In your face di Ateliersi: Facebook come drammaturgia del presente

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ph. Luca Del Pia

A partire dall’interesse e dalla necessità di calare la propria drammaturgia del presente nell’ambiente dei social media, Ateliersi mette a punto In your face, nuova produzione presentata ieri e in replica oggi nello spazio di Bologna.

In your face è uno spettacolo che può essere visto come articolazione del principio del raddoppiamento di realtà, ovvero l’idea per cui realtà e finzione coesistono perché l’immaginario è portatore di una “realtà” sua propria. Questo principio, che è già di per sé del teatro, si riflette nella narrativa e oggi più che mai riguarda la dimensione dei social media e della messaggistica istantanea, fra Facebook e WhatsApp.

In Your Face si ispira alla commedia del 1932 di Luigi Pirandello, Trovarsi – dedicata a Marta Abba, che è anche il nome del “personaggio” di Fiorenza Menni – proponendone una riscrittura che utilizza la lingua dei social media, contenuti, pratiche e stili comunicativi ricavati dai profili di Facebook e più in generale dalle interazioni mediate in chat e negli smartphone. Il frame dentro cui lo spettatore è chiamato a stare viene fornito da subito, quando Fiorenza entra in scena e chiede “chi di voi non ha Facebook? Perché? Chi ce l’ha? Cosa ti piace di Facebook? Cosa non ti piace?…”. Le nostre risposte così normali creano perciò quella base di senso comune e l’aspettativa da cui lo spettacolo si solleva andando tutto da un’altra parte.

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ph. Luca Del Pia

In scena ci sono un uomo – Andrea Mochi Sismondi – e una donna, la scrittrice di racconti erotici Marta – Fiorenza Menni – che interagiscono “privatamente in pubblico”, in un dialogo scandito secondo tempi, ritmi, modalità della relazione che si struttura in continuità fra offline e online, senza chiarire mai fino in fondo se lo scambio comunicativo sia sincrono o asincrono, se stia avvenendo in spazi materiali o digitali. Il rapporto tra l’io, l’identità e la sua rappresentazione (tema della pièce di Pirandello) è oggetto della negoziazione tra i due – quanto di quello che so di te è vero? – che vediamo interagire dal vivo, magari guardandosi a distanza ma con in mano i loro smartphone e Ipad così che, nel contesto dello spettacolo, possiamo immaginare che si stiano mandando un messaggio vocale o che siano in chat, mentre gli status sui profili, commenti, ecc. innescano le conversazioni e instaurano il loro dialogo amoroso. Capiamo insomma che c’è una storia fra loro, che si vedono di persona, che la loro relazione è il frutto della coalescenza fra il conoscersi e frequentarsi intimamente in una continuità di online e offline e che questa intimità finisce per riflettersi nello spazio online delle pagine Facebook diventando pubblica, con-fondendosi con altre relazioni più impersonali.

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ph. Luca Del Pia

Il che può anche produrre frustrazione e rabbia, come puntualmente succede quando lui se la prende per un racconto che Marta pubblica online in cui si riconosce e la accusa di esporre la loro intimità. Ma lei ribadisce l’unità della sua identità che la porta ad esprimersi e rappresentarsi indifferentemente negli ambienti online e offline che abita e di cui rivendica la “naturale” appartenenza. Insomma, Facebook è così: un luogo del nostro stare nel mondo, con quello che da sempre ne consegue.

Gli scambi, i dialoghi sono nel flusso dello stream di Facebook, parti di status altrui che vengono scorsi come un testo che si costruisce e intervalla con lo scorrere di immagini. Come quelle di gattini che ci vengono mostrate dagli schermi degli Ipad e che passano da immagini tenere, così diffuse su Facebook, a quelle, più inusuali, di gattini sofferenti portando il pubblico verso uno scostamento emotivo inaspettato.

