Panorama Motus

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Grazie alla residenza all’Arboreto Teatro Dimora di Mondaino, abbiamo potuto partecipare alla prova aperta di Panorama, nuova produzione Motus alla sua prima uscita europea dopo il debutto a New York, con gli attori della Great Jones Repertory Company – Maura Nguyen Donohue, John Gutierrez, Valois Mickens, eugene the poogene, Perry Yung, Zishan Ugurlu – e in co-produzione con La MaMa Experimental Theatre Club di New York, e che sarà in tour nei prossimi mesi.

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Ph GBA

Panorama svela, già dal titolo, il carattere mediatizzato del lavoro laddove la consapevolezza della mediatizzazione del sociale, ovvero il fatto che il contesto mediale in cui stiamo fornisce frame e formati alla nostra esperienza, si rintraccia nel frame che Motus preferisce da sempre e che è quello cinematografico qui espresso attraverso il formato del casting. Lo spettacolo inizia, appunto, con i provini degli attori della compagnia: i sei in scena e altri che hanno partecipato alle prime fasi di lavoro e che vediamo solo in video. Fra ripresa in diretta, un attore/attrice entra in scena, si siede davanti alla telecamera in mezzo al palco manovrata di volta in volta da un altro attore, si presenta, risponde alle domande, se ne va.

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Ai lati due tavoli riempiti di oggetti (fumetti, libri, foto, pennarelli, pellicole, pupazzetti – tipo Wolverine o una testa di Trump) e con le video-camere che riprendono questi oggetti e gli attori che si alternano in scena e le cui riprese vengono montate e proiettate in diretta sui due schermi posti verticalmente sul bordo di ciascun tavolo.

Su questi livelli di sollecitazione visiva e percettiva si va progressivamente a definire un impianto drammaturgico fatto per sovrapposizioni: fra le immagini, fra i racconti e le voci sia dal vivo sia in video. Il montaggio video dal vivo permette, ad esempio, di proiettare le immagini degli attori in scena, anche prodotte direttamente da loro con gli smartphone, sul “fondale” disegnato o realizzato con frammenti e giochi di luce (come ad esempio nelle scene, da rivedere, della discoteca o della super-eroina Marvel style).

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Ph Theo Cote

È attraverso questo meccanismo che viene messo a punto il panorama, ovvero il dispositivo che serve per vedere tutto. Solo che qui le origini ottocentesche del meccanismo ottico basato sul principio borghese di appropriazione del mondo sono superate dalla consapevolezza, del nostro tempo, che lo sguardo panoramatico sia un processo performativo, immersivo, uno sguardo “attraverso” i corpi e i vissuti degli attori della compagnia.

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Un modo per indagare ancora l’identità – in linea con il percorso di MDLSX – e osservarla come flusso che attraversa i corpi dei performer visto che ognuno di loro si fa “medium” della biografia dell’altro. Attrici e attori prendono la parola uno per l’altro, indifferentemente dal genere, dalla nazionalità di provenienza perché appunto l’identità è un processo che non finisce mai. Proprio questi attraversamenti – che sono anche attraversamenti dei confini di questi attori e delle loro famiglie immigrate (dalla Korea, dalla Turchia, dall’Africa, dalla Cina, dal Giappone) – permettono di costruire una biografia universale a partire dallo statuto dell’attore sia come metafora della qualità processuale dell’identità, sia in relazione al contesto sociale e culturale che in questo caso è caratterizzato dalla politica trumpiana.

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Pare che con Panorama Motus davvero si immerga in quell’America che forse è sempre stato il suo orizzonte di riferimento, incontrato nei film e nei libri, riflesso con Don De Lillo e Bret Easton Ellis nei lavori intorno a Twin Rooms e di cui qui sentiamo l’eco, anche attraverso il tappeto sonoro che davvero riporta a quelle atmosfere.

Ma il punto non è la nostalgia, un ritorno al passato, quanto piuttosto il raggiungimento di una maturità dello sguardo che forgia e ha forgiato un immaginario e anche un’estetica visivo-sonora ma che sempre più si spinge oltre la superficie del racconto per attraversare, ecco di nuovo la parola chiave, le vite e andarci dentro. E non è un caso che si ritrovino i temi su cui Motus continua a interrogarsi e a interrogarci come spettatori che riguardano la funzione politica dell’arte. Una domanda che trova la sua risposta nel non averne mai una definitiva e per la quale vale la pena continuare a cercare.

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Ph GBA

Dispositivo trans. Una lettura sistemica e mediale per le RAFFICHE di Motus

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RAFFICHE – RAFALES > MACHINE (CUNT) FIRE è il re-enactment di Splendid’s, lo spettacolo realizzato da Motus nel 2002 tratto dalla pièce teatrale di Jean Genet del 1948, che oggi viene riscritto da Magdalena Barile con Luca Scarlini. Laddove Splendid’s si basava sul testo originario ed era interpretato da un cast maschile, Raffiche traduce in chiave gender e con cast tutto femminile le ultime ore della banda La Rafale – qui Le Rafales –, asserragliata in una stanza dell’Hotel Splendid, dopo aver rapito e ucciso un ostaggio. Il plot, dunque, è lo stesso della prima versione, così come i personaggi, i loro nomi e caratteri e, soprattutto, la relazione entropica fra i membri del gruppo, fra conflitto e attrazione omoerotica, fra fedeltà e tradimenti. Ritroviamo, coerentemente con lo scritto di Genet, l’autorappresentazione del duro, i cliché comportamentali da banditi di mezza tacca, l’ironia e la vigliaccheria. Ogni membro è una personalità complessa e affascinante, ambivalente e imprevedibile ma ormai senza futuro. No future.

