Forme della virtualizzazione. Be Arielle F di Simon Senn. #visioni dal mio schermo

© Mathilda Olmi

«You have reserved a place for the online and live performance based on the show Be Arielle F directed by Simon Senn. The length of the performance is about 40 minutes. The performance will take place on a Zoom teleconference service via a webinar: a “web seminar».

Sempre per la serie “visioni dal mio schermo”, il 16 aprile 2020 ho partecipato alla performance on line Be Arielle F. Iniziativa del Théâtre Vidy di Losanna, ente co-produttore del lavoro, che nella sua versione dal vivo è una conferenza-spettacolo in cui il video artista svizzero Simon Senn racconta la sua ricerca e la realizzazione della performance incentrata sull’uso di un bio-oggetto teatrale (come scrivono nelle pagine del progetto Eric Vautrin del Théâtre Vidy e Fanny Holland).

Laddove il bio-oggetto teatrale è la copia digitale del corpo di una ragazza – chiamata con il nick Arielle F – comprata da Simon Senn sul sito www.3dscanstore.com e usato come materiale d’indagine e trasformazione in scena del proprio corpo attraverso l’uso di un sistema di motion caption immersivo, un set di realtà virtuale con sensori, e apparecchiature progettate per i videogiochi.

© Elisa Larvego

Un percorso d’indagine che s’inserisce nel campo aperto della virtual art, degli ambienti immersivi e, ancora più nettamente, nell’alveo delle riflessioni sul processo di virtualizzazione dei corpi, dell’identità, del genere che rimanda alle teorie sul post-umano e sui fronti aperti dalla scena elettronica e ampiamente indagati negli anni Novanta.

Alla luce della normalizzazione del rapporto mediatizzato con il reale e, sostanzialmente, nella facilità di accesso alle tecnologie e alla possibilità di incarnare un corpo altro da sé, Simon Senn decide di condividere l’esperienza biografica di questo salto epistemologico. Lo spettacolo infatti si basa prima di tutto sul racconto del progetto artistico e delle sue diverse implicazioni. Come quelle legali inerenti le identità virtuali, indagate attraverso la consulenza di un avvocato. O ancora quelle relative al rapporto fra identità e percezione del corpo affrontate con una  psicologa mettendo a tema questioni come quelle della «Snapchat dysmorphia», ovvero il desiderio di trasformarsi chirurgicamente per assomigliare ai selfie filtrati e che oggi è riconosciuta come una vera e propria condizione clinica.

Successivamente Simon sceglie di trattare la sua esperienza in stretta connessione con quella di Arielle che ha rintracciato e conosciuto di persona. Tanto che il video del loro primo incontro è parte dello spettacolo e di fatto Arielle partecipa in collegamento Facetime anche nelle session dal vivo.

© Mathilda Olmi

La versione Zoom del lavoro, in alternativa alla replica dal vivo saltata, può essere considerata come un’operazione crossmediale cioè il processo di traduzione mediale dello spettacolo che acquisisce alcune caratteristiche dipendenti dal mezzo in cui viene trasferita.

In questo caso il pubblico ha partecipato a un meeting Zoom – modalità di ormai cui abbiamo velocemente acquisito una certa abitudine all’uso ma facilitata in questo caso della moderazione iniziale di Valentine Augsburger (Théâtre Vidy) che ha fornito le istruzioni per partecipare e tradotto in chat – in cui Senn ha mostrato in diretta la sua postazione di lavoro, il processo di trasmutazione del suo corpo in scena in quello di Arielle, sondato le impressioni insieme ai movimenti del corpo, le prospettive di visione, l’intimità, ecc.

In un secondo tempo Simon ha chiamato Arielle e la conversazione con il pubblico collegato da diverse località (Parigi, New York, Roma) è diventata parte della session. Gli spettatori, tutti in collegamento video dai propri divani, come ha notato Arielle, hanno fatto domande sullo spettacolo, sulla scelta della ragazza di cedere la propria immagine, raccontato e confrontato la propria quarantena con quella degli altri… Un esempio di quella coalescenza fra pubblico e privato, mondo vicino e mondo lontano, online e offline che permea la nostra esistenza e che proprio adesso si rende particolarmente evidente.