Gli schermi sono anche gli elementi principali dell’impianto luci dello spettacolo, attraverso la retro illuminazione i volti dei due protagonisti sono sempre in primo piano: guardano e sono guardati.

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ph. Luca Del Pia

Dal canto suo la colonna sonora live – composta ed eseguita dal vivo da Vittoria Burattini, Vincenzo Scorza e Mauro Sommavilla – non solo scandisce le fasi dello spettacolo ma costituisce un vero e proprio elemento drammaturgico portante, che si propone in modo mai didascalico rispetto al testo, ma piuttosto come performance a sé che risuona con la scena.

È rischioso parlare di Facebook oggi. Ateliersì corre questo rischio e porta avanti la sua ricerca sui linguaggi e le forme dell’espressione popolare avviata con le scritte murarie: in fondo il wall di Facebook non è altro che un altro muro su cui scrivere. Un muro dove però entrano in gioco altre dinamiche: l’auto-esposizione, la complessità delle relazioni, il collasso dei contesti. Dinamiche relative alle pratiche d’uso di uno strumento che serve per la comunicazione.

Affidarsi alla trama narrativa di Pirandello permette ad Ateliersi di spostare la realtà di un ambiente come Facebook, che più o meno tutti condividiamo, sul piano connotativo del simbolico teatrale, come discorso drammaturgico e in ultima istanza finzionale. È in questo processo che è possibile attivare un effetto riflessivo. Il che, mi pare, è il merito principale di questo lavoro.

Lessici famigliari. Riflessività e comunicazione in due casi del “giovane” teatro

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Fra i lavori presentati (e che ho visto) nell’ambito di Trasparenze/Festival – che per me è diventato un appuntamento da non mancare (grazie a Silvia Mei) – La famiglia Campione dei toscani Gli Omini e I ragazzi del cavalcavia delle romane Industria Indipendente marcano un ulteriore campo d’azione di quello che varie volte ho chiamato teatro riflessivo, cioè attento alle istanze di “realtà”. Per farlo utilizzano il sistema “sociale” famiglia come luogo di osservazione del “sociale” e la comunicazione come processo che lo fa funzionare. Una dinamica che inizialmente riguarda le interazioni fra i suoi membri ma che poi – sganciandosi da quelle relazioni concrete ancorate a delle persone/personaggi – va a costruire una metafora di famiglia, un costrutto simbolico, astratto e universale e perciò molto adatto per pensare.

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La famiglia Campione è uno spaccato intimo, privato su una famiglia piccolo borghese come tante – campione, appunto – che svela da subito le patologie relazionali e i paradossi comunicativi che caratterizzano il mondo più vicino che ci sia. Non è un caso che questo lavoro sia il frutto di una ricerca di stampo etnografico condotta dalla compagnia su cinque comuni della provincia fiorentina e che ha coinvolto un’ottantina di persone, producendo delle tappe confluite successivamente in questa versione dello spettacolo.

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I tre (molto bravi) attori (Francesco Rotelli, Francesca Sarteanesi, Luca Zacchini) interpretano nove personaggi (più uno – Giulia Zacchini – che vedremo solo per una attimo alla fine). Una moglie un po’ arrabbiata, un ex marito in disgrazia e arrendevole, un nuovo compagno strafottente e grossolano; quattro figli: un maschio che sta sempre in casa, una figlia inconcludente che vuole aprire una gelateria a Londra ma magari anche in Italia, un’altra (anche lei frutto della prima coppia) che si è chiusa in bagno per tentare di non comunicare; un figlio, nato dalla seconda unione e molto simile al padre, in partenza per Dubai in cerca di fortuna; tre anziani nonni che, dall’alto di una vita già vissuta, dispensano perle di saggezza con lucida ironia.

