemporaneità sia a livello estetico sia di contenuti con grande consapevolezza. Per questi motivi si pone sulla linea di un teatro sociologicamente interessante, capace cioè di fornire dei parametri di osservazione non tanto “realistici” ma adatti a costruire quei meta-commenti sul mondo, il nostro, indispensabili alla qualità riflessiva della performance.

Di questo e di molte altre questioni ho avuto il piacere di parlare con Chiara Lagani in una lunga e illuminante conversazione/intervista di cui qui riporto lo stralcio dedicato alla definizione di Discorso Giallo come esempio di teatro riflessivo.

LG:Discorso Giallo sembra avere tutte le caratteristiche utili alla definizione di “teatro riflessivo”, ossia all’utilizzo di un concetto che, riconoscendo la riflessività come qualità che il teatro ha da sempre, serve a connotare la tendenza di una parte del teatro contemporaneo a confrontarsi con la “realtà”. Volevo partire da qui: se davvero esiste, da dove nasce quest’esigenza nuova?

CL: Devo dire che mi colpisce la scelta della parola “riflessivo”, perché recupera un significato quasi etimologico del teatro e anche del nostro progetto Discorsi. Ognuno dei discorsi, al di là degli esiti e delle forme-colore differenti, manifesta esplicitamente la volontà di fungere da specchio per lo spettatore, di riflettere, anche solo per un attimo, l’immagine di una collettività che in esso si rivede, anche in modo orribile, perché si tratta pur sempre di un’indagine sulla tossicità del contemporaneo. Un aspetto che in Discorso Grigio è già evidente perché mette in scena, attraverso il corpo di un attore volti, parole, retoriche e modi della politica degli ultimi vent’anni che in qualche maniera rispecchiano un sistema culturale nel quale siamo tutti coinvolti.

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Discorso Giallo parla dell’immaginario televisivo, di cui noi tutti siamo profondamente imbevuti, al di là della nostra volontà. Le figure che attraversano i corpi degli attori sulla scena vengono dal mondo della politica, dello spettacolo televisivo, dunque dal nostro terreno culturale profondo e dal nostro orizzonte immaginale quotidiano. Parlano della materia di cui siamo fatti, di quel che si agita nelle parti più remote e profonde del nostro universo psichico, irrimediabilmente frammisto ai sogni, agli archetipi, alle memorie. Per cui la dicitura che hai scelto – teatro riflessivo – è come se puntasse il dito su questa volontà-capacità-possibilità del teatro di farsi specchio a partire da tanti tipi di materiale: da un testo, da un mito, dalla storia, oltre che dalla realtà (Chiara Lagani).

Un teatro a intimità connessa. Primi appunti su #sant13

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Santarcangelo 13 Festival Internazionale del Teatro in Piazza è un Festival e come tale prima di tutto una totalità, un’entità sistemica, da intendere come un tutto che è più della somma delle sue parti.

Un po’ come l’acqua, che è l’esempio più efficace di quello che le teorie chiamano un fenomeno emergente: l’acqua è una qualità diversa dalle molecole d’idrogeno e ossigeno che la compongono. Allo stesso modo un festival va inteso come fenomeno emergente e deve essere considerato nel suo complesso.

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Tuttavia un sistema è anche meno della somma delle sue parti perché le caratteristiche dei singoli elementi possono disperdersi per il funzionamento del “tutto”. L’idrogeno e l’ossigeno hanno delle specifiche qualità diverse dall’acqua che, nell’acqua vengono a perdersi… e il fatto che siano diverse significa che sono qualità né inferiori né superiori al tutto.

Questo vuol dire che al di là di alcune letture su questo Festival che ne mettono in luce criticamente i caratteri generali, la prospettiva di osservazione può anche spostarsi sulle parti e sul modo in cui le singolarità delle proposte artistiche, e le loro qualità, possono essere colte.

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Kate McIntosh – All ears foto Ilaria Scarpa

Fra i lavori visti fino ad ora – il Festival è iniziato il 12 luglio – l’aspetto più evidente e caratterizzante è quello di una certa pratica dell’intimità che non è soltanto quella dei piccoli formati cui stiamo assistendo ma una linea interpretativa per niente scontata del mutamento sociale che stiamo vivendo e che essendo in atto è più difficile da comprendere.

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Gertjan Franciscus Van Gennip – The honey queen foto Ilaria Scarpa

Il lavoro dello spettatore con se stesso e la relazione attore/spettatore – da Art you lost, a All ears di Kate McIntosh, Cristina RizzoGertjan Franciscus Van Gennip e Brian Lobel – sono luoghi di osservazione delle dinamiche dello stare insieme che stanno ridefinendo il nostro modo di intendere ed esercitare il rapporto fra pubblico e privato.

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Questa modalità è quella che da un po’ definiamo “intimità connessa”. La mia intimità è espressa in ambienti della comunicazione che sono pubblici ma non per questo si trasforma in estimità o nella oscena messa in pubblico del mio privato. Non è un caso che, in controtendenza con il solito giudizio apocalittico sui media sociali un lavoro come Purge Lectures di Lobel, Facebook possa essere trattato come ambiente ideale per la messa a punto di una drammaturgia sull’amicizia, sull’amore, ecc.

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L’intimità e l’intimismo delle performance-assolo che stiamo vedendo è forse il frutto delle mancanze – di risorse ad esempio – ma forse è anche un modo per riflettere sul mutamento in atto che riguarda la stessa intimità. Per questo anche la qualità delle parti non deve per forza essere subordinata alle esigenze del tutto.