Sul fronte della resa performativa, l’aspetto più rilevante di questa teleconferenza-spettacolo va rintracciato nella logica di interazione che caratterizza l’uso anche teatrale di questo tipo di piattaforme e che rimanda alla ricerca sui “formati” di una teatralità possibile online.

Non esclusiva, non a scapito del “dal vivo” inteso come compresenza spazio-temporale ma interessante dal punto di vista delle ulteriori possibilità della comunicazione dal vivo, dislocata, ora ma diversamente qui, e capace di attivare, ad esempio, una comunità temporanea internazionale.

Seigradi di Santasangre. Apocalisse, mutazione e ologrammi per un mondo che è già arrivato. #visioni teatrali dal mio schermo

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ph Laura Arlotti

Nel periodo che stiamo vivendo, definito in tanti modi ma di certo diffusamente considerato apocalittico, torna quanto mai adeguata la visione di un lavoro come Seigradi di Santasangre, parte di #indifferita, palinsesto di teatro in video proposto da Elvira Frosini e Daniele Timpano da seguire in quarantena. Un archivio ragionato di spettacoli che è possibile rivedere e recuperare, parte della memoria teatrale che abbiamo e che rivendica la centralità di quella forma di consumo culturale cui per ora non possiamo godere di persona.

Una possibilità però di cui le connected audience possono usufruire e che se da un lato può essere considerata l’espressione di una sperimentazione di linguaggio, modalità espressive, estetiche e formati che l’arte e il teatro hanno sempre sentito e che sta vivendo una sorta di “accelerazione in stato di necessità”, dall’altro lato consente di osservare le forme del liveness digitale come cifra ineludibile della mediatizzazione del sociale. Si tratta quindi di vedere come gli artisti indagano le modalità della loro azione, l’agency come agire strutturato dalle tecno-logiche che dà vita a nuove pratiche, al mantenimento della relazione teatrale, alla diffusione di contenuti teatrali.

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ph Laura Arlotti

Come per l’appunto il video di Seigradi, del 2008, terzo spettacolo della trilogia intitolata Studi per un teatro apocalittico. Che “dal vivo-dal vivo” non si vedrà più.

La serie indaga la modernità in crisi appoggiandosi nei primi due lavori, 84.06 e Spettacolo sintetico per la stabilità sociale, alle narrazioni distopiche di George Orwell e Aldous Huxley, per arrivare nella terza tappa a un’indagine sul cambiamento climatico, sganciata da riferimenti letterari espliciti ma basata sulla teoria dei sei gradi ripresa da un documentario del National Geographic che ha previsto le conseguenze dell’innalzamento della temperatura. Un tema non a caso diventato centrale in tempi più recenti e parte consistente di una parte significativa della ricerca artistica contemporanea (ne ho scritto qui).

Seigradi si colloca nel solco della sperimentazione tecnologica in scena, nello studio sull’immagine digitale come materia, non solo simbolica, della mutazione, come espressione della pratica riflessiva e processo calato nell’osservazione del presente e delle sue derive future attraverso una complessa drammaturgia musicale e visiva. Il corpo della performer si muove come quello di un essere post-umano-insetto che si dischiude come un oggetto fatto di carne e immagini olografiche.Il lavoro sulle luci e i colori – che il video restituisce bene – è costruito insieme alla struttura musicale su 4 movimenti che corrispondono alle fasi di un ciclo vitale e dei suoi elementi principali di aria, acqua, terra e fuoco. Sfuggendo del tutto alla rappresentazione naturalistica del cambiamento climatico e dei suoi effetti, Santasangre mette al centro la metafora di un essere vivente metamorfico immerso in un ambiente mutante.