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Un lessico quotidiano dalla forte cadenza dialettale, toscana, segna gli scambi di battuta fra di loro, dà forma ai personaggi, alle loro personalità e, soprattutto, mostra l’eccesso di comunicabilità – ancor più evidente quando si tenta di non comunicare – che caratterizza un contesto sociale particolare come la famiglia e le sue dinamiche. Ad esempio l’avvicendarsi delle posizioni comunicative, la loro complementarietà: il marito debole sovrastato da quello forte, anche se poi s’impone con la sua presenza e i suoi regali alla ex e ai figli. Oppure la figlia chiusa in bagno che solo apparentemente si sottrae alla comunicazione obbligando di fatto gli altri a prenderla in considerazione e a preoccuparsi per lei. Questi scambi sono scanditi dalla presenza di mele in scena, mele che vengono morse, condivise, passate e, alla fine, accaparrate dalla figlia che se le porta in bagno. Una sorta di quasi-oggetti (direbbe Michel Serres) che, passando di mano in mano, costruiscono la relazione. Perché nonostante tutto la relazione fra questi genitori, figli, fratelli, nonni, coniugi ed ex c’è, non è da negoziare, svelando di fatto la normalità di una famiglia campione allargata che ci fa pensare e sorridere della nostra.

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Altro spaccato di “realtà” e altro scenario linguistico e culturale è quello proposto da I ragazzi del cavalcavia di Industria Indipendente (Erika Z. Galli e Martina Ruggeri), in prima assoluta a Modena il 9 maggio, vincitore del Premio Giuria Popolare Dante Cappelletti 2015. Liberamente ispirato agli incresciosi fatti di cronaca che la nostra memoria mediale sostanzia nella formula dei “sassi lanciati dal cavalcavia”, lo spettacolo descrive il passare nella città di T. delle giornate del Natale 1996 della famiglia F. Lo spettacolo quindi prende dichiaratamente spunto dalle vicende dei fratelli Furlan di Tortona che in quell’anno lanciarono dal cavalcavia di Cavallosa di Tortona il masso di tre chili che uccise la neo sposa Maria Letizia Berdini.

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Quattro fratelli maschi e uno zio si muovono lungo una serie di scene costruite per quadri che, con pochissimi elementi di contesto, riescono a definire efficacemente il frame drammaturgico. Attori (Alberto Alemanno, Maziar Firouzi, Francesco La Mantia, Daniele Pilli, Michael Schermi) e registe (Erika Z. Galli, Martina Ruggeri – assistenti alla regia Astrid Meloni/Maria Teresa Berardelli) (anche in questo caso tutti davvero bravi) ci fanno passare da una cava – o qualcosa del genere – in cui i fratelli più grandi addestrano militarmente il più giovane del gruppo al machismo e alla vera mascolinità; cercano di iniziarlo al rapporto con le donne usando una palla da bowling per descriverne la fisionomia salvo poi comportarsi da branco e coalizzarsi contro la ragazza designata quando non mostra interesse. Discoteca, droga, tifo calcistico, rivalità con altri maschi, ambiente domestico e attaccamento alla mamma si alternano a momenti in cui la presa di coscienza dei personaggi non serve che a tracciare il percorso di un destino predefinito che porta all’ultimo eccesso, all’ammazzare la noia buttando i sassi sulle macchine. Il testo spettacolare nel suo complesso funziona perché attraversa i luoghi comuni, sia linguistici sia comportamentali, riuscendo a produrre un’immagine di quel nord Italia anni novanta in cui, fra le altre cose, si è imposto un certo stereotipo del maschile, vera e propria gabbia simbolica da cui, mi pare, sia ancora abbastanza difficile uscire. http://www.youtube.com/watch?v=ecy5MhbpXwI

Contemporaneità della nuda vita. Riflessioni su LA MERDA di Cristian Ceresoli e Silvia Gallerano

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In occasione della celebrazione dei 150 anni d’Italia Cristian Ceresoli compone la drammaturgia del monologo interpretato da Silvia Gallerano LA MERDA- Decalogo del disgusto #1, tragedia in 3 tempi: le cosce, il cazzo, la fama, e un controtempo: “l’Italia”.