Il mancato ottenimento dell’autorizzazione da parte di chi detiene i diritti d’autore a riproporre Splendid’s con attrici al posto degli attori si è rivelata per Motus una risorsa, piuttosto che un limite, non solo per ripensare l’opera di Genet nella chiave concettuale del gender – a cominciare dalla dissociazione dell’identità fra sesso e genere – ma anche, in maniera non sganciata da questa, di addivenire ad una vera e propria nemesi socio-politica. Aggirare il copyright, svelare i limiti della proprietà intellettuale, soprattutto di quella artistica che, oggi più che mai richiedono collaborazione, condivisione e circolazione: If It Doesn’t Spread, It’s Dead.

Le Raffiche, nella riscrittura neo-genetiana, non sono più una “semplice” banda di gangster quanto un gruppo di attiviste bio-politiche che lottano contro il regime patriarcale, contro la bonifica dei corpi ottenuta attraverso la messa a punto di dispositivi disciplinari basati sul codice binario normale/non normale. Dispositivi coercitivi che sono prima di tutto «imposti dalla tecnologia biochimica e dal farmacopotere che, attraverso gli ormoni, detiene dagli anni Cinquanta del Novecento il controllo sui corpi, sui generi, e sulla nozione di “normalità”» (Annalisa Sacchi).

La dialettica fra normalità e non normalità, sesso e genere, fra identità socialmente data e costruzione dinamica, sta nel rapporto fra langue e parole, fra l’istituzione della norma e la sua messa in pratica che di fatto la cambia. Il linguaggio è importante in questo lavoro, il testo rivendica la centralità che gli spetta ma in connessione con i corpi e le vite che lo parlano e lo agiscono performativamente. Come dice Rafale a Scott

Tu mi insegni, Scott, la grammatica è un’invenzione capitalistica patriarcale che regola e dispone i corpi del discorso secondo modelli imposti che vanno scardinati. Dobbiamo riappropriarci del discorso, ri-sessualizzare la punteggiatura.

Non è perciò un caso che anche lo spettacolo nel suo complesso sia pensato come un dispositivo, un insieme di dinamiche capaci di svelare come l’unità sistemica – la banda – possa mantenere la sua identità e la sua organizzazione solo finché l’individualità delle sue parti si mette al servizio del tutto. Solo che, trattandosi di esseri umani e di decisioni da prendere, tutto congiura contro la possibilità di resistere. Capiamo che all’inizio la complicità è garantita dalla forza delle idee teorizzate da Scott (Emanuela Villagrossi) e dalla credibilità di Jean (Silvia Calderoni), il capo carismatico e non violento. Ma nel momento in cui l’ostaggio viene ucciso, a sua insaputa e non si capisce da chi – Riton (Alexia Sarantopoulou), antagonista ed ex amore di Jean o Bravo (Sylvia De Fanti) pornoqueer sfrontata e provocatoria? – comincia a perdere la sua autorità: Bob (I-Chen Zuffellato) decide di non ubbidire più ma mantiene un rapporto di protezione nei confronti di Pierrot (Ondina Quadri), disperata per la perdita della gemella Dedè, uccisa dalla polizia; Rafale (Ilenia Caleo), il soldato, fedelissima e amante di Jean, dovrà tradirlo in nome del gruppo “che decide”. Senza contare il ruolo distruttivo giocato dalla poliziotta (Federica Fracassi). Elemento esogeno che s’infiltra, dapprima come auto-ostaggio, ammiratrice delle Raffiche e complice ma che rientrerà nei ranghi, contribuendo all’arresto della banda, per salvarsi. La poliziotta è l’elemento di connessione simbolica con il fuori: la polizia che cerca di stanare le terroriste, i media che, dalla radio, contribuiscono alla costruzione narrativa e al mito delle rivoltose.

L’atmosfera è perciò quella della cronaca nera, la capacità di fascinazione con cui l’industria culturale ha saputo, e sa ancora, costruire le sue mitologie. E infatti sono le ammiratrici/fan delle Raffiche a dedicare A Mourir pour Mourir di Barbara alla radio e a regalare alla banda un ultimo momento di armonia.

(Tornano in mente i passi di danza inventati per Splendid’s da Damir Todorovic, Regina delle Raffiche, alla cui memoria è dedicato lo spettacolo).

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Il dispositivo drammaturgico è basato sulla partitura di brani musicali che accompagnano l’entrata e l’uscita di scena dei personaggi (ad esempio l’entrata memorabile della poliziotta su Gangsta di tUnE-yArDs o di Riton su Settle Down di Kimbra e l’uscita finale su Good Save the Queen versione Nouvelle Vague).

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Una playlist raffinatissima ed efficace pensata drammaturgicamente in relazione alle fasi dello spettacolo, ai suoi temi, alla sua idea di fondo, sia attraverso la scelta di artiste e/o canzoni legate al femminismo e ai movimenti LGBT (Kera and the Lesbians Nailbiter, R.Y.F.I Hate, Le TigreBang Bang), ma anche impegnate sul fronte delle questioni del diritto d’autore – ad esempio Amanda Palmer, qui con I Want You, but I Don’t Need You – oppure esponenti (femminili) dell’elctropop tedesco (Gina X PerformanceNo GDM, Gundrun GutGirlboogie), dell’hip hop e del rap (Bdot CrocPressure, QueenS – TheeSatisfaction).

La musica e le azioni coreografate, insieme alla recitazione che, nello spirito del lavoro di Genet, è sempre un po’ volutamente “sopra le righe”, riescono a produrre quell’effetto di straniamento che permette allo spettatore di godere della dinamica fiction e, allo stesