Con Cantico dei Cantici, in anteprima nazionale a Primavera dei Teatri, Roberto Latini affronta uno dei testi più lirici e inusuali delle Sacre Scritture. Attribuito ora al Re Salomone, ora a un autore anonimo del IV secolo avanti Cristo, il testo è costruito in 8 capitoli contenenti poemi d’amore in forma dialogica tra Salomone e Sulammita. Sia nell’interpretazione cristiana, sia in quella ebraica il testo va inteso in senso trascendente rispetto alle immagini erotiche che contiene perché l’amore ha origine divina, riguarda l’amore tra Gesù e la Chiesa nel primo caso o l’amore di Dio per il popolo d’Israele.
Ma è proprio da queste declinazioni dogmatiche che Latini libera il testo trasformando il senso religioso in re-ligo, in relazioni cioè che attivano i corpi, quei corpi che nel patto teatrale sono quelli dell’attore in relazione con i suoi spettatori. Quello che Latini offre è la relazione incarnata di un corpo-voce che si dà tutto, sensualmente ed eroticamente attraverso le parole del Cantico e grazie a una costruzione drammaturgica praticamente perfetta che mette in relazione – parola chiave che torna – spazio, oggetti, tempo, musica e suoni.
Musica e suoni (curati da Gianluca Misiti) sono colonna portante della drammaturgia che usa i codici estetici del pop ed è anche un esempio di quel processo di mediatizzazione che riguarda le forme espressive contemporanee, non tanto per l’uso dei media ma per le modalità con cui i media sono parti dell’esperienza. E allora ci stanno i Placebo con Every you and every me, canzone d’amore che sembra una versione laica e disturbata del Cantico, ci sta A far l’amore comincia tu di Raffaella Carrà nella versione di Bob Sincler, che forse non a caso rimanda a una delle scene più famose de La grande bellezza, così come ci sta il cinema e il Cantico dei Cantici che la giovane Deborah legge a Noodles in C’era una volta in America.
Lo spazio è quello di una onirica postazione radiofonica e Latini si presenta come uno stralunato dj-joker (cappotto viola, parrucca, rossetto), che alterna l’ascolto della musica in cuffia, l’affabulazione e il silenzio. Si alza, viene al microfono, balla, attraversa lo spazio fino al crescendo finale per in cui l’ultima parte del poema diventa uno struggente parlato-cantato. Toglie il travestimento e riaffiora tutta l’umanità del performer insieme al senso sacro del teatro.
RAFFICHE – RAFALES > MACHINE (CUNT) FIRE è il re-enactment di Splendid’s, lo spettacolo realizzato da Motus nel 2002 tratto dalla pièce teatrale di Jean Genet del 1948, che oggi viene riscritto da Magdalena Barile con Luca Scarlini. Laddove Splendid’s si basava sul testo originario ed era interpretato da un cast maschile, Raffiche traduce in chiave gender e con cast tutto femminile le ultime ore della banda La Rafale – qui Le Rafales –, asserragliata in una stanza dell’Hotel Splendid, dopo aver rapito e ucciso un ostaggio. Il plot, dunque, è lo stesso della prima versione, così come i personaggi, i loro nomi e caratteri e, soprattutto, la relazione entropica fra i membri del gruppo, fra conflitto e attrazione omoerotica, fra fedeltà e tradimenti. Ritroviamo, coerentemente con lo scritto di Genet, l’autorappresentazione del duro, i cliché comportamentali da banditi di mezza tacca, l’ironia e la vigliaccheria. Ogni membro è una personalità complessa e affascinante, ambivalente e imprevedibile ma ormai senza futuro. No future.
Il mancato ottenimento dell’autorizzazione da parte di chi detiene i diritti d’autore a riproporre Splendid’s con attrici al posto degli attori si è rivelata per Motus una risorsa, piuttosto che un limite, non solo per ripensare l’opera di Genet nella chiave concettuale del gender – a cominciare dalla dissociazione dell’identità fra sesso e genere – ma anche, in maniera non sganciata da questa, di addivenire ad una vera e propria nemesi socio-politica. Aggirare il copyright, svelare i limiti della proprietà intellettuale, soprattutto di quella artistica che, oggi più che mai richiedono collaborazione, condivisione e circolazione: If It Doesn’t Spread, It’s Dead.
Le Raffiche, nella riscrittura neo-genetiana, non sono più una “semplice” banda di gangster quanto un gruppo di attiviste bio-politiche che lottano contro il regime patriarcale, contro la bonifica dei corpi ottenuta attraverso la messa a punto di dispositivi disciplinari basati sul codice binario normale/non normale. Dispositivi coercitivi che sono prima di tutto «imposti dalla tecnologia biochimica e dal farmacopotere che, attraverso gli ormoni, detiene dagli anni Cinquanta del Novecento il controllo sui corpi, sui generi, e sulla nozione di “normalità”» (Annalisa Sacchi).
La dialettica fra normalità e non normalità, sesso e genere, fra identità socialmente data e costruzione dinamica, sta nel rapporto fra langue e parole, fra l’istituzione della norma e la sua messa in pratica che di fatto la cambia. Il linguaggio è importante in questo lavoro, il testo rivendica la centralità che gli spetta ma in connessione con i corpi e le vite che lo parlano e lo agiscono performativamente. Come dice Rafale a Scott
Tu mi insegni, Scott, la grammatica è un’invenzione capitalistica patriarcale che regola e dispone i corpi del discorso secondo modelli imposti che vanno scardinati. Dobbiamo riappropriarci del discorso, ri-sessualizzare la punteggiatura.
Non è perciò un caso che anche lo spettacolo nel suo complesso sia pensato come un dispositivo, un insieme di dinamiche capaci di svelare come l’unità sistemica – la banda – possa mantenere la sua identità e la sua organizzazione solo finché l’individualità delle sue parti si mette al servizio del tutto. Solo che, trattandosi di esseri umani e di decisioni da prendere, tutto congiura contro la possibilità di resistere. Capiamo che all’inizio la complicità è garantita dalla forza delle idee teorizzate da Scott (Emanuela Villagrossi) e dalla credibilità di Jean (Silvia Calderoni), il capo carismatico e non violento. Ma nel momento in cui l’ostaggio viene ucciso, a sua insaputa e non si capisce da chi – Riton (Alexia Sarantopoulou), antagonista ed ex amore di Jean o Bravo (Sylvia De Fanti) pornoqueer sfrontata e provocatoria? – comincia a perdere la sua autorità: Bob (I-Chen Zuffellato) decide di non ubbidire più ma mantiene un rapporto di protezione nei confronti di Pierrot (Ondina Quadri), disperata per la perdita della gemella Dedè, uccisa dalla polizia; Rafale (Ilenia Caleo), il soldato, fedelissima e amante di Jean, dovrà tradirlo in nome del gruppo “che decide”. Senza contare il ruolo distruttivo giocato dalla poliziotta (Federica Fracassi). Elemento esogeno che s’infiltra, dapprima come auto-ostaggio, ammiratrice delle Raffiche e complice ma che rientrerà nei ranghi, contribuendo all’arresto della banda, per salvarsi. La poliziotta è l’elemento di connessione simbolica con il fuori: la polizia che cerca di stanare le terroriste, i media che, dalla radio, contribuiscono alla costruzione narrativa e al mito delle rivoltose.
L’atmosfera è perciò quella della cronaca nera, la capacità di fascinazione con cui l’industria culturale ha saputo, e sa ancora, costruire le sue mitologie. E infatti sono le ammiratrici/fan delle Raffiche a dedicare A Mourir pour Mourir di Barbara alla radio e a regalare alla banda un ultimo momento di armonia.
(Tornano in mente i passi di danza inventati per Splendid’s da Damir Todorovic, Regina delle Raffiche, alla cui memoria è dedicato lo spettacolo).
Il dispositivo drammaturgico è basato sulla partitura di brani musicali che accompagnano l’entrata e l’uscita di scena dei personaggi (ad esempio l’entrata memorabile della poliziotta su Gangsta di tUnE-yArDs o di Riton su Settle Down di Kimbra e l’uscita finale su Good Save the Queen versione Nouvelle Vague).
La musica e le azioni coreografate, insieme alla recitazione che, nello spirito del lavoro di Genet, è sempre un po’ volutamente “sopra le righe”, riescono a produrre quell’effetto di straniamento che permette allo spettatore di godere della dinamica fiction e, allo stesso tempo, di concentrarsi riflessivamente sulla vicenda delle attiviste.
La caratteristica site-specific dello spettacolo inoltre, ovvero l’ambientazione nelle suite e stanze d’albergo “vere” e che cambia di volta in volta, gioca a favore della messa a punto del dispositivo di visione e di coinvolgimento fisico che rimanda ad uno dei topoi centrali della poetica di Motus: quell’occhio belva che invade l’intimità altrui, anche senza telecamera, ma che nello stesso tempo ingaggia i corpi delle attrici e degli spettatori tenendoli stretti in uno spazio condiviso, anche metaforicamente. Lo spettatore guarda ma è anche vicino. La quarta parete si rompe e ricompone: la storia va avanti indipendentemente da noi ma succede di ricevere un fiore da Jean, ad esempio, ed è allo spettatore che sempre Jean si avvicina per giustificare l’uccisione dell’ostaggio come un errore…
Che poi, in realtà, la relazione con lo spettatore inizia prima, nella hall dell’albergo quando le Raffiche ti vengono a prendere. Officianti del rito teatrale ti fanno varcare la soglia, entrare nello spazio liminale, sacro-separato, da cui usciranno alla fine sconfitte, permettendosi per una volta il «lusso della debolezza». Il che consola anche te.
Come tappa del più ampio progetto seriale dedicato alla retorica del nostro tempo e alla tossicità che caratterizza il discorso pubblico – sempre più contaminato dalle interferenze mediali e dal rapporto che i sistemi sociali intrattengono fra di loro – Scrooge è lo spettacolo che getta le basi di quello che sarà il discorso dedicato al denaro.
Ne abbiamo parlato con Chiara Lagani e Marco Cavalcoli durante l’incontro con il pubblico che si è tenuto nel ridotto del Teatro Petrella dopo lo spettacolo e da cui sono emerse alcune tematiche centrali del progetto Discorsi che riflette sulla possibilità di creare comunità attraverso la parola. Ma anche attraverso il teatro che, a suo modo, è ancora il luogo in cui, seppur temporaneamente, si genera qualcosa di simile all’idea di comunità. Nel caso di questo lavoro si tratta perciò di tenere conto di come il discorso pubblico sia mutato nel corso del tempo e di come la televisione, ad esempio, si sia imposta come “grande ordigno di discorsi” (per dirla con Chiara Lagani). Non possiamo perciò fare altro che osservare le trasformazioni del linguaggio e la parallela mutazione antropologica di cui l’economia e il denaro sembrano essere luoghi di osservazione privilegiati.
Un tema, quello dell’economia, che F&A affronta, così come abbiamo potuto vedere negli episodi precedenti – Discorso Grigio, Discorso Giallo, Discorso Celeste – appoggiandosi all’immaginario collettivo e alla sua strumentazione metaforica. Strumenti utili a osservare il denaro come quell’oggetto che, trasformando le qualità in quantità, è in grado di scambiare tutte le cose al di là delle loro differenze di valore. E così il mito dell’avidità, e il potere che ha il denaro di definire anche i rapporti sociali, confluisce in un’altra potente mitologia: quella del capitalismo e dei suoi officianti. Su queste basi F&A si chiede allora quale sia il linguaggio usato per addomesticare le folle sulla questione del denaro, vero centro nevralgico del potere. Per F&A il terreno immaginario più adatto a lavorare riflessivamente su questa domanda è prima di tutto quello americano, qui risolto usando la trasposizione disneyana del Canto di Natale di Dickens. La prima operazione della compagnia può quindi essere rintracciata nell’utilizzare un prodotto culturale già di per sé frutto del processo di acclimatazione della letteratura in una forma edulcorata, semplificata, adatta alla fruizione del grande pubblico della cultura di massa novecentesca. Una narrazione dell’economia e delle sue dinamiche che rendendo “simpatico” Paperone (Uncle Scrooge), il capitalista taccagno per antonomasia, contribuisce a rinforzare il mito (universale) dell’avidità e della ricchezza.
