Neanche nelle più rosee aspettative avrei mai potuto pensare di poter cogliere un nodo di congiunzione, anche temporale, fra la partecipazione come relatore ad una session del convegno mondiale di sociologia a Goteborg dal titolo Publics on the move (che partiva dalla domanda “Are publics creative?”) e come spettatore alla quarantesima edizione del Festival di Santarcangelo mirata, quest’anno, ad interrogarsi sul ruolo del pubblico e sulla capacità riflessiva che la performance contemporanea è chiamata oggi più che mai a risolvere. Che poi le due cose sono assolutamente collegate e connesse.
Da quello che ho visto io, dalle mie scelte, i formati e i contenuti degli spettacoli mostrano una vitalità del teatro contemporaneo, nel senso anche della sua capacità di stare sulla soglia della così detta “attualità” e di lavorare sullo scarto, sulla differenza fra il mondo così come si presenta e le sue rappresentazioni. Ed è per questo poi che riesce a farsi specchio riflessivo. Elaborazione simbolica del reale e dunque costruzione di realtà con le quali confrontarsi, partecipando. Insomma: vissuto e rappresentato, coinvolgimento e distacco nel luogo dello sguardo, il teatro appunto, fondato però su un immaginario performativo che chiama in causa i corpi. L’esperienza del teatro, delle sue immagini, attraverso la presenza irriunciabile dei viventi.
Gli spettacoli che ho visto, e che finisco di vedere stasera, meritano dei post singoli allora per ora mi limito alla definizione del frame nel quale mi pare si collochi l’operazione nel suo complesso, al di là delle cose belle e intelligenti che si leggono qua e là.
La mia sensazione è che questo festival sia stato realizzato tenendo conto sì della dimensione territoriale, che è tipica dei festival, e quindi dei luoghi scelti per le performance site-specific, per l’uso della strada, come da tradizione, delle case, dei centri commerciali, dei luoghi riscoperti, ma anche dei territori espansi cioè dei meta-territori mediali adeguati non solo alle nostre sensibilità estetiche (troppo facile), ma alle dimensioni non soltanto iconografiche dell’immaginario collettivo. E’ infatti in questi territori che viene portata “qui” e prolungata l’esperienza dei mondi altrove (stranieri) che conosciamo soltanto attraverso i media (appunto) nella dimensione della rappresentazione dal vivo da parte di chi quei mondi li vive come un “qui”. E così ci aiutano a capire un po’ di più cosa succede nell’altrove o almeno a farci qualche domanda.
Non si pensi però che sia stato un festival ammiccante per un pubblico da neo-televisione. O meglio: visto che siamo un pubblico neo-televisivo e parte delle performing audience siamo ormai strutturalmente pronti al coinvolgimento con una consapevolezza diversa, credo ma ci devo riflettere, rispetto al pubblico che negli anni delle avanguardie veniva pungolato, attivato per l’azione, la presa di coscienza, magari impaurito.
Il cambiamento di senso della posizione nella comunicazione, cioè l’essere comunque generatori anche noi di contenuti mediali, si riflette anche qui, in questo teatro che un po’ ci deve appartenere: dal Manifesto Rosso all’asta per la raccolta di fondi, dal progetto ESC e dall’osservatorio critico, dai laboratori agli spettacoli realizzati con e attraverso gli spettatori, anche reclutati attraverso le piattaforme di networking fino all’uso più diffuso, anche se ancora da potenziare, dei social network.
Magari mi sbaglio ma secondo me il merito più grande di Enrico Casagrande e dello staff che ha lavorato con lui sia stato quello di comportarsi da spettatori e di portare a Santarcangelo le cose di cui, noi spettatori “veri”, abbiamo bisogno. Anche per divertirci. Che, come non mi stanco di ribadire, serve sempre.