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ph Laura Arlotti

Come raccontano ad Anna Maria Monteverdi, Seigradi è «una specie di esperimento coreo-sonoro in cui le fonti luminose, immagini olografiche, suoni campionati in scena ed elementi naturali rendono il luogo di una “lanterna magica” di grandi proporzioni. L’effetto finale deve essere la perfetta riuscita dell’amalgama tra corpo e video, quindi sono punti sensibili la luce, la distanza e il posizionamento di pubblico e attrice». Cruciale perciò la ricerca di un immaginario che immersivo, aptico, tridimensionale che crea sulla scena un mondo virtuale di cui la performer-immagine è parte incarnata.

Vedere in video, proprio oggi, nel momento in cui pensiamo al nostro posto nell’ecosistema in crisi, uno spettacolo come Seigradi mi è sembrata una gran bella opportunità. Per recuperare un lavoro che non ho visto e coglierne l’attualità sia sul fronte dei contenuti, sia sul piano dell’immaginario e delle estetiche tecnologiche.

 

 

La Sacra Sindone in tv #SPOTpost1

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L’ostensione della Sacra Sindone in tv – programmata per il 30 marzo, cioè nel sabato santo, 40 anni dopo l’unico precedente della trasmissione del 1973 – porta a riflettere sul sempre intrigante rapporto fra iconodulia e iconoclastia.

Laddove la fede cristiana si afferma nel verbo e non nel vedere – “Dio nessuno l’ha mai visto” (Giovanni 1, 18) – le resistenze dell’immaginario vanno dall’iconografia sacra e artistica fino alla spettacolarità legata alla diffusione e condivisione dell’immagine televisiva.

Laddove l’ostensione dell’ostia è il segno simbolo del corpo di Cristo prima della comunione fra i credenti, così l’ostensione di ciò che resta di un corpo per il mito può passare e diffondersi nella meta-territorialità dell’immaginario collettivo. Esplicitamente preferito per questa volta alla più tradizionale forma del pellegrinaggio

I confini di efficacia e intrattenimento sfumano così nella forma liminoide della performance.

Ma c’è anche il viaggio – anzi volo – televisivo del Papa, da leggere qui.

L’engagement al tempo di Lady Gaga

Dal punto di vista della performance contemporanea, e del modo in cui riesce a catalizzare il suo pubblico, le due più recenti operazioni di Lady Gaga possono essere considerate dei casi esemplari. Di certo interessanti.

Da un lato c’è  Body Revolution, l’iniziativa lanciata attraverso la sezione dedicata nel suo sito in cui esorta i fan Little Monsters a mandare immagini di sé, con i propri difetti, in nome della legittimità ad essere quello che si è. Mettendo in pubblico i suoi problemi giovanili di anoressia e bulimia Lady Gaga rivede completamente il fenomeno divistico puntando sul rapporto con i fan attraverso un primo engagement relazionale, emotivo e soprattutto transmediale.

Photo: (LittleMonsters.com)

Con ARTPOP invece si annuncia l’uscita del nuovo disco e di una serie di applicazioni per iPad e device mobili adatti a quel tipo di agire creativo che possiamo leggere con espressioni come productive publics e transmedia participation.

Nel dichiarare di essere stata ispirata dai comportamenti diffusi e quotidiani del suo pubblico, Lady Gaga dimostra di cogliere la direzione del mutamento di un ambiente che, al di là della strategia di marketing e come operazione della comunicazione, è interessante perché può essere un caso veramente esemplificativo di tutta una serie di ragionamenti e di riflessioni, anche critiche, che si fanno intorno alla Rete.

ARTPOP is not just an ALBUM its a PROJECT

Im excited to tell you all that ARTPOP is going to be a multimedia experience that comes in different forms. The most major way to fully immerse yourself in ARTPOP is through the APP. ARTPOP will be released as an IPAD, iPhone, mobile and computer compatible application (WORLD) that is completely interactive with chats, films for every song, extra music, content, gaga inspired games, fashion updates, magazines, and more still in the works! I will also be able to upload new things to the APP all the time, the same way i upload to twitter and LM.com. You inspired me to create something that communicated with images, because YOU do, YOU communicate with me and each other with .gifs and pictures, and artwork, graphics ALL DAY 24/7/ YOU’RE an ARTPOP generation. Im hoping you will all continue to grow together and stay connected through your creativity. much love.