Per rispondere alle questioni che ci poniamo cerchiamo come sempre una figura archetipica, un mito chiave che ha informato di sé la nostra cultura occidentale fino a diventare metafora. Allora vai a cercare e trovi due figure: il riccone dei ricconi che è Paperon de’ Paperoni, Scrooge McDuck e lo Scrooge di Dickens, il personaggio preso non a caso da Disney e messo poi nel corpo di Paperone. Queste due figure si incarnano in un unico corpo di questo signore in frac [Marco Cavalcoli] che è un po’ Paperone, un po’ Scrooge ma anche uno strano venditore di parole che disegna la storia del denaro dall’uomo primitivo a oggi per venderci un’idea, che è poi la sua grande trattativa (Chiara Lagani).
Nella prima parte dello spettacolo Marco Cavalcoli è l’uomo in frac che, in piedi su di una pedana circolare, dà il ritmo del racconto sviluppato nel video dove scorrono le immagini dei cartoni disneyani – una vera e propria lezione di economia impartita da Paperone a Qui, Quo e Qua alternate al Canto di Natale, sempre coi paperi – mixate dal live electronics di Emanuele Wiltsch Barberio. Qui Uncle Scrooge/Paperone/Cavalcoli racconta la storia del denaro, imposta la sua trattativa affiancato da una serie di alter-ego – Qui Quo Qua in primis – incarnati da Chiara Lagani, vocalist in scena.
Disney disegna un immaginario medio che è già un immaginario vintage per noi. Questo immaginario di ricchezza che viene ridipinto è quello in cui Paperone è quello che si è fatto da sé, dalla numero 1 in poi, colui che riesce ad ottenere la ricchezza col duro lavoro, con la sua fatica. Quando Disney scrive la storia di questo grande Papero nel 1967, si rivolge alla classe media per costituire l’immaginario culturale della middle class americana. Il nipote è questo disgraziato che lo zio vuole si tolga dalla povertà con il lavoro; i nipotini vogliono diventare ricchi e perciò chiedono allo zio una lezione per come riuscirci. Disney, quindi disegna la classe media utilizzando una serie di stereotipi mentre in Dickens la tematica è più complessa e cruda. Anche se il racconto finisce bene traccia una situazione marcata dalla mancanza di compassione che è una delle questioni su cui interrogarsi quando si parla di ricchezza. Scrooge è così perché non riesce ad avere compassione, cioè identificazione simpatetica e profonda con l’altro. Però è importante partire dall’immaginario della classe media perché in fondo è il nostro. Quindi bisogna fare i conti con quell’immaginario, con i suoi luoghi comuni, le sue derive, ma anche con le sue possibilità rivoluzionarie perché dentro i grandi immaginari c’è sempre una scintilla impazzita da cui forse puoi partire per scardinare certe cose e certe certezze (Chiara Lagani).
Abbiamo scelto Disney anche perché c’è una sorta di apologo morale sia nello Scrooge di Dickens sia che nell’Uncle Scrooge di Disney, con la differenza che Dickens ha un’intenzione di progresso per l’umanità mentre nella versione di Disney si ha sì un’intenzione di progresso ma però è legata all’idea che siamo tutti un po’ bambini. Ci rifacciamo sempre un po’ alla nostra infanzia nel momento della compassione… In Disney la situazione è particolare perché il cartone animato, mentre spiega a Qui Quo Qua, cioè ai bambini, l’economia in realtà sta descrivendo come gira il mondo: ad un certo punto si vede proprio il mondo che viene fatto girare dalla circolazione del denaro ed è un po’ come se ci stessero insegnando che attraverso questo strumento – che non devi lasciare pigramente in un magazzino ma che devi far circolare – tu dai vita al mondo. È la favola della circolazione del denaro ma c’è un’intenzione morale molto forte” (Marco Cavalcoli).
Lo spettacolo è costruito seguendo una drammaturgia “incubotica”, in un crescendo sempre più pazzo in cui le due figure in scena – cha ballano, cantano, si trasformano nei cartoni che imitano, maschere al cui calco cercano di aderire – lavorano sulla caricatura mettendo a punto una modalità di recitazione antinaturalistica legata ai personaggi “gommosi” provenienti dal fumetto e che diventa poi un modo naturale di esprimersi.
Gli attori interagiscono fra loro e con la presenza scenica del dj, con i frammenti musicali, i suoni prodotti dal vivo e con le immagini del video di ZAPRUDERfilmmakersgroup, frutto di un montaggio psichedelico e vorticoso funzionale alla tossicità dell’intero impianto scenico.
L’altra questione che trattiamo è quella della manipolazione, della tossicità. È tossico il protagonista in frac che vi entra dentro nelle sue varie metamorfosi; ma è tossico anche il denaro. C’è un discorso sulla tossicità del denaro. Lui ipnotizza il pubblico ma è ipnotizzato lui stesso, intossicato completamente. Il suo credo, la sua grande religione, questo denaro di cui parla continuamente dall’inizio dello spettacolo lo ha invaso completamente. È disarticolato in tutto quello che fa, prova una sorta di ebrezza dionisiaca nel riferirsi a questa storia che racconta e ne è soggiogato, completamente vittima di questo ritmo impazzito. Nel cartone di Disney che è del 1967 ad un certo punto Paperone fa in modo di far firmare un contratto ai nipotini, che gli chiedono come far fruttare il loro dollaro e novantacinque. Qui Quo e Qua diventano azionisti di questa “grande idea”, un fondo di investimento di cui nessuno sa le regole. Si crea uno strano rapporto tra l’affabulatore-attore e il pubblico a cui lui vuole vendere la “grande idea” e che è costretto – quasi come Qui, Quo e Qua – a firmare un contratto, ad esempio con l’acquisto del biglietto per avere il diritto di vedere lo spettacolo, diventando così azionista di qualcosa.” (Chiara Lagani).
Probabilmente è l’aspetto più misterico che abbiamo affrontato con questi Discorsi. Forse è per questo che è uno spettacolo in cui mettiamo in campo i diversi linguaggi sperimentati negli anni e li facciamo dialogare in una sorta di teatro totale, più di quanto sia accaduto con i discorsi precedenti. Probabilmente perché c’è veramente un elemento magico, misterioso al limite dell’illusionismo dove l’illusionista è partecipe lui stesso dell’illusione. Anche perché fondamentalmente mentre esistono sterminati trattati sull’economia nessuno ha capito veramente cos’è successo con l’invenzione del denaro (Marco Cavalcoli).
Ad un certo punto il video si trasforma in una specie di tunnel spazio-temporale attraversato da Scrooge, che lo proietta nel passato e nel presente segnando così le caratteristiche di questo studio (che per ora lascia in sospeso l’analisi del futuro). Cerchiamo di capire come.
Scrooge è costruito drammaturgicamente sulla sovrapposizione dei tre fili che caratterizzano il lavoro di F&A: l’elemento mitico, quello biografico e quello storico legato alla cronaca. Nella storia di Dickens rivisitata da Disney i due episodi del passato e del presente corrispondono a due episodi specifici. Il primo è quello in cui Paperone è visitato da Fred/Paperino che lo invita alla cena di Natale e che viene mandato a quel paese da un Paperone inaridito e incapace di compassione verso l’unico legame familiare che ha. Il secondo riguarda l’amore di Paperone per Isabel alla quale però rinuncerà per amore del denaro. A queste due piccole lievi narrazioni F&A sovrappone le storie di due grandi figure del capitalismo italiano: Gianni Agnelli e Silvio Berlusconi.
Nel parallelo fra l’episodio della cena natalizia e le vicende di Agnelli F&A indaga, senza giudicare, la delicatissima questione del rapporto fra Agnelli e il figlio e con essa la storia economica incentrata sulle grandi imprese familiari e le sue vittime sacrificali.
Il rapporto con l’amore e Berlusconi porta naturalmente agli “scandali” che l’hanno riguardato – qui resi efficacemente in video nella metafora del burlesque e nelle immagini di Dita Von Teese – e che porta a riflettere su “questo amore spasmodico, su questa volontà di possedere corpi giovani e belli che possono essere comprati”. Ma che rapporto c’è fra questo amore comprabile e quello non negoziabile di Isabel/Paperina?” (Chiara Lagani).
Sono questi dunque i piccoli attriti su cui sta prendendo forma il Discorso Verde ma a cui F&A non vuole offrire né giudizi morali né soluzioni. Sta di fatto – sottolinea Chiara Lagani – che la scelta di Agnelli e Berlusconi rimanda al disegno del carattere culturale di due figure che hanno dato forma a due epoche della vicenda storica italiana. Due modelli culturali da considerare quando si pensa all’economia e al rapporto con il denaro in Italia e che possiedono – seguendo ancora Marco Cavalcoli – quella qualità universale, per lo meno nella nostra cultura, che li rende modelli durevoli nel tempo.
Fra i lavori presentati (e che ho visto) nell’ambito di Trasparenze/Festival – che per me è diventato un appuntamento da non mancare (grazie a Silvia Mei) – La famiglia Campione dei toscani Gli Omini e I ragazzi del cavalcavia delle romane Industria Indipendente marcano un ulteriore campo d’azione di quello che varie volte ho chiamato teatro riflessivo, cioè attento alle istanze di “realtà”. Per farlo utilizzano il sistema “sociale” famiglia come luogo di osservazione del “sociale” e la comunicazione come processo che lo fa funzionare. Una dinamica che inizialmente riguarda le interazioni fra i suoi membri ma che poi – sganciandosi da quelle relazioni concrete ancorate a delle persone/personaggi – va a costruire una metafora di famiglia, un costrutto simbolico, astratto e universale e perciò molto adatto per pensare.
ph dario garofalo
La famiglia Campione è uno spaccato intimo, privato su una famiglia piccolo borghese come tante – campione, appunto – che svela da subito le patologie relazionali e i paradossi comunicativi che caratterizzano il mondo più vicino che ci sia. Non è un caso che questo lavoro sia il frutto di una ricerca di stampo etnografico condotta dalla compagnia su cinque comuni della provincia fiorentina e che ha coinvolto un’ottantina di persone, producendo delle tappe confluite successivamente in questa versione dello spettacolo.
I tre (molto bravi) attori (Francesco Rotelli, Francesca Sarteanesi, Luca Zacchini) interpretano nove personaggi (più uno – Giulia Zacchini – che vedremo solo per una attimo alla fine). Una moglie un po’ arrabbiata, un ex marito in disgrazia e arrendevole, un nuovo compagno strafottente e grossolano; quattro figli: un maschio che sta sempre in casa, una figlia inconcludente che vuole aprire una gelateria a Londra ma magari anche in Italia, un’altra (anche lei frutto della prima coppia) che si è chiusa in bagno per tentare di non comunicare; un figlio, nato dalla seconda unione e molto simile al padre, in partenza per Dubai in cerca di fortuna; tre anziani nonni che, dall’alto di una vita già vissuta, dispensano perle di saggezza con lucida ironia.
Un lessico quotidiano dalla forte cadenza dialettale, toscana, segna gli scambi di battuta fra di loro, dà forma ai personaggi, alle loro personalità e, soprattutto, mostra l’eccesso di comunicabilità – ancor più evidente quando si tenta di non comunicare – che caratterizza un contesto sociale particolare come la famiglia e le sue dinamiche. Ad esempio l’avvicendarsi delle posizioni comunicative, la loro complementarietà: il marito debole sovrastato da quello forte, anche se poi s’impone con la sua presenza e i suoi regali alla ex e ai figli. Oppure la figlia chiusa in bagno che solo apparentemente si sottrae alla comunicazione obbligando di fatto gli altri a prenderla in considerazione e a preoccuparsi per lei. Questi scambi sono scanditi dalla presenza di mele in scena, mele che vengono morse, condivise, passate e, alla fine, accaparrate dalla figlia che se le porta in bagno. Una sorta di quasi-oggetti (direbbe Michel Serres) che, passando di mano in mano, costruiscono la relazione. Perché nonostante tutto la relazione fra questi genitori, figli, fratelli, nonni, coniugi ed ex c’è, non è da negoziare, svelando di fatto la normalità di una famiglia campione allargata che ci fa pensare e sorridere della nostra.
Altro spaccato di “realtà” e altro scenario linguistico e culturale è quello proposto da I ragazzi del cavalcavia di Industria Indipendente (Erika Z. Galli e Martina Ruggeri), in prima assoluta a Modena il 9 maggio, vincitore del Premio Giuria Popolare Dante Cappelletti 2015. Liberamente ispirato agli incresciosi fatti di cronaca che la nostra memoria mediale sostanzia nella formula dei “sassi lanciati dal cavalcavia”, lo spettacolo descrive il passare nella città di T. delle giornate del Natale 1996 della famiglia F. Lo spettacolo quindi prende dichiaratamente spunto dalle vicende dei fratelli Furlan di Tortona che in quell’anno lanciarono dal cavalcavia di Cavallosa di Tortona il masso di tre chili che uccise la neo sposa Maria Letizia Berdini.
Quattro fratelli maschi e uno zio si muovono lungo una serie di scene costruite per quadri che, con pochissimi elementi di contesto, riescono a definire efficacemente il frame drammaturgico. Attori (Alberto Alemanno, Maziar Firouzi, Francesco La Mantia, Daniele Pilli, Michael Schermi) e registe (Erika Z. Galli, Martina Ruggeri – assistenti alla regia Astrid Meloni/Maria Teresa Berardelli) (anche in questo caso tutti davvero bravi) ci fanno passare da una cava – o qualcosa del genere – in cui i fratelli più grandi addestrano militarmente il più giovane del gruppo al machismo e alla vera mascolinità; cercano di iniziarlo al rapporto con le donne usando una palla da bowling per descriverne la fisionomia salvo poi comportarsi da branco e coalizzarsi contro la ragazza designata quando non mostra interesse. Discoteca, droga, tifo calcistico, rivalità con altri maschi, ambiente domestico e attaccamento alla mamma si alternano a momenti in cui la presa di coscienza dei personaggi non serve che a tracciare il percorso di un destino predefinito che porta all’ultimo eccesso, all’ammazzare la noia buttando i sassi sulle macchine. Il testo spettacolare nel suo complesso funziona perché attraversa i luoghi comuni, sia linguistici sia comportamentali, riuscendo a produrre un’immagine di quel nord Italia anni novanta in cui, fra le altre cose, si è imposto un certo stereotipo del maschile, vera e propria gabbia simbolica da cui, mi pare, sia ancora abbastanza difficile uscire. http://www.youtube.com/watch?v=ecy5MhbpXwI
Nel titolo sta già il senso mediologico di un lavoro che produce la fotografia di una vera e propria saga familiare e umana.
Il testo nasce dalla memoria individuale di Tindaro cioè da elementi biografici legati alla sua famiglia e alla Sicilia, sua terra di origine, per essere poi trattato attraverso un impianto drammaturgico che integra benissimo il piano del racconto con quello della sua messa in forma, una dimensione ancestrale e mitica con una moderna e adatta ai nostri linguaggi.
Sul primo livello le vicende sono raccontate alla maniera del cunto siciliano, cioè di un’antica tradizione narrativa basata sull’oralità che rende lo stesso corpo di Tindaro il medium attraversato e che attraversa tutti i personaggi: il bisnonno suicida, la bisnonna offesa che sputa sulla sua tomba, il mafioso, la zia zitella, la nonna, l’amico, Tindaro più giovane…
Le storie che s’intrecciano sono storie d’amore, di amicizia, di mafia e lo scenario sotto traccia è quello del mondo letterario di Verga e di Pirandello, così come lo stesso Granata ci diceva durante l’incontro dopo lo spettacolo. Qui, in sintesi, la memoria individuale è rintracciabile nel ricordo personale che si aggancia, attraverso la lingua vernacolare, alla memoria collettiva.
Il secondo livello è quello che permette di integrare il piano narrativo orale con quello della messa in scena e della finalità teatrale. Qui la sequenza di immagini è montata in maniera cinematografica, secondo un’attitudine e una passione per il cinema che Tindaro, ci dice, ha coltivato fin da giovane. Sono brevi scene unite fra di loro sia da espedienti drammaturgici e convenzioni teatrali che lo spettatore impara in fretta (sfregarsi la faccia per cambiare personaggio o tirando su il cardigan per coprirsi la testa come se fosse un fazzoletto e diventare una delle figure femminili), sia da stacchi e rewind che spezzano la sequenza temporale.
In questo modo la trama non segue un andamento lineare ma compone un testo più complesso e adatto alla spettatorialità mediale. È così infatti che viene messo a punto un meccanismo adeguato alla riflessività perché è possibile godere della separazione fra il vissuto, che appartiene a Tindaro, e la “rappresentazione”, che appartiene al pubblico. Ed è in quella separazione che è possibile proiettarsi, sentirsi coinvolti e presi. Nella migliore, sensata (e sana) forma dell’intrattenimento possibile.
Si dice che certe storie vengono opportunamente rimosse dalla Storia. Un dato che può anche essere vero fino a quando la memoria della società, e i media che ne sono lo strumento, non dimostrano il contrario. E non è detto che debbano essere per forza le forme della cultura alta a riportare alla ribalta gli eventi dimenticati… Può essere anzi che un prodotto televisivo popolare sia all’origine di un lavoro sulla memoria collettiva e individuale di un fatto dimenticato.
L’aneddoto raccontato da La Ruina durante l’incontro con il pubblico “Identità negate – Conversazione con Saverio La Ruina, Fabio Bruschi, Laura Gemini ed Ennio Grassi” – al di là del ribadire che quello che sappiamo del mondo, e che non riguarda la nostra esperienza diretta, dipende dai media – è il pretesto per portarci dentro a uno spettacolo che ha il pregio di sganciarsi dalla vera storia da cui origina, e da cui si documenta, per assumere pienamente una finalità teatrale che trova in sé la sua qualità riflessiva.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale migliaia di soldati e civili italiani sono rimasti intrappolati in Albania con l’avvento del regime di Enver Hoxha. La maggior parte di loro però è stata accusata di attività sovversive, condannata e rimpatriata in Italia mentre le donne e i bambini sono stati internati nei campi di prigionia e sottoposti, per quarant’anni, alla violenza reale e simbolica della polizia di regime. Qui nasce nel 1951 il protagonista della storia, il sarto Tonino Cantisani che dopo aver finalmente raggiunto il padre e l’Italia nel 1991, dopo la caduta della dittatura, tornerà indietro condividendo con altri la condizione paradossale di essere straniero in ogni luogo: italiano in Albania e albanese in Italia.
Su questo spunto La Ruina imbastisce un monologo incentrato sul racconto biografico del personaggio – una figura che assume le sembianze di un eroe-bambino, forte e garbato insieme – che procede per salti temporali. Un espediente drammaturgico basato su frammenti narrativi che passano dal presente dell’adulto, già all’inizio quando il sarto “ingaggia” il pubblico attraverso il commento alla piega dei pantaloni di uno spettatore, ai ricordi del passato, delle persone incontrate da bambino. Come ad esempio la figura paterna di mastu Giuvannu, il sarto che non solo gli insegnerà il mestiere ma l’italiano – in realtà il calabrese – che qui assume, sembrerebbe, il valore di una langue ovvero del patrimonio simbolico e collettivo che sancisce un’appartenenza. Anche se questa poi a Tonino verrà sempre in qualche modo negata.
Una parte di racconto viene tenuta in sospeso – “ma questo ve lo dico dopo” – per poi tornarci con la ripetizione, riprendendo le parole lasciate indietro, così da permettere allo spettatore di ritrovare immediatamente il filo, stare dentro alla ricorsività del discorso. Il punto mediologico centrale è dato perciò sì dal carattere feriale del linguaggio usato (cito Ennio Grassi), ma soprattutto da un testo che è “pre-scritturale”, centrato cioè sui principi dell’oralità e sulla parola incarnata. Tutto passa attraverso quel corpo in scena, nei suoi gesti, nella sua voce e nel simbolico che contiene e a cui rimanda a partire dall’esperienza individuale e dal ricordo che non possono mai essere detti fino in fondo, per lo meno non il senso soggettivo che resta indicibile.
Un senso che il personaggio di Tonino ha elaborato dentro di sé, affidandosi all’immaginazione, all’elaborazione simbolica del trauma individuale e collettivo che lo riguarda e verso cui non prova nessun sentimento di vendetta. Allo stesso tempo però lo spettacolo lavora proprio sul passaggio dal piano individuale della comunicazione a quello relazionale, collettivo, della memoria condivisa all’interno di un dominio linguistico comune, basato sul linguaggio e il suo carattere orale.
Forse è in questo che troviamo una traccia per il nostro presente, e la qualità riflessiva di un lavoro come questo, ovvero il bisogno di ritrovare una comunità, una forma che almeno ci assomigli e che produca una sua mitopoiesi, un ideale verso cui riconoscersi… anche se qui, nello spettacolo, sono ancora un padre e una patria irrangiungibili.
È sempre interessante vedere come il teatro, e in particolare un testo e la sua resa drammaturgica, si confronti con i fatti. Tanto più quando si tratta di fatti storici e di conseguenza dei protagonisti delle vicende nazionali. In questo senso diventa particolarmente chiara la connotazione situata dell’immaginario collettivo, ossia del patrimonio di simboli condivisi che, nonostante la loro universalità, riguardano più direttamente una collettività geograficamente definita.
A fare i conti con i fatti e i personaggi d’Italia questa volta è Daniele Timpano – nato nel 1974 esponente del teatro indipendente romano e con una significativa bio artistica da leggere qui – con la trilogia Dux in scatola, Risorgimento Pop, Aldo Morto (con i testi pubblicati in Storia cadaverica d’Italia a cura di G. Graziani per Titivillus).
foto di Claudia Papini
Con Aldo Morto/Tragedia – visto domenica 17 febbraio 2013 al Teatro Rosaspina di Montescudo – Timpano prende spunto dal dramma sociale del rapimento Moro e del ritrovamento del cadavere il 9 maggio 1978 e ne ricostruisce i passaggi attraverso lo sguardo di chi, troppo piccolo per avere ricordi di prima mano, si affida alla memoria sociale cioè ai media (tra cui ci stanno naturalmente anche i libri) e alla loro riflessività.
foto di Donato Aquaro
E proprio perché i media costruscono l’informazione attraverso l’osservazione di osservazioni e in base ai propri criteri selettivi, così il modo con cui Timpano ci restituisce la sua può essere visto come la sintesi di un essere pensante – e quindi produttore autonomo di informazioni – di una serie di immagini e discorsi che nel tempo si sono prodotti intorno a quegli avvenimenti.
foto di Futura Tittaferrante
Dai documentari a tesi, alle inchieste di Minoli, al film di Bellocchio, passando per Renato Curcio e Adriana Faranda fino alle canzoni di Claudio Lolli, evocando i luoghi, Via Fani e via Gaetani ad esempio, e le cose, la Renault 4 rossa – che appare in scena come macchinina radiocomandata – lo spaccato che viene presentato mette in evidenza le contraddizioni e i lati oscuri di una politica che ha fatto certe scelte sostenuta da una certa stampa o di un Curcio editore, mascherato da Mazinga che si è comunque piegato alla logica del profitto prima così duramente avversata…
foto di Claudia Papini
Sta di fatto che – come ci ha spiegato lo stesso Timpano durante l’incontro dopo lo spettacolo – il lavoro sui materiali, che lui chiama mono maniacale ma che piuttosto pare basata su un lavoro di approfondimento notevole, compone una storiografia complessa per fonti – dai testi storici, biografici più o meno parziali, alle canzoni, i film, la tv, ecc. – e per temi che tende a rivolgersi non tanto al passato ma all’oggi e al presente che abitiamo.
Lo spettacolo è costruito per “quadri” e personaggi interpretati da Timpano che entra ed esce dalle parti interpretate e dalle prospettive di osservazione che incarnano, a cominciare dal figlio di Moro, senza scordare mai la forma di uno spettacolo assolutamente teatrale. E ci riesce perché oscillando sempre sulla differenza fra vissuto e rappresentato si pone dichiaratamente fuori dal teatro di narrazione o civile senza avere la pretesa di spiegare le cose “oggettivamente” ma di fornirne un punto di vista, il suo, e una traccia buona per pensare. A questo proposito e per molto altro vale la pena leggere le recensioni raccolte qui.
foto di Michele Tomaiuoli
È su questo spunto che chiediamo a Timpano a cosa serva il teatro. Il suo, ci risponde, può essere considerato un teatro saggistico e politico, refrattario alle logiche dell’industria culturale. Ma ripensando a tutto lo spettacolo torna in mente anche il movente che sempre sottende alle produzioni dell’immaginario: la morte e i modi con cui la elaboriamo. Qui infatti è sempre il corpo morto di Aldo, e il suo essere stato corpo vivo, a tornare. Simbolo di quel dato di umanità che ci accomuna tutti.
E potrebbero sembrare proprio le deviazioni del corpo e della sua immagine il filo conduttore che lega i due lavori scelti per inaugurare la rassegna.
Con JosephAlessandro Sciarroni costruisce una drammaturgia dell’osservazione che utilizza la webcam e gli effetti di Photo Booth del Mac per giocare sia con la propria immagine, deformandola e sdoppiandola, sia con i confini dello schermo, mentre le canzoni su cui danzare sono scelte dalla libreria di iTunes. Già da qui la relazione con il pubblico è costruita intorno al dispositivo del guardare dato che Sciarroni dà le spalle sul palco ma è visto di fronte nella proiezione video e così quello che vediamo noi è quello che vede lui, in una dinamica riflessiva garantita dal linguaggio e dalle affordance tecnologiche.
Processo potenziato nella seconda parte della performance dal collegamento online con gli utenti di Chatroulette, sito che mette in contatto visivo uno o più utenti che sono insieme con uno o più partner (sempre insieme) in remoto. Con i rischi che comporta.
Ieri sera, dopo qualche passaggio da un chatter ad un altro, due o tre ragazzi in linea dalla Finlandia hanno accettato di guardare qualcuno che davanti a loro si è travestito da Batman e ha eseguito per loro la sua coreografia fino a svelare “la diretta” teatrale e la presenza del pubblico in sala.
Una forma di engagement dello spettatore quindi, basata sulla costruzione di un’esperienza che senza mai perdere il ritmo e la forma teatrale, fa della realtà dei pubblici connessi una chiave di lettura efficace non solo dello spettacolo ma del mondo in cui viviamo.
Un mondo che nella visione di Grazia Capri e del suo Per voce sola, il secondo lavoro in programma, è fatto anche di solitudine, violenza, costrizione. Il che potrebbe farci pensare ad un’altra interpretazione del concetto di deviazione.
Quello di Grazia Capri è uno sguardo prima di tutto al femminile ma è solo un punto di partenza per rendere universale il tema della violenza.
La danzatrice si muove all’interno di un perimetro quadrato, tracciato dal nastro adesivo sul palco, e fra pareti invisibili senza però poterne uscire, nonostante i tentativi: tirarsi su per i capelli, mettersi in verticale…
In definitiva il lavoro definisce al meglio la sua qualità iconografica e visuale grazie all’alternarsi fra il movimento per lo più a terra e con pesanti cadute e le figure statiche prese in prestito dallo yoga per rappresentare i tentativi di auto sollevamento/bootstrap di corpo e mente dalla condizione costrittiva.
Insomma lo schermo frontale, spazio e confine delle azioni di Sciarroni, è “proiettato” sul pavimento che delimita e limita le azioni di Capri in un gioco speculare che sembra legare i due lavori e l’immaginario che li contiene.
Nell’incontro con il pubblico, che la rassegna prevede come “azione” finale per ogni serata, abbiamo potuto dialogare con Paola Bianchi, Alessandro Sciarroni e Grazia Capri sugli spettacoli e sulle curiosità che la dimensione analogica della danza dischiude per forza e perciò sul senso che emerge, fatalmente, in quella relazione magica fra agire dell’artista ed esperire dello spettatore che resta l’elemento fondante di ogni performance.
Dal punto di vista dell’immaginario e della resa drammaturgica – con le fasi dal vivo e i filmati in video – la cerimonia inaugurale delle Olimpiadi 2012, soprattutto lo show L’isola delle meraviglie diretto da Danny Boyle, si è rivelata all’altezza di una cultura ben consapevole dei suoi elementi di forza e della sua identità radicata e poliedrica insieme.
