This is not America. Viaggi immaginari di settembre

Quest’estate non sono andata tanto in giro, anzi diciamo per niente. Tuttavia avendo a disposizione, come tutti noi, un ambiente mediale da abitare le sollecitazioni non sono mancate. Anzi forse sono anche troppe e la scelta di coglierne alcune – e lasciarne sullo sfondo altre – può far conto soltanto su a me ignoti processi selettivi e sulla fantastica capacità di dimenticare della memoria. Quella che segue dunque è una piccola carellata per analogie, nient’altro che un piccolo viaggio intorno alla mia camera espansa.

Il decennale dell’11 settembre, accompagnato dalla cerimonia commemorativa a NY oltre che dai vari film e documentari visti in TV, l’ho passato sfogliando l’Atlante di Repubblica, con la raccolta degli articoli pubblicati nell’arco del decennio appunto anche se devo dire che il tappeto afgano, per me, vince il premio Rappresentazioni Collettive 2011.

Sempre sul fronte delle rappresentazioni dell’evento catastrofico, forme della ritualità mediale con cui l’immaginario collettivo moderno elabora il dramma sociale, dalla pagina di YouTube su Facebook è possibile accedere ad un video che raccoglie le testimonianze delle persone al di là e oltre la serie di prodotti culturali più o meno finzionali che conosciamo. Insomma la narrazione, l’esorcismo simbolico dell’evento tragico, passa dall’accoppiamento fra i media e i vissuti che è il modo con cui, oggi e attraverso il web, si costruiscono i nuovi modi della riflessività.

Così come sembra esistere un’arte del dopo 11 settembre 2001 di cui lo stesso New York Times sembrerebbe consapevole visto che ha chiesto ad alcuni artisti di spiegare se e come il loro lavoro ne sia stato in qualche modo informato. Vedi il post A Cultural View. Si può anche vedere la raccolta di lavori sull’11 settembre avviata da Artitribune, da arricchire con il contributo degli utenti, o articoli come quello sulla prima pagina del Corriere della Sera o sul cartone di Mel Chin.

A rinforzo dell’immaginario americano ho pensato bene di non perdermi la mini-serie sui Kennedy e alcune puntate del David Letterman Show su Rai5, ormai ufficialmente canale favorito del digitale terrestre.

Basti pensare al documentario sul numero di settembre di Vogue America che mi ha permesso di vedere all’opera Anna Wintour – o meglio, come dicevano nella publicità del progarmma, “la vera protagonista de Il diavolo veste Prada” – e di scoprire un personaggio come Grace Coddington, modella prima e ora fashion editor della rivista. Non per dire ma le due sono Britanniche… e capaci di incarnare abbastanza bene il mito della moda da avere le loro brave dolls.

Così come, invece, è “molto” nord-europeo lo scenario dell’inquietante Millenium, serie dedicata alla trilogia di Stieg Larsson, che La7 pensa bene di inframmezzare con le pubblicità della Daygum Protex che per lo meno ci porta nella Svezia alleggerita di Filippa Lagerback.

Fra le letture estive devo ammettere che Twilight di Stephenie Meyer ha risvegliato la consapevolezza, già provata con il film, di far parte di quel pubblico femminile innamorato dell’amore che ha fatto la fortuna dell’industria culturale hollywoodiana così mirabilmente raccontata da Morin.  Insospettabili conoscenti e amiche compongono con me quella compagine barbara, è sempre Morin che lo dice, che evidentemente trova nell’amiguità erotica del vampiro una rappresentazione ancora efficace dell’immaginario dell’amore.

Su Vogue Italia invece mi sono imbattuta in un caso che conoscevo da una vecchia puntata di un qualche CSI e che rimanda alla sempre affascinante quanto perturbante azione estrema sul (proprio) corpo. Mentre là nella serie televisiva si parlava di un uomo, qua, la copertina della rivista era ispirata ad Ethel Granger, donna “immagine” del ‘900 famosa per il giro vita di 33 cm e per aver costruito la sua esistenza, spinta dal marito, su un canone estetico che ha origini antiche: dalla civiltà minoica, fino al regno di Elisabetta I e che ha ispirato anche gli ufficiali degli eserciti europei. Direi che siamo di fronte a forme della rappresentazione di sé che hanno ben altra cifra simbolica rispetto alla proliferazione di tatuaggini senza un perché se non quello di perpetuare strategie comunicative più adatte ai nostri tempi, cioè di forma e non di sostanza.