L’immaginario meta-territoriale di Studio Azzurro

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Mea culpa. Mi sono persa l’intervento di Alberto Abruzzese, e anche altro (ad esempio Andrea Pollarini), a Indicativopresente. Trendwatchers in festival. A Rimini, 21 e 22 novembre 2008. Iniziativa molto interessante della Scuola Superiore del Loisir e degli Eventi di Comunicazione.

Non mi sono persa però Paolo Rosa, che ha ricevuto il premio Gianni Fabbri, e il suo racconto in 5 mosse dell’esperienza di Studio Azzurro. Come sempre tento un resoconto parziale, per parole e passaggi chiave utili a mettere insieme alcuni dei frammenti che provo a far circolare in questo blog.

Studio Azzurro è un autore plurale (più ancora che collettivo, ma siamo vicini al concetto). Il suo lavoro artistico emerge dalla tecnologia sebbene la sua genetica non sia poetica. Qualche esempio.

Vedute. Quel tale non sta mai fermo, del 1985. Videoambiente allestito a Palazzo Fortuny di Venezia con le telecamere che riprendendo l’esterno, e con il senso di attesa che restituiscono, si integrano, all’interno, al cromakey in diretta, monitor in semicerchio mi pare e immagini video con personaggi che passano da uno schermo all’altro. Testo di Sergio Leone, musica di Piero Millesi, collaborazione (di quegli anni e cifra di quei lavori) con Barberio Corsetti. Quindi: imprinting narrativo e vocazione all’abito teatrale, proprio per il tipo di scenario costruito e nel gioco con lo spettatore (ripreso mentre passa o entra nel palazzo). Ma anche immaginario cinematografico, combinazione con lo stare in scena degli spettatori, combinazione dei linguaggi del teatro e del cinema appunto. Contro una certa tendenza artistica che Rosa chiama postmoderna qui l’idea è quella di creare un dialogo, montare e non smontare un racconto. Per un pubblico che non deve essere spcialistico.

Il giardino delle cose, 1992. Dal racconto del custode delle vestigia di Delfi, che lamenta il comportamento irrispettoso dei turisti che non colgono il pulsare della vita che sta nelle statue, nelle anfore, ecc., dalla performance teatrale con Moni Ovadia all’installazione. In questo caso il lavoro è sull’inversione del rapporto fra visibile e invisibile, la tecnologia quella della telecamera a infrarossi, temica e tarata sul calore delle mani che passando sugli oggetti li rendono visibili. Opera che si qualifica come un appello del senso, della selezione sul rinvio: estrarre dal flusso delle immagini per conservare quelle che uno ritiene più preziose a partire dall’esperienza; lavorare sull’immaterialità a partire dalla materialità: come si lavora sull’invisibile? Cosa rimane con la temporaneità? Il passaggio è quello che va dalla civiltà del mettere a quella del levare, non oggetti che persistono a tutti i costi ma che stanno per il tempo che devono stare a meno che non ci siano ragioni valide per farle persistere. Come pratica che si oppone alla merce; qui è la tattilità che conta, non il vedere ma il toccare.

E si arriva ai lavori interattivi a cominciare da un classico: Tavoli. Perchè queste mani mi toccano? Interfacce naturali per l’attivazione degli spettatori da osservare non tanto dal punto di vista antropologico quanto performativo: più bello è il gesto dello spettatore che tocca più è rivelatore del farsi esperienza della forma delle cose, a partire cioè dalla relazione che genera. Da oggetto fatto da una persona a oggetto partecipato.

Così come succede a una statua africana, oggetto condiviso dalla ritualità della comunità, feticcio rielaborato dalla partecipazione di chi aggiunge una cosa, poi un’altra… Come si innesca oggi un rito civile, dall’avvio dell’artista alla partecipazione? Il problema è quello di non cadere nella progettazione di comportamenti, nell’induzione della gestualità che deve invece essere imprevedibile, resiliente.

Infine l’attività di allestimento museale. Il Museo della mente di Roma, il caso del Museo della resistenza a Sarzana, a partire dall’esigenza dei promotori di non basarsi sulle nostalgie ma sull’esperienza. Il museo oggi è come un ciclo di affreschi di un tempo, dove c’è sì un committente ma la ricerca artistica resta libera. Liason con il territorio, possibilità di vivere anche la fisicità dell’esperienza (oltre e insieme al trasferimento sui supporti mediali ovviamente); centralità dei processi collaborativi (cultura del dono supportata dalla rete); costruzione e definizione di un progetto museale fra lettura e memoria. La radice dell’arte riguarda l’oscillazione fra futuro e memoria contro l’idea del contemporaneo (e richiama Derrida) per dire che l’arte è attiva nel presente grazie al suo anacronismo. Che non contraddice però il fatto che sia chiamata a essere sensibile alle emergenze del nostro tempo.