Da più parti – un caso per tutti il Guardian – si è assimilato questo progetto a quello di Biork con Biophilia. E in realtà ci ho subito pensato anche io. Tuttavia mi pare che sussista una differenza radicale. Intanto si può rileggere questo articolo puntualissimo di Daniele Cassandro.

L’operazione di Bjork, coerente com’è con l’immaginario tecnologico che caratterizza il suo lavoro e la sua estetica, usa l’interattività garantita dalle applicazioni per sperimentare le possibilità di ascolto della musica, di entrata nel processo artistico e nella sua raffinatezza, ma pur sempre a partire da un percorso di interazione codificato.

Lady Gaga con ARTPOP compie un’operazione pop, appunto. Assume la performance e la sua proiezione in forma di App per parlare i linguaggi del suo pubblico.

Cambia insomma il tipo di engagement con il fan, anche perché con tutta probabilità i fan di Bjork e di Gaga a loro volta sono diversi.

In sintesi: Lady Gaga sembrerebbe dire: “ARTPOP siete voi”, mentre Bjork ci ricorda che: “Biophilia sono io”.

A chi appartiene un divo? Lucio Dalla e il rito funebre espropriato

Sono convinta che Lucio Dalla sia una delle icone dell’immaginario collettivo italiano, indipendentemente dai gusti. Di certo è stato amato dal pubblico e perciò dal punto di vista dell’industria culturale era un divo. Di sicuro alla portata, non assiso sull’olimpo hollywoodiano, legato al territorio ma di certo un personaggio famossissimo. Tanto che all’ultimo Sanremo di lui e della sua canzone si è parlato parecchio. Senza contare poi la folla che si è radunata all’arrivo della salma, che è stata alla camera ardente e che sarà al funerale.

Dalla notizia della morte, che personalmente ho appreso di riflesso da una telefonata perché lo conoscevamo visto che ha insegnato nel nostro corso di laurea, com’è ovvio che si sia si è attivata la conversazione e il tema è diventato un “trend topic”, non solo in rete. Dove peraltro si sono letti pensieri di ogni tipo, anche molto divertenti.

Tuttavia pare che il pubblico – che è il vero responsabile del successo e della vita artistica di un personaggio – sia poco rilevante per i media visto che i tweet dei vip fanno notizia di per sè. Come si può vedere ad esempio qui. Quello che resta da sapere è chi ci sarà, se Vasco Rossi riuscirà ad arrivare, ecc.

La società dello spettacolo insomma è più viva che mai ed è alimentata dalle dinamiche dell’intrattenimento che rendono il rito funebre di un divo pop un esempio del liminoide, cioé del rito di passaggio adeguato ai meccanismi dello svago.

Tuttavia, parallelamente, si può osservare la presa di posizione comunicativa del pubblico che mentre contribuisce ad alimentare il divismo, e sarà interessato e curioso al vip presente o che scrive qualcosa, partecipa al sentire della moltitudine che si raccoglie come può attorno al morto. La performance rituale quindi, l’evento cerimoniale che comprende la dimensione dal vivo con quella della comunicazione e del circuito mediale, dovrà trovare la sua efficacia simbolica, svolgere la sua funzione di esorcismo, al di là o forse nel mezzo dell’intrattenimento.

Lo spettacolo del dramma. Sanremo 2012 e l’entrata di Celentano

L’entrata di Adriano Celentano a Sanremo non può che essere un esempio di come lo scenario catastrofico e della paura collettiva facciano da sfondo alla resa contemporanea del dramma sociale, della situazione di conflitto in cui innegabilmente stiamo vivendo.

La spettacolarizzazione – fra video e scena dal vivo confusi per lo spettatore televisivo dal lavoro di regia – è il linguaggio ideale per la messa in forma di una performance che, nella ritualità laica dell’intrattenimento, cerca di mettere insieme tutto: il divertimento con l’efficacia messi nelle mani di un uomo di spettacolo che si comporta da santone.

