Mi ha fatto piacere essere invitata da Silvia Bottiroli all’incontro con operatori, artisti, studiosi avente come tema il “format” festival. Quello che personalmente ne ricavo – e che è un po’ quello cui ho cercato di agganciarmi io quando ho chiesto la parola – è un ragionamento sul teatro, il pubblico, i media.
O meglio: la proliferazione di festival e di eventi non mi rimanda per forza a un modello di fruizione televisiva, nel senso di passiva (a partire dall’Assessore Ronchi). Primo perché abbiamo a disposizione una teoria della comunicazione che ci spiega come le cose non stiano necessariamente in questi termini (vedi: informazione come auto-produzione cognitiva), secondo perché la partecipazione ai festival mette in campo un interesse della gente verso la conoscenza (verso la quale a volte non è male mettersi “soltanto” in ascolto) e non solo il presenzialismo a tutti i costi.
Nel caso di un festival di teatro – come quello di Santarcangelo – ci sono però elementi come la radicalizzazione nel territorio – così come ha sottolineato Enzo Pezzella anche in relazione alla sua esperienza in Belgio se non ho capito male – che permettono una drammaturgia della città funzionale alla relazione fra spettatore ed evento cui partecipa. Questo per me è un aspetto interessante se e qualora si integra alla dimensione meta-territoriale dell’attività spettatoriale basata sulla logica e sostenuta dalla rete. Nel mio piccolo mi sono permessa di richiamare gli operatori a monitorare “il cambiamento di senso della posizione nella comunicazione” ormai avviato. Come dire: bisogna tenere in debito conto il cambiamento che in generale riguarda le audience.
Lo spettatore di un festival come quello di Santarcangelo fa parte più o meno di un pubblico non dico esperto, neanche io lo sono, ma interessato. Che ha una certa “competenza comunicativa” che non significa “che ne sa” ma che sa come orientarsi a questo genere di evento, a scegliere gli spettacoli da vedere e come vederli. Ma non basta.
La spettatorialità è un’attività che si sviluppa e che continua al di là della localizzazione territoriale e del tempo di un festival e che può rilocalizzarsi nella rete attraverso le forme di conversazione – sui network – intorno al festival, agli spettacoli visti (perché la dimensione dal vivo è una cifra indispensabile qui), agli artisti che si sono aprezzati (o meno) e che rende spettatore anche chi non c’era. Ma che potrebbe esserci o che ci sarà virtualmente (cioè: in altri tempi, luoghi, occasioni). Dove, non sottovalutiamolo, esprimendosi si mettono in gioco reputazione e pertinenza.
Non si tratta tanto di usare creativamente la creatività del pubblico o il web 2.0 – il caso di YouDrama di cui ha parlato Giorgia Penzo anche se molto interessante – ma di monitorare i processi comunicativi spontanei che riguardano il teatro e il rapporto performer/spettatore che pur evolvendo nella revisione del rapporto agire/esperire e dei pubblici connessi non toglierà, ce lo auguriamo, all’artista il suo valore e la sua funzione.