Rappresentazione senza rappresentazione. The evening di Richard Maxwell

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Che la forma teatrale ci metta costantemente di fronte alle possibilità del processo del raddoppiamento di realtà, ovvero dei modi con cui il meccanismo realtà/finzione può essere articolato, è un assunto noto. The Evening, recente lavoro di Richard Maxwell e della sua compagnia New York City Players, andato in scena il 19 e il 20 maggio all’Arena del Sole di Bologna, ne è un’ulteriore, particolarmente interessante, dimostrazione.

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Sul piano dell’immaginario The Evening “rappresenta” uno scenario che, per lo meno all’occhio dello spettatore italiano, rimanda all’America che nasce dal western (tema peraltro già trattato da Maxwell) e finisce nei bar e nelle solitudini di quei personaggi un po’ persi, eroi caduti o meglio ancora caduchi, raccontati dal cinema e dalla serialità televisiva contemporanea. Identità fragili, post 11 settembre viene da dire, che si confrontano più o meno esplicitamente con la morte sullo sfondo dell’inferno dantesco cui questo lavoro dichiara di ispirarsi.
Ed è così che inizia lo spettacolo: Cammisa Buerhaus in scena legge un testo che racconta gli ultimi giorni di vita di uomo accudito dal figlio. Prologo biografico dello stesso Maxwell che ha perso il padre durante la scrittura di questo spettacolo.
Poi entrano gli attori e viene costruita una storia con dei personaggi – una prostituta-barista (Bea interpretata da Cammisa Buerhaus), un pugile in declino (Asi aka Brian Mendes), un manager sballato (Cosmo aka Jim Fletcher) – accompagnati da un gruppo musicale (James Moore, Andie Springer, David Louis Zuckerman) che suona dal vivo le musiche (anche queste di Maxwell) nella più normale situazione da bar: avventori che interagiscono e musicisti che vanno avanti imperterriti nell’escalation drammatica.

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C’è una relazione transitiva fra i tre personaggi, fra i loro desideri mancati: lei vuole andare via; il pugile vuole trattenerla; il manager la sostiene perché trova nello “sballo” la sua propria forma di fuga. Fino a quando lei non spara a entrambi e da lì, spogliando i compagni e rivelando il dispositivo scenico della sacca con il sangue finto nascosto sotto i vestiti, comincia a essere smontata la scena: il bar, gli strumenti, le casse vengono tolte e viene ricostruita una scena siderale, completamente bianca, in cui i tre si fermano e lei, indossata una giacca di pelo bianco ci proietta in un altro immaginario ancora, fantascientifico e primordiale, recitando un’ultima poesia.

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È questo il dispositivo tutto teatrale su cui viene messa a punto una particolare declinazione del raddoppiamento di realtà: la rappresentazione – la trama, i suoi personaggi, la scenografia iper-realistica – tracima nella non-rappresentazione attraverso una serie di espedienti drammaturgici fatti di presenze sceniche e relazioni “improprie” (per dirla con Piersandra Di Matteo) che rompono e mantengono il patto finzionale con lo spettatore (Ferraresi).

Prima di tutto il testo: dal prologo biografico alla serie di dialoghi banali, normali che diventano via via più lirici e potenti fino alla dimensione poetica del finale. La recitazione sottratta, meccanica, per personaggi “disossati” (ancora Di Matteo), che proprio per questo possono essere trattati da Maxwell come archetipi, adatti alle necessità simboliche del nostro tempo ovvero a figure ambivalenti, sbagliate, che attivano meglio i processi d’identificazione e proiezione del pubblico. I musicisti “veri”, la musica “vera” che solo in parte sembra fare da contrappunto e da coro alla vicenda per poi andare per i fatti suoi. La scenografia – il bancone, la tv che trasmette una partita di football americano, il tavolino, le sedie, le birre, la pizza – costretta in uno spazio ridottissimo, stretto sul proscenio che diventa costrizione reale – quando lei cerca di scappare da lui non può far altro che nascondersi dietro al batterista e di fatto restare sempre lì, ad esempio – e prigione simbolica, metafora degli atti mancati, del desiderio che non riesce ad avverarsi e che pian piano muore.

Il gioco relazionale della rappresentazione nel Nowness Mystery di Cuquí Jerez. Spielart 2011.

Con The Nowness Mystery Spielart 2 dicembre 2011 – Cuquí Jerez, con la complicità delle scanzonate Maria Jerez, sua sorella, e Amalia Fernández, interroga i limiti della rappresentazione, il rapporto fra performer e spettatori e in definitiva, coerentemente con un percorso di ricerca che fa da filo rosso a molta della produzione contemporanea, i livelli di realtà che stanno in rapporto dialettico (dentro/fuori) con la finzione.

La piéce si compone come un montaggio di sketch in cui le due attrici in scena improvvisano situazioni banali e giocherellone che vengono collegate senza soluzione di continuità nel tempo previsto e cronometrato dall’inizio dalla stessa Cuquí.

An experiment. A work based on the experience of the present. The void of the present as a space for opportunity and a spece for failure (Cuquí Jerez, foglio di sala).

Ed è lei che da un angolo fuori dalla scena – ma a ben vedere presente e protagonista alla maniera di Tadeusz Kantor – trascrive sul portatile, collegato al proiettore che permette di leggere sullo schermo, commenti sulla resa o meno delle “trovate”, per dirla con Barthes, delle due attrici oppure battute e pensieri che rivolge direttamente agli spettatori.

Nell’andamento dello spettacolo –  processo dinamico fatto di comportamenti recuperati e di spunti improvvisati – c’è la consapevolezza del funzionamento dell’intrattenimento come meccanismo drammaturgico che deve portare da qualche parte, ma senza essere narrativo, verso la conclusione di una “scenetta” da collegare a quella successiva finché il tempo a disposizione lo permette.

Il senso ultimo del Nowness Mystery sembra poi stare tutto in quelle note di regia e in quei flussi di pensiero condivisi in nome del processo comunicativo e ralazionale con gli spettatori. Nella creazione di un evento che, pensato e realizzato così, non può che essere unico e irripetibile, frutto della dinamica comunicativa e del dominio consensuale creato qui ed ora in quella realtà misteriosa e senza tempo del teatro e del suo immaginario.

Cuore e neo-corteccia. Casi di teatro contemporaneo

Il teatro è quello che è. Performance riflessiva strutturata nel disaccoppiamento vissuto/rappresentazione. Questa resta la forza del “medium” secondo me, il suo bello. Allora in Italia ci sono casi importanti per estetiche e poetiche.

Domenica ho visto con Sandra, Hey Girl della Sociétas Raffaello Sanzio, al Comandini di Cesena. Al ritorno si ragionava sulla capacità di lavorare su evocazioni, citazioni, immaginari che in qualche modo stimolano il ragionamento, la volontà di capire come sfida cognitiva. A me sembrava il caso di Hey Girl, diverso da altri lavori della Raffaello, potente come sempre dal punto di vista estetico (con Sandra si pensava a Bock e Vincenzi ad esempio per il primo bellissimo quadro, qui nella foto e qui) e distaccato. Buono per pensare. Come deve essere l’arte poi.

Tutto diverso da Il festino, di Emma Dante. Visto al Sanzio di Urbino. Non che siano paragonabili i due casi solo che qui l’impatto estetico – in senso lato – si integra in modo forte alla rappresentazione e alle corde dei vissuti, al peso della parola narrata. Altro modo per lavorare sulla riflessività. Per la terza volta in vita mia ho pianto a teatro.