La mia domanda è sull’interesse di Studio Azzurro verso i contenuti generati dagli utenti. La risposta: centralità della partecipazione ma selezione dei contributi. Aspettiamo il libro di Paolo Rosa per capire meglio.

Tutte queste cose le hanno sentite circa 15 persone di cui mi pare di aver contato al massimo 5 studenti. Ma, anzi mah, era sabato, ora di pranzo.

Non mi sono persa nemmeno Mario Lupano e Paolo Fabbri. Ma serve un altro post per parlarne. Questo è già troppo lungo.

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Mi è bastato ascoltare su Radio3 suite l’inizio del Siegfried di Richard Wagner per capire che sarebbe stato bello essere al Maggio Musicale Fiorentino. Anche per applaudire all’inziativa – già di per sè parte di una performance – dei lavoratori del teatro contro i tagli previsti dal governo.

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L’opera d’arte totale per Wagner emerge dalla sintesi trinitaria di arte poetica, arte dei suoni, arte della danza. Immagino che l’allestimento di Carlos Padrissa – La Fura dels Baus abbia contribuito non poco a concretizzare la concezione originaria del suo fondatore. Un’opera che nasce dal concorso di tutte le arti e dal desiderio collettivo (qui).

Un’occasione ulteriore per osservare lo stadio evolutivo della comunicazione (dei media, della cultura, dell’arte) ma anche di buon auspicio di questi tempi. O no?

Le nostalgie di un vecchio barbagianni. Pasquale Barbella e il senso della comunicazione

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E’ la strategia retorica di un comunicatore esperto come Pasquale Barbella autodefinirsi “vecchio barbagianni” per parlare alla giovane – e alla meno giovane – platea formata dagli studenti di Scienze della Comunicazione e dei corsi di pubblicità, a Pesaro.

Una lezione di vita oltre che di comunicazione, pubblicità e immaginario che ha avuto fra i vari meriti quello di delegittimare il valore della “furbizia” a tutti costi, perché non è necessariamente l’attitudine necessaria a farsi strada nella vita. In generale. Meglio puntare sullo studium, cioè sulla passione.

Qualche altro passaggio chiave, visto che gli interessati (ad esempio chi ha lavorato con lui come Roberta) hanno seguito sul twitter di Giovanni, per ricordare che la funzione sociale della pubblicità all’epoca del boom economico è stata quella di fare emergere una semantica – Barbella dice idioma – del benessere che ha influito sulla messa a punto dei nuovi comportamenti, di superare le durezze del passato. Uno come lui ha scelto quel mestiere perché: “anche io volevo incidere nel mio piccolo in quel processo di cambiamento”.

Importanza della pop culture, l’esempio dell’Olivetti come fusione di tecnologia e umanesimo, il design italiano fino agli anni ’70, esposto al MoMa tanto per capirsi. Storia dell’illistrazione dal dinamismo di Cappiello, alla storia allusa nel primo manifesto senza figure umane di Dudovich per la Borsalino, fino alla genialità di Munari e il catologo imbullonato di Depero. Fino a Obey. Per dire che: “la pubblicità non è un’arte ma il piacere dell’arte resta nella pubblicità”. L’arte infatti sviluppa il pensiero laterale, cioè quello creativo, necessario per trovare soluzioni.

La cultura è un “meraviglioso giocattolo” da smontare per cogliere il continuum che si snoda nel tempo e nello spazio. Il comunitore, dal canto suo, è un operatore culturale, che sa costruire una visione del mondo senza luoghi comuni. Valore dell’indignazione: “fatti non foste per viver come bruti…”. Sì alle competenze ma non alla superspecializzazione: comunicare vuol dire che in questo senso crearsi conoscenza sempre nuova.

Pasquale Barbella è un istigatore al piacere. In questo momento di cambiamento tocca inventare un nuovo linguaggio. I giovani possono farcela anche per noi.

Bios e Logos. Le voci di Màntica cantano il Paradiso

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Il festival Màntica. Esercizi di voce umana si sta svolgendo in questi giorni. La sede è quella del Teatro Comandini di Cesena. Si sviluppa fra laboratori, spettacoli, performance e ascolti di voci esemplari.

