Great (disappointed) expectations 2. Boris Godunov

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(foto mia: bomba inesplosa davanti a me).

Aspettavo di vedere il Boris Godunov de La Fura dels Baus per una serie di motivi (qui).

Si tratta di un’operazione complessa – leggo un articolo imperdibile di Attilio Scarpellini – che consiste nel produrre un’opera stratificata, costruita su più piani narrativi. Mediologicamente interessanti a partire dall’idea del docu-drama che ha per tema l’attentato al teatro Na Dubrovka in Cecenia nel 2002. La compagnia immagina che i terroristi facciano irruzione nella sala durante la rappresentazione del Boris Godunov – vicenda della Russia zarista raccontata da Puskin, poi musicata da Musorskij, fino alla versione cinematografica dell’86 – qui adattata al periodo stalinista. Gli ostaggi sono gli spettatori. Nella fattispecie noi: all’Arena del Sole di Bologna.

Caso quanto mai evidente del rapporto fra dramma sociale e performance; della spettacolarizzazione del reale e delle sue catastrofi; dinamica riflessiva; attualizzazione, delocalizzazione e rilocalizzazione (della storia, da un lato, della rappresentazione, dall’altro): sapiente – e di mestiere – assimilazione a fini drammaturgici del video per localizzare (appunto) la piéce fra il fuori (al teatro) e il dentro (i locali del teatro, la sala) dove gli attori/terroristi, attori/attori e la negoziatrice (che nella realtà fu la Politkovskaja) compiono le loro gesta, svelano i caratteri dei personaggi, le lotte per la leadership, il conflitto ideologico, ecc.

Tuttavia l’operazione non va a segno. Non è andata a segno per me. Ben recitata. Ben realizzata. Elevata a livello simbolico ma i conti non mi tornano. E da quel che ho sentito in giro il livello emozionale – su cui il lavoro sembrava voler puntare – si è attestato alla superfircie neocorticale un po’ per tutti.

Il fascino della Russia sta anche nella sua langue e lo spagnolo sentito da un italiano non rende quella drammaticità, non è così epico. Non può. E’ una leva espressiva che apprezzo de La Fura, un suo specifico narrativo, ma qui non rende. Il pubblico non ha più paura.

Il teatro è un luogo sicuro perché ancora svolge la funzione di disaccoppiare il vissuto dal rappresentato e in questo sta la sua grandezza, la sua utilità. Il mondo fuori è molto peggio, lasciamolo dov’è.

A mezzanotte va la ronda…

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E ci voleva tanto per varare un decreto antistupri?

Sarà sicuramente imperfetto a cominciare dalle ronde che tra l’altro sarebbero soltanto presidi sul territorio. E comunque si dice “sicurezza partecipata” (culture partecipative anche qui?). Però: chi fa la ronda nelle case? Sui luoghi di lavoro?  Basta leggere l’elenco, la nomenclatura, delle forme di violenza previste e usate da chi fa ricerca per capire che l’aggressione in strada è solo una delle possibilità. E i poliziotti di quartiere che fine hanno fatto?

A ognuna di noi è capitato più volte nella vita, mi è già capitato di dirlo, di essere oggetto di violenza più o meno esplicita e molto spesso simbolica da parte di un maschio. O in ogni caso di sentire e vedere cose che rimandano allo strisciante senso di superiorità che anche gli uomini più evoluti esprimono (da apprezzamenti sulle qualità fisiche di una donna quando non ce ne sarebbe bisogno fino a cose che sappiamo tutti).

L’odio per la donna ha radici antiche e radicate nelle culture (per farsi un’idea: qui). Basta leggersi i passaggi di Durand sull’acqua ne Le strutture antropologiche dell’immaginario per capirlo. L’ho già detto, anche questo. Di letteratura se ne trova molta, i film e i media, che pure contribuiscono ad alzare la soglia della percezione del rischio (sembra che i fatti di stupro si siano verificati tutti in questo periodo, sospetto no?) hanno avuto il merito di mettere a tema la questione stalking (anzi la parola stesa viene da lì, ne parlammo a suo tempo qui). L’arte non si è sottratta dal rappresentare la violenza sulle donne, il teatro men che meno. Ma forse in questo caso il meccanismo della riflessività si assesta sulla dimensione del distacco. Non saprei.