Se ne è parlato ieri – 15 marzo 2014 – durante l’incontro coordinato da Lorella Barlaam al Teatro Rosaspina di Montescudo con Cristian Ceresoli e Silvia Gallerano.

LA MERDA ci restituisce un esempio potente di teatro riflessivo, capace cioè di gettare uno sguardo profondo sulla contemporaneità. Una contemporaneità che emerge dalla prospettiva di osservazione di una generazione, quella nata a metà degli anni ’70 – cui lo stesso autore e attrice appartengono -, che incarna le questioni politiche e culturali di quegli anni – il genocidio culturale denunciato da Pier Paolo Pasolini, perché “Pasolini è nel nostro corpo” ci ricorda Gallerano – e che è cresciuta nell’immaginario – anche un po’ machista – di Guerre Stellari, Karate Kid ed Heather Parisi, come sottolinea Ceresoli.

Ed è in questo collasso generazionale tra denuncia pasoliniana e immaginario pop che un lavoro come LA MERDA può provare ad essere posto, sia per forma sia per contenuto.

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Silvia Gallerano sta nuda in scena, seduta su uno sgabello over size ed esegue un monologo che è polifonico (cito Barlaam) perché cambiano i registri, le voci, i volumi ma anche le espressioni del volto: una vera e propria maschera vocale.

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Si presenta come un corpo, raccontandoci delle sue cosce troppo grosse; ci parla della sua infanzia e del padre che le ha insegnato il valore della resistenza attraverso la tenacia dei ragazzi che hanno combattuto per l’unità d’Italia. Idea che lei proietta nella pratica di resistere per riuscire a “diventare qualcuno”, una persona famosa nel mondo dello spettacolo, anche solo facendo una pubblicità. Ci dice come ci si debba “abituare” a fare quello che serve per riuscire nella vita, come lei ad esempio che usa il sesso facendosi in realtà usare. Il monologo si sviluppa così in un crescendo di tragicità che evoca la nuda vita (Agamben) attraverso la “messa in mostra” di un essere umano feroce, fragilissimo e scomodo perché ci assomiglia e che perciò non possiamo giudicare. È il teatro della crudeltà (Artaud) di un corpo che si dà in pasto al mondo, facendosi attraversare dalla cultura (quella maschile, della prestazione, ecc.).

Le parole e la musica dell’Inno d’Italia “vengono fuori, dice Gallerano, in maniera ostetrica”. La merda è sì il pantano in cui ci troviamo e che produciamo ma simbolicamente è un elemento fortissimo: tabù antropologico, rimosso culturale che qui però viene riattualizzato dalla scrittura “per flusso di coscienza” di Ceresoli che rimanda a Bouhmil Hrabal, Joyce, Céline. Torna buono a questo proposito il richiamo a Julia Kristeva e al suo saggio sull’abiezione dove la scrittura viene evocata come strumento per il superamento del nichilismo moderno.

Resistenza e approccio generazionale, infine, stanno anche nel meccanismo di circolazione attivato da Ceresoli che con la pubblicazione in rete di schegge video e materiali dello spettacolo è stato capace di formare viralmente un pubblico per LA MERDA, prima che lo spettacolo andasse in giro e si guadagnasse i riconoscimenti e i premi che può vantare oggi.

Nord Est (In)felix. La società della prestazione nel teatro riflessivo dei Fratelli Dalla Via

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Sembra proprio che una certa parte del teatro contemporaneo italiano stia affondando in maniera esemplare le questioni sociali che, per lo meno da noi, ruotano intorno alla “semantica della crisi”.

Ne è un caso particolarmente riuscito Mio figlio era come un padre per me dei Fratelli Dalla Via, visto al Teatro Rosaspina di Montescudo il 16 febbraio scorso e spettacolo vincitore del Premio Scenario 2013.

In sintesi la storia racconta di due fratelli – in scena gli stessi Marta e Diego Dalla Via – provenienti da una famiglia arricchita del nord est italiano, padre imprenditore del legno e madre americana con un passato da Miss, che architettano l’omicidio per crepacuore dei genitori attraverso il loro suicidio. Ma non riusciranno nell’intento perché i genitori – come altri imprenditori a rischio di fallimento – decidono di farla finita per primi. Spiazzandoli e dimostrando, ancora una volta, come nel conflitto fra generazioni sia ancora quella più giovane ad avere la peggio.

Il modo migliore per uccidere un genitore è ammazzargli i figli e lasciarlo poi morire di crepacuore: era il nostro piano perfetto, ma papà e mamma ci hanno preceduto e si sono suicidati per primi. Ora ci tocca di seppellirli. Ora ci tocca di vestirli. Ora ci tocca rispettare le ultime volontà di due cadaveri. Hanno vinto loro, di nuovo. I morti sono i padroni di questa epoca (dalla scheda dello spettacolo).

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In scena i due fratelli coordinano le loro mosse seguendo una partitura fisica (ideata da Annalisa Ferlini) e si scambiano le battute in un italiano regionale che rende perfettamente il senso di un testo che varrebbe la pena di leggere, non fosse altro per come riesce a mettere insieme elementi del quotidiano e dell’immaginario vernacolare con quelli più universali, riconoscibili e pop.

Basti vedere la prima scena dove i due fratelli seduti su sgabelli fatti di cassette di plastica usati per le bottiglie, oggetti di scena che vengono spostati, smontati e rimontati a fini drammaturgici per tutto il corso dello spettacolo, scartocciano e mangiano boeri, sfidandosi in un gioco infantile mentre si scambiano idee per mettere a punto il loro piano. Conversazione inframmezzata dalla descrizione dello scenario che dà corpo a tutta la vicenda, il nord est, la matrice cristiana della cultura borghese, la biografia e i caratteri dei genitori ma anche riflessioni sul presente e sul futuro, la paura di ingrassare, gli Spriz da bere… Un panorama simbolico rinforzato dalla colonna sonora scritta da Roberto di Fresco per questo lavoro e da canzoni come Vivere e morire a Treviso e È colpa mia de Il Teatro degli Orrori.

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Ne emerge la spietata quanto riflessiva immagine della società della prestazione che esacerba la differenza fra le generazioni e il senso d’impotenza che la semantica della/delle crisi rende sempre più stringente. Forse anche più del dovuto.

E quando alla fine i due costruiranno, sempre con le cassette in una specie di danza funebre, le tombe dei genitori morti, ascolteremo le loro preghiere di commiato, quelle che abbiamo imparato a catechismo e che qui vengono riscritte e desacralizzate con giochi di parole e di senso a tratti esilaranti. Quasi a dirci che il senso “religioso” si è spostato da un’altra parte.

Ecco allora che quello dei Fratelli Dalla Via corrisponde ai caratteri del teatro riflessivo, agganciato alle istanze di una “realtà” che non viene rappresentata in senso stretto quanto osservata e quindi costruita. Il che vorrebbe dire che qui la “realtà” viene trattata attraverso una prospettiva “dall’interno” cioè esperienziale (che non vuol dire biografica però). Una prospettiva che a sua volta viene espressa attraverso una scrittura incarnata capace di tenere insieme il simbolico che è nel corpo (bios), quello della vita e della morte di cui il testo ci parla, con quello più astratto del linguaggio (logos) e che ancora ci serve per affrontare il mondo in cui viviamo.

Il teatro riflessivo alla prova della Rete Critica

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Seguo l’esempio di Altrevelocità per dichiarare le segnalazioni di questo blog nell’ambito del premio istituito dalla Rete Critica, associazione di blog e web magazine di critica teatrale messa in piedi da Massimo Marino, Anna Maria Monteverdi, Oliviero Ponte di Pino e Andrea Porcheddu e che si riunisce in questi giorni a Vicenza, grazie alla collaborazione del Laboratorio Olimpico.

Visto che quest’anno non riesco a partecipare se non in remoto, e neanche quanto vorrei, resto comunque in attesa del risultato finale delle votazioni. Anche perché una delle mie candidature è passata al secondo turno.

Queste le mie segnalazioni

1. Motus, Nella tempesta

Silvia pelle leopardo

2. Babilonia Teatri, Pinocchio

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3. Fanny&Alexander, Discorso giallo (lavoro passato al secondo turno)

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La motivazione è comune poiché penso che si tratti di tre esempi particolarmente riusciti di “teatro riflessivo”, di un teatro cioè che si confronta con le istanze di realtà senza perdere di vista la qualità formale, che è altissima e coerente con la poetica delle singole compagnie.

Buon lavoro alla Rete Critica e in bocca al lupo ai finalisti.

Educazione e televisione nel teatro riflessivo di Fanny & Alexander. Discorso giallo a #sant13

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foto di Enrico Fedrigoli

Discorso giallo – fra gli spettacoli in programma nella prima settimana di Santarcangelo 13 – è la seconda tappa del progetto Discorsi – articolato in 6 spettacoli e 6 radiodrammi (fra cui Giallo. Radiodramma dal vivo durante il Festival) – con cui Fanny & Alexander indaga sulle forme del discorso pubblico e delle sue declinazioni – politico, pedagogico, religioso, sindacale, giuridico e militare – associate ad un colore-simbolo. Se dunque il grigio è associato alla politica nel “primo episodio della serie”, Discorso Grigio appunto, il giallo viene qui attribuito all’educazione.

I colori dei discorsi sono delle bandiere emblematiche da un lato, dall’altro sono i colori di una lingua denotativa non immediatamente decifrabile. Giallo nei simboli umani è il colore del divieto e della coercizione (strisce gialle, cartellino giallo, semaforo giallo); dall’altro se dici giallo vedi la luce, il sole, l’infanzia. Ma giallo è anche acido, abbagliante, doloroso (Chiara Lagani)

Come ambito dell’esperienza individuale e collettiva l’educazione per F&A non riguarda esclusivamente le tradizionali agenzie deputate alla formazione dell’individuo, della sua crescita e della sua identità, ma pertiene anche al sistema dei media e in particolare alla televisione. Quest’ultima è intesa infatti come un ambiente di socializzazione e di messa a punto di una forma retorica, così come succede per il Discorso Grigio della politica, di straordinaria efficacia.

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Il dispositivo drammaturgico può essere descritto, in prima battuta, come la messa in sequenza di modalità e stili espressivi di tre personaggi televisivi che nella storia spettatoriale e generazionale di F&A possono essere considerati gli emblemi sia dei processi di trasformazione della società, sia di quella televisione che li racconta.

È Chiara Lagani a dare corpo in scena alle tre figure che permettono di ricostruire la storia sociale della retorica educativa di matrice televisiva. La prima è quella di Alberto Manzi, meglio noto come il maestro Manzi della trasmissione Non è mai troppo tardi, andata in onda su Rai1 dal 1959 al 1968, espressione di quella stagione paleo televisiva che dichiarava apertamente la sua vocazione pedagogica. Una missione che cambia totalmente registro negli anni ottanta con la messa a punto dei linguaggi neo-televisivi e di puro intrattenimento di cui Piccoli Fans (su Rai2 dal 1983 al 1984), con la conduzione di Sandra Milo, è un esempio particolarmente compiuto per poi arrivare a una nuova forma della caratteristica pedagogica incarnata, con tutta l’ambiguità che il territorio mediale e televisivo riesce ad esprimere, da Maria De Filippi e dal suo Amici.

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Ecco allora che Discorso Giallo si presta ad essere considerato un ulteriore elemento di quello che, come già ho avuto modo di sottolineare, può essere definito un teatro riflessivo, propenso cioè ad usare le istanze della contemporaneità sia a livello estetico sia di contenuti con grande consapevolezza. Per questi motivi si pone sulla linea di un teatro sociologicamente interessante, capace cioè di fornire dei parametri di osservazione non tanto “realistici” ma adatti a costruire quei meta-commenti sul mondo, il nostro, indispensabili alla qualità riflessiva della performance.

Di questo e di molte altre questioni ho avuto il piacere di parlare con Chiara Lagani in una lunga e illuminante conversazione/intervista di cui qui riporto lo stralcio dedicato alla definizione di Discorso Giallo come esempio di teatro riflessivo.

LG:Discorso Giallo sembra avere tutte le caratteristiche utili alla definizione di “teatro riflessivo”, ossia all’utilizzo di un concetto che, riconoscendo la riflessività come qualità che il teatro ha da sempre, serve a connotare la tendenza di una parte del teatro contemporaneo a confrontarsi con la “realtà”. Volevo partire da qui: se davvero esiste, da dove nasce quest’esigenza nuova?

CL: Devo dire che mi colpisce la scelta della parola “riflessivo”, perché recupera un significato quasi etimologico del teatro e anche del nostro progetto Discorsi. Ognuno dei discorsi, al di là degli esiti e delle forme-colore differenti, manifesta esplicitamente la volontà di fungere da specchio per lo spettatore, di riflettere, anche solo per un attimo, l’immagine di una collettività che in esso si rivede, anche in modo orribile, perché si tratta pur sempre di un’indagine sulla tossicità del contemporaneo. Un aspetto che in Discorso Grigio è già evidente perché mette in scena, attraverso il corpo di un attore volti, parole, retoriche e modi della politica degli ultimi vent’anni che in qualche maniera rispecchiano un sistema culturale nel quale siamo tutti coinvolti.

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Discorso Giallo parla dell’immaginario televisivo, di cui noi tutti siamo profondamente imbevuti, al di là della nostra volontà. Le figure che attraversano i corpi degli attori sulla scena vengono dal mondo della politica, dello spettacolo televisivo, dunque dal nostro terreno culturale profondo e dal nostro orizzonte immaginale quotidiano. Parlano della materia di cui siamo fatti, di quel che si agita nelle parti più remote e profonde del nostro universo psichico, irrimediabilmente frammisto ai sogni, agli archetipi, alle memorie. Per cui la dicitura che hai scelto – teatro riflessivo – è come se puntasse il dito su questa volontà-capacità-possibilità del teatro di farsi specchio a partire da tanti tipi di materiale: da un testo, da un mito, dalla storia, oltre che dalla realtà (Chiara Lagani).

Il Discorso Grigio di Fanny & Alexander. Un tassello per il “teatro riflessivo”

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Discorso grigio  è il primo episodio del progetto Discorso di Fanny & Alexander ma anche un tassello significativo di quello che da tempo provo a definire come “teatro riflessivo” che usa le istanze della contemporaneità sia a livello estetico sia di contenuti con grande consapevolezza.

Coerentemente con il tipo di ricerca di F&A – stratificato, complesso, che richiede di mettere in campo e contemporaneamente diverse prospettive di osservazione – il progetto indaga sulla forma discorso, sul rapporto tra l’individuo e la comunità e il gruppo sociale. Per questi motivi si pone sulla linea di un teatro sociologicamente interessante, capace cioè di fornire dei parametri di osservazione non tanto “realistici” ma adatti a costruire quei meta-commenti sul mondo, il nostro, indispensabili alla qualità riflessiva della performance.

L’indagine che si articola in 6 spettacoli e 6 radiodrammi attraversa le forme principali del discorso pubblico e delle sue declinazioni – politico, pedagogico, religioso, sindacale, giuridico e militare – associate ad un colore-simbolo. Al politico tocca il grigio. Ça va sans dire.

“Grigio è il colore della mescolanza perfetta di ciò che è bianco e ciò che è nero. È la differenza indifferenziata” (Chiara Lagani intervistata da Michele Dantini).

In questo spettacolo il peso della cultura visuale è garantito visivamente ma non solo: dal grigiore della scena e del personaggio ma anche dalla sua trasformazione in pupazzo/maschera – facendo pensare per inquietante preveggenza i politici clown evocati dal tedesco Steinbueck. Oltre alla testa gigante – maschera grottesca e carnevalesca – indossata nel finale sono le mani “imbottite” del politico idealtipico (magistralmente incarnato da Marco Cavalcoli) a farci entrare a Topolinia (cito Cavalcoli) ma anche nell’immaginario muppet e della performance, qui per citazione diretta Paul McCarthy.

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foto Enrico Fedrigoli

Il passaggio di F&A dai testi tratti dalla letteratura (Nabokov, Baum, ecc.) e dalla loro traduzione cinematografica alla testualità del discorso pubblico, e in specie politico, assume poi una valenza mediologica importante. Intanto c’è la retorica politica giocata in scena con il morphing di voci e attraverso una partitura sonora che oltre ad essere una cifra espressiva “tipica” di F&A costruisce la scena in chiave spaziale e temporale. Il suono, su composizione di Luigi De Angelis, dà il ritmo emotivo, attraversa e costruisce lo spazio ma le voci sono quelle dei politici di oggi e di ieri, integrati in fase successive – ci spiega Marco durante l’incontro con il pubblico dopo lo spettacolo al Teatro Rosaspina di Montescudo – in base alla “drammaturgia per rimandi” su cui con Chiara Lagani è stato messo a punto il lavoro.

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La retorica quindi è fatta di modi, stili comunicativi e di gesti oltre che di parole demagogiche per cui, ancora una volta, quello che emerge dal gioco di riconoscibilità che non vuole essere di semplice imitazione è il corpo del leader (o del capo) e la sua resa mediale. Una resa giocata sul piano visivo ma anche della voce. Come dimostra l’attenzione verso il radiodramma, visto che la radio ha svolto sempre una funzione centrale per la propaganda politica ma è allo stesso tempo anche il luogo in cui possono collassare la sperimentazione artistica e di linguaggio tecnologico.

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Ritroviamo – dopo OZ e soprattutto West – il meccanismo dell’eterodirezione, metafora e sintesi del potere della comunicazione sui corpi, così come lo intendono F&A. Cavalcoli in cuffia segue comandi sui gesti da fare e sulle cose da dire, sorta di “vaso di risonanza delle voci che lo attraversano e lo fanno parlare”. Ed è in tutte queste voci che si compone un blob adattabile e che si rinnova in maniera morfogenetica senza stravolgere l’identità organizzata del lavoro. Nonostante i cambiamenti portati in corso d’opera – in relazione agli eventi congiunturali cui gioco forza la drammaturgia rimanda – lo spettacolo resta lo stesso essendo semmai, come sottolinea Cavalcoli, la declinazione di significato a cambiare così come il modo con cui essere osservato e interpretato dal pubblico.

Così quando l’attore – sempre sul finale – si ferma a guardarci uno a uno negli occhi possiamo pensare le cose più disparate. Non ultima quella di essere colpevoli anche noi.

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Il dispositivo che viene attivato serve mettere insieme le retoriche con cui i media di massa e in maniera esplicita la televisione – ma a ben vedere anche la rete come ambiente che veicola contenuti dell’ambiente circoscritto dalla tv – rendono il discorso politico un’altra forma dell’intrattenimento. I talk show, sempre seguitissimi e adatti all’emergenza della social tv, e la satira sono i linguaggi adatti a creare e far circolare la comunicazione senza costrizione al consenso ma in maniera funzionale al funzionamento della pubblica opinione e delle sue trasformazioni. E in questo mi pare stia il significato di grande attualità di questo modo di fare teatro civile, una nuova cornice che definirei di TEATRO RIFLESSIVO.