This is not America. Viaggi immaginari di settembre

Quest’estate non sono andata tanto in giro, anzi diciamo per niente. Tuttavia avendo a disposizione, come tutti noi, un ambiente mediale da abitare le sollecitazioni non sono mancate. Anzi forse sono anche troppe e la scelta di coglierne alcune – e lasciarne sullo sfondo altre – può far conto soltanto su a me ignoti processi selettivi e sulla fantastica capacità di dimenticare della memoria. Quella che segue dunque è una piccola carellata per analogie, nient’altro che un piccolo viaggio intorno alla mia camera espansa.

Il decennale dell’11 settembre, accompagnato dalla cerimonia commemorativa a NY oltre che dai vari film e documentari visti in TV, l’ho passato sfogliando l’Atlante di Repubblica, con la raccolta degli articoli pubblicati nell’arco del decennio appunto anche se devo dire che il tappeto afgano, per me, vince il premio Rappresentazioni Collettive 2011.

Sempre sul fronte delle rappresentazioni dell’evento catastrofico, forme della ritualità mediale con cui l’immaginario collettivo moderno elabora il dramma sociale, dalla pagina di YouTube su Facebook è possibile accedere ad un video che raccoglie le testimonianze delle persone al di là e oltre la serie di prodotti culturali più o meno finzionali che conosciamo. Insomma la narrazione, l’esorcismo simbolico dell’evento tragico, passa dall’accoppiamento fra i media e i vissuti che è il modo con cui, oggi e attraverso il web, si costruiscono i nuovi modi della riflessività.

Così come sembra esistere un’arte del dopo 11 settembre 2001 di cui lo stesso New York Times sembrerebbe consapevole visto che ha chiesto ad alcuni artisti di spiegare se e come il loro lavoro ne sia stato in qualche modo informato. Vedi il post A Cultural View. Si può anche vedere la raccolta di lavori sull’11 settembre avviata da Artitribune, da arricchire con il contributo degli utenti, o articoli come quello sulla prima pagina del Corriere della Sera o sul cartone di Mel Chin.

A rinforzo dell’immaginario americano ho pensato bene di non perdermi la mini-serie sui Kennedy e alcune puntate del David Letterman Show su Rai5, ormai ufficialmente canale favorito del digitale terrestre.

Basti pensare al documentario sul numero di settembre di Vogue America che mi ha permesso di vedere all’opera Anna Wintour – o meglio, come dicevano nella publicità del progarmma, “la vera protagonista de Il diavolo veste Prada” – e di scoprire un personaggio come Grace Coddington, modella prima e ora fashion editor della rivista. Non per dire ma le due sono Britanniche… e capaci di incarnare abbastanza bene il mito della moda da avere le loro brave dolls.

Così come, invece, è “molto” nord-europeo lo scenario dell’inquietante Millenium, serie dedicata alla trilogia di Stieg Larsson, che La7 pensa bene di inframmezzare con le pubblicità della Daygum Protex che per lo meno ci porta nella Svezia alleggerita di Filippa Lagerback.

Fra le letture estive devo ammettere che Twilight di Stephenie Meyer ha risvegliato la consapevolezza, già provata con il film, di far parte di quel pubblico femminile innamorato dell’amore che ha fatto la fortuna dell’industria culturale hollywoodiana così mirabilmente raccontata da Morin.  Insospettabili conoscenti e amiche compongono con me quella compagine barbara, è sempre Morin che lo dice, che evidentemente trova nell’amiguità erotica del vampiro una rappresentazione ancora efficace dell’immaginario dell’amore.

Su Vogue Italia invece mi sono imbattuta in un caso che conoscevo da una vecchia puntata di un qualche CSI e che rimanda alla sempre affascinante quanto perturbante azione estrema sul (proprio) corpo. Mentre là nella serie televisiva si parlava di un uomo, qua, la copertina della rivista era ispirata ad Ethel Granger, donna “immagine” del ‘900 famosa per il giro vita di 33 cm e per aver costruito la sua esistenza, spinta dal marito, su un canone estetico che ha origini antiche: dalla civiltà minoica, fino al regno di Elisabetta I e che ha ispirato anche gli ufficiali degli eserciti europei. Direi che siamo di fronte a forme della rappresentazione di sé che hanno ben altra cifra simbolica rispetto alla proliferazione di tatuaggini senza un perché se non quello di perpetuare strategie comunicative più adatte ai nostri tempi, cioè di forma e non di sostanza.