Performance liminode a tutti gli effetti – cioè un rituale che all’efficacia integra la dimensione spettacolare e rimanda alle dimensioni dello svago – la messa in scena è partita come una grande narrazione della storia d’Inghilterra: le origini contadine e la rivoluzione industriale (protagonista in questa fase Kenneth Branagh, a suo modo icona mediale del teatro shakespeariano, nelle vesti del promotore delle ferrovie inglesi) con un’iconografia che è passata dal verde delle campagne inglesi ai marroni-grigi delle ciminiere e dell’ambiente urbano in trasformazione.
Non sono mancate nemmeno le suffragette, movimento nato in Inghilterra nel 1872 e che ha lottato per il diritto di voto delle donne. E chissà che non ci fosse un filo rosso a legare questa rappresentazione con la presenza di molte atlete donne fra le file delle squadre che fino ad ora non le avevano contemplate…
Da qui il focus sui bambini e sull’immaginario infantile popolato anche da figure cattive e minacciose, necessarie all’elaborazione delle paure, ha visto avvicendarsi le figure della letteratura e del cinema attingendo ai simboli dell’iconografia pop e popolare tra cui Voldemort, Crudelia De Mon, i personaggi di Alice – realizzate come grandi maschere grottesche da carro mascherato – fino all’arrivo di tante rassicuranti Mary Poppins a vegliare sui bambini.
Perfetto humor inglese in diversi passaggi: dal primo esilarante incontro fra il James Bond di Daniel Craig e la (complice) Regina Elisabetta (dal cortometraggio The Arrival in cui Bond va a Buckingham Palace a prendere la Regina fino a quando si lanciano con il paracadute nello stadio e lei entra davvero – come a conciliare i piani di relatà dell’immaginario – a prendere posto elle tribune con lo stesso vestito color pesca…)
all’incursione di Mr Bean in mezzo alla London Symphony Orchestra nell’interpretazione del grande classico di Vangelis Momenti di gloria (con Bean che sogna mentre suona dal vivo la mono nota, di allenarsi con i campioni del 1924), fino all’arrivo di Beckham in motoscafo a portare la torcia al tedoforo, sir Steve Redgrave leggenda del canottaggio inglese, che a sua volta ha consegnato la torcia ai 7 giovani atleti che, simbolo di apertura al futuro, hanno acceso il braciere formato da tanti petali di rame quante sono le squadre in gara.
La storia dell’Inghilterra passa naturalmente per la musica e per le svolte che sono sempre venute da lì.
Mixaggio curato da Underworld di pezzi – a volte troppo soffocati dai conduttori di RaiSport che hanno in mente una TV un po’ troppo vetero – come My Generation (Who), Satisfaction (Rolling Stones). Ma poi anche Queen, Pink Floyd, David Bowie, Led Zeppelin, Clash, Sex Pistols, Chemical Brothers, Radiohead, Blur, Prodigy, New Order, Massive Attak, Duran Duran, Eurythmics, Frankie Goes To Hollywood, Pet Shop Boys, Oasis, Amy Winehouse, Adele, e, naturalmente, i Beatles, con Paul McCartney che ha chiuso con Hey Jude anticipato però dai “famosi grazie alla rete” Arctic Monkeys che tra l’altro hanno eseguito piuttosto bene la sempre bella Come Togheter.
Una cerimonia per essere tale ha bisogno dei suoi momenti istituzionali: l’avvio dei giochi pronunciato da Elisabetta II, i discorsi ufficiali, la parata delle squadre – con molti atleti che riprendevano e fotografavano l’evento di cui facevano parte come segno di quell’accoppiamento fra media e vissuto che segna il nostro modo di fare esperienza.
Cose ridicole: la divisa della delegazione tedesca, il foglietto “mamma sono qui” di un atleta italiano. Il tutto sbeffeggiato su Twitter dove come sempre si sono letti i commenti più divertenti.
Schubladen – visto ieri al Festival diSamtarcangelo – sono i cassetti che contengono cose – libri, libri di scuola, diari, fotografie, vinili, musicassette, vodka e prosecco… – utili a tre coppie di coetanee tedesche – rappresentate dal gruppo She She Pop – provenienti dalla ex DDR (Germania dell’Est) e dalla BRD (Germania Ovest) per confrontarsi sulla memoria individuale e collettiva – e quindi sull’identità – costruitasi prima e dopo la caduta del muro di Berlino dai due diversi fronti della storia.
Dal punto di vista femminile e femminista il confronto avviene in forma dialogica, prima a due poi insieme come a creare un sistema che confonde non solo metaforicamente le parti e le verità, nel racconto di episodi privati, anche personali e intimi, sostenuti storicamente dal rimando a canzoni, serie televisive – come La clinica della foresta nera – e accentuati dall'”occhio belva” delle video camere portatili puntate sui volti delle protagoniste di volta in volta “interrogate”.
Ne esce un lavoro che, nello stile anche ironico poetico politico cui questa compagnia ci sta abituando, riesce ad innescare il meccanismo riflessivo delle protagoniste certamente ma anche degli spettatori che si trovano a fare i conti con idee e ideologie stereotipate messe in discussione e relativizzate. Ecco perché i dialoghi vengono stoppati per cercare definizioni condivise di parole come marxismo, comunismo o per spiegare scelte e passaggi di vita che hanno bisogno di parole e di un linguaggio che le tenga insieme.
Basti pensare a Kati Witt la pattinatrice simbolo dell’ascesa e del declino della Germania dell’est vista dalle più giovani come mito sportivo e dalle più grandi come espressione della propaganda di regime.
Dal punto di vista degli immaginari cui rimanda sarebbe interessante rivederlo là dove quella storia, che pure ci riguarda tutti, ha segnato il senso di appartenenza facendoci capire, anche attraverso qualche film e libro che ci è arrivato, che le proprie radici contano sempre, sia al di qua che al di là del muro.