Quello che ho colto dalla presentazione, in sintesi: il desiderio è il luogo comune della ricerca artistica. In questo caso si tratta non tanto di impostare una metafisica della voce quanto seguire la tensione della voce come bios, che viene prima della parola e che continua con la musica. Il suono. Che si carica di una parte emotiva (temperatura della voce). Una voce non può dire tutte le parole per cui si cerca la forma giusta delle parole che sono “colpi”. Ecco, il logos non deve intaccare il desiderio di disegnare attraverso la voce che sa, di suo, andare verso una direzione drammaturgica: la voce che mi seduce. C’è – dice Chiara Guidi – una drammaturgia che nasce da una voce che mi seduce, e la musica, fra le arti, è quella che manifesta in me in desiderio latente. E la voce sa anche essere un’ingiuria poiché denuncia la sua debolezza nel confornto del logos che – nella società letterata e nel moderno – ha sempre la meglio.

Màntica – spiega Silvia Bottiroli – è la logica di concertazione del festival stesso, nella struttura ritmica interna articolata e pensata nelle sue parti per trovare la sua mergenza più sensata.

Come prologo: Paradiso, installazione di Romeo Castellucci che chiude la trilogia della Divina Commedia, Chiesa di Santo Spirito a Cesena.

Il Paradiso è là dove la voce ammutolisce perché si vede qualcosa per cui la poesia deve tacere, le cose scritte – il Verbo? – non possono essere dette. Come sempre una spiazzamento. Là dove l’immaginario disegnato dalla commedia ci fa pensare a un abbaglio di luce qua ci troviamo a oltrepassare la soglia liminale di un pertugio nero per entrare nel buio ancora più nero. Cade come una cascatella di acqua dall’alto – simbolo di vita, di morte o di entrambe? – e una figura in video di uomo, un mezzobusto, che sembra incastrato ci fa pensare: il Paradiso va conquistato con fatica? Oppure è un’idea da cui liberarsi? Non lo so proprio.

Capisco però che in tutta questa operazione ci trovo l’origine della performance: il bios, il rapporto fra corpo e  voce espresso dalla metafora (il polmone è un mantice) cioè l’oralità, il suono da cui nasce la rappresentazione. Poi c’è la parola, il teatro, il logos. La cultura letterata. Oggi, dove la cultura è digitale e la comunicazione tende verso il recupero della sua migliore dimensione sociale Màntica vuole essere anche immaginazione del futuro, la descrizione di quello che sarà. La sintesi sta nella natura umana e nell’armonia, anzi nella ricerca di una nuova solidarietà fra bios e logos.

Una performance per Internet. Marco Montemagno a Urbino

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Nella cultura di Internet ci sta anche il fatto che se Prince può “regalare” la sua musica è perchè la performance dal vivo lo ripaga. Con l’unicità di un evento nel quale esserci o meno fa la differenza. Perchè la replicabilità, così come il trasferimento su un supporto video o, meglio ancora, la sua diffusione su YouTube lo rendono sì un prodotto mediale a sè, condivisibile, circolabile, meta-territoriale ma non gli tolgono (e ci mancerebbe altro) la sua qualità evenemenziale e di partecipazione nel qui ed ora. Anzi, di più, ora quell’attributo assume ancora più valore.

Poi lo sappiamo che grazie a Internet “esserci” può voler dire anche altre cose. Soprattutto se usata con “buon senso”. E sì, Marco Montemagno (Codice Internet) ha usato proprio questa espressione nella sua conferenza-spettacolo di oggi a Urbino. Non poteva esserci un’occasione migliore per inaugurare ufficialmente il corso di laurea di Scienze della Comunicazione.

Sì perchè – fra efficacia e intrattenimento (e risate pure), fra conferenza e spettacolo appunto – Internet ne esce non tanto come medium ma come organismo vivo e tenuto in vita dalle persone (comptenze, condivisione, relazioni fra le parole chiave). Senza sottovalutare il fatto che la cultura di Internet e la sua diffusione passano attraverso il passaggio di immagini e immaginario della rete stessa. Per capirlo serve l’uso di metafore, immagini e video, integrato alla scelta di parole “che sono importanti” (e qui viene in mente il Moretti di Palombella rossa direi) per imbastire una drammaturgia narrativa (visiva, sonora e sempre evocativa).

Mi dicevo mentre ascoltavo, chissà, se scrivo un post su questo e se qualcuno si prende la briga di leggerlo e magari di commentarlo è perchè anche io nel mio strapiccolo sto cercando di capire e di fare parte di questo processo. Ma so anche che sarà più importante che sia io a leggere gli altri, a commentarli, eccetera. Sicuramente più utile per me.