 

Mick Karn. Ricordarmi di te, di noi, di questo e di altri blog

Questo spazio, pur non abitandolo al meglio, è sempre stato per me un esercizio di scrittura, per lasciare traccia di cose che rientrano nei miei interessi e a cui posso riattingere con la speranza però che ci passi qualche lettore. Non sempre mi appartiene del tutto e dal bilancio che mi è arrivato da qualche giorno da parte di wordpress noto che la classifica dei post più letti e commentati non corrisponde per niente all’idea che ne ho e ai motivi per cui lo continuo a tenere.

Un senso mi pare di trovarlo potendo dedicare qualche riga pubblica al ricordo di Mick Karn e a rivendicare proprio qui il mio personale diritto di attribuire al mio blog una “funzione terapeutica” e di associare una dimensione di vissuto con la sua rappresentazione, con la sua narrazione. Una forma auto-consapevole di scrittura, continuo a citare, che retroagisce su quella finzione realissima che permetteva a una giovane, a certi giovani di allora, di sognare qualcosa di bello.

Sì perché nello scenario creato dall’immaginario, non solo musicale, della new wave abbiamo visto e sentito da casa nostra, attraverso le riviste e i video, l’eco dell’estetica anglosassone e abbiamo trovato i nostri divi sentendoci parte di un mondo più grande della provincia italiana. Mick Karn, nei Japan, è stata una di queste figure e la sua perdita è una perdita generazionale.

Baterebbe Riportando tutto a casa di Nicola Lagioia per capire il senso dell’intreccio fra le biografie che si costruiscono su un territorio geografico, Bari e i suoi quartieri negli anni ottanta, e il loro essere scandite senza gerarchia da eventi storici e culturali che hanno definito in termini mediali una generazione e, cosa più importante, la meta-territorialità dell’immaginario.

E oggi, ne sono sicura anche se non ho il coraggio di guardare, Mick Karn sta connettendo cuori lontani e immaginari vicini.

Saluti e baci. Cartoline, twitter, mail: conta il come o il cosa?

Sulla dimensione mediologica della cartolina è stato detto. Anche io nel mio piccolo ho ripreso le considerazioni che permettono di collegare il processo di virtualizzazione della comunicazione alle dinamiche dell’industria culturale “via” immagini e immaginario del viaggio. Certo è che soprattutto in estate l’argomento torna. O per dire che non si scrivono più, che si tratti di un medium in crisi o per metterlo in relazione ad altre forme della comunicazione breve. Ed è così che su Il Sole 24 Ore di domenica 15 agosto non poteva mancare la messa a tema della transizione – mancata? auspicabile? inevitabile? – dalla cartolina a twitter.

Senza cadere nel passatismo mediale non si può però negare che a fronte di cartoline scritte, spontaneamente, o addiritttura composte graficamente da artisti, uomini e donne “di cultura” non soltanto per mandare “saluti e baci” (che è il titolo della foto messa qui che non a caso fa parte dell’omonimo volumetto che raccoglie le strampalate e stupende cartoline di Bruno Munari) ma per scambiare pensieri vari, i twitter richiesti dal Sole a talune “personalità” sbiadiscano un po’. Là dove per cartolina si sono scritti la Pivano e Hemingway quando la prima traduceva Addio alle armi, oppure là dove Malaparte spediva cartoline con impresso il suo odore al cavallo Fedro… qua questi twitterini raccolti non si sa bene perché in occasione del ferragosto sanno un po’ di forzato. Tant’è che uno come Franzen ha risposto no grazie. Mi chiedevo poi, senza verificare, ma questi hanno twitter? Hanno fatto un replay? Non ho capito bene. Ho solo pensato che l’operazione fosse abbastanza inutile per forma e per contenuto. Basti pensare che le “personalità” coinvolte non fanno che cogliere l’occasione per ribadire, a parte qualcuno, che la loro sì che è una vacanza figa, via dalla pazza folla!

A queste letture che poi in fondo indagano sull’evoluzione delle pratiche – di scrittura anche – segue oggi un altro articolo di cui sentivo parlare questa mattina su RadioTre della presa di posizione anti-tecnologica di Franzen, appunto, e dei modi in cui si può prevedere il ritorno al romanzo a puntate e forme simili adatte alla diffusione dei vari kindle, Ipad, evabbè. Perché no? Mica male. A me piacerebbe anche quello.

Sta di fatto che “la tecnologia” è anche contenuto dell’immaginario. E la letteratura lo sa bene. Ultimo caso per quanto mi riguarda è Le ho mai parlato del vento del nord di Daniel Glattauer che, idea non nuova credo, si svolge tutto in uno scambio per mail fra i due protagonisti. Gioca sull’attesa, sul tempo perché la mail è lenta. Mi chiedevo, mentre leggevo, perché mai questi due non chattassero 🙂 Eppure è lì che il meccanismo dell’intrattenimento si è prodotto, nel crescendo di aspettative, nella proiezione e a volte nell’identificazione. Come deve essere direi. Tanto poi che il finale, nello scarto con le mie aspettative di lettore, mi ha prodotto un reale mal di stomaco.

Pretty in Pink. Non le Furs ma La Notte Rosa e la sua comunicazione

Può la comunicazione di un evento estivo mettere insieme tutti gli stereotipi della cultura mainstream in una volta sola? La Notte Rosa di Rimini e dintorni ce la fa benissimo.

Lo ammetto è colpa mia se pur consapevole dell’esistenza e resistenza della cultura del loisir – nonché delle sue dinamiche che non vanno giudicate quanto osservate e comprese semmai senza cedere ad atteggiamenti da “cultura alta vs cultura bassa” – la Notte Rosa di Rimini non mi interessa. Nè dal punto di vista della ricerca nè tanto meno come partecipante.

Tuttavia sono anche convinta del fatto che oltre alla necessità di marketing certe carte si potrebbero giocare meglio.

L’altro giorno mentre aspettavo il mio turno in banca ho dato una scorsa al giornaletto/programma degli eventi. Là per là l’ho guardato e riposto poi me lo sono preso perché merita davvero.

Allora da quel che ne so io la Notte Rosa, senza scomodare Umberto Tozzi, è il Capodanno dell’estate. Ma non ne basta uno? Rosa sta non per colore femminile ma per differenzarsi dalla Notte Bianca e veicolare una “nuova” proposta di intrattenimento: non il distretto del piacere – il divertimentificio come si diceva una volta – dello “sballo” in riviera bensì, coerentemente con l’evoluzione della “movida”, una forma di divertimento non più discocentrica ma da aperitivo, da happy hour, in ambienti aperti magari e più soft e con un’offerta più variegata con iniziative “culturali” in mezzo. Insomma per tutti i gusti. Consumi vocazionali?

Per dire tutto ciò il rosa campeggia ovunque e il tutto acquista comunque una stucchevole immagine femminile. C’è anche la Dolce Vita, rappresentata dall’immagine celeberrima, roba da immaginario, di Marcello Mastroianni e Anita Ekberg nella Fontana di Trevi. Che poi è quella del manifesto. Il carattere usato per la scritta La Notte Rosa a me ricorda tanto quello de La Pantera Rosa. Scorrendo le pagine – e facendo caso all’impaginazione con l’inserimento delle foto (per lo più bruttine) in cornici a pellicola cinematografica – vediamo ragazze in bikini che giocano fra palloncini rosa, cappellini rosa con la scritta pink in strass, occhiali rosa, sagome rosa, parrucchiere che acconciano capelli rosa, fenicotteri, cocktail rosa, anche le chiocciole rosa del Cracking Art Group… fino al Martini rosato (che è lo sponsor).

Ci sono cose interessanti in mezzo, non c’è che dire, ma il modo in cui vengono presentate mi sembra che affondino in un mare di rosa che forse, direbbe il teorico dell’informazione, ridonda.