Le donne, lo ribadisco, non fanno molto per sottrarsi alla tentazione di auto-rappresentarsi come oggetti del desiderio e a riprodurre il dominio maschile (Bourdieu). Se in questo sta una certa forza del femminile, lo dice Morin ne Lo spirito del tempo, non possiamo nemmeno negare che poi alla fine ci rimette sempre.

Quando l’estate scorsa quella coppia di turisti danesi, se non ricordo male, è stata vittima di quell’agguato premeditato per motivi di rapina l’aggiunta dello stupro alla donna era stato oggetto di un articolo che purtroppo non trovo ma che era centratissimo e commuovente. Scritto da un uomo, e non è una cosa da poco, rifletteva sul residuo barbarico che fa sì che per la donna sia sempre riservato qualcosa in più, uno stupro rituale, che infierisca un po’ di più.

Il punto è, secondo me, che la legge serve, eccome. Che protegga i bambini: assolutamente. La certezza della pena anche. Ma serve soprattutto cambiare – l’individuo e le strutture della società (sempre con Bourdieu) – e questa la vedo dura.

Great (disappointed) expectations 1. Terre Natale

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Dopo l’esperienza del 2003 con la mostra Ce qui arrive curata alla Fondation Cartier da Paul Virilio, che ha orientato moltissimo i miei interessi vero le forme dell’immaginario e dell’immaginario della catastrofe, non poteva mancare la visita a Terre Natale. Ailleurs commence ici. Stesso posto, Virilio con il fotografo Raymond Depardon. Che mi “pardon” quanto sto per scrivere. Vedere assolutamente qui e qui.

L’allestimento è coerente con un’idea guida che continua a interessarmi: immaginario, viaggio, meta-territorialità. Relazione indagata da parole e immagini di viaggi, testimonianze, installazioni. La linea interpretativa è quella della perdita: della memoria e dell’identità dei luoghi, della lingua originaria, della terra e dell’ambiente, lo sradicamento, la delocalizzazione per la rilocalizzazione forzata. Ma senza corpo, senza cuore, senza l’originalità di un pensiero che altrove era stato molto forte e fondante.

Più interessante per me, soprattutto da punto di vista visivo ed estetico, l’installazione Maps di Diller Scofidio + Renfro and Mark Hansen, Laura Kurgan and Ben Rubin. Un meta-narrazione dell’epoca/epica dei flussi di spostamento di uomini e cose (soprattutto denaro) attraverso l’elaborazione di diversi dati, porcedurati in qualche modo, e resi visibili appunto (con un efficace contorno sonoro devo dire).

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L’installazione in pratica mostra la dinamica di visualizzazione della migrazione globale e delle sue cause scrivendo e riscrivendo la traduzione dei dati sui diversi aspetti della migrazione in mappe, testi e traiettorie concretizzati in 5 scenari.

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Il primo riguarda il cambiamento della densità urbana e il trend che rivela; il secondo il flusso di denaro che gli immigrati mandano ai loro paesi; il terzo i movimenti dei rifugiati politici.

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Il quarto riguarda i disastri naturali per rilevare le differenze di vulnerabilità tra le zone del mondo. Il rischio che ci rende uguali ma anche diversi per via, come dire, geopolitica. Il quinto rappresenta gli effetti dell’innalzamento del livello del mare a causa del riscaldamento globale e le città a rischio (anche italiane). Gli abitanti sarebbero le vittime pur essendo i responsabili minori di questa deriva.

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Un dramma – anche nel senso della sua scrittura in immagini – senza tragedia. Giocato sull’elaborazione neo-corticale ma non per questo meno affascinante dal punto di vista dell’immaginario contemporaneo. Ma che su di esso ci deve anche far pensare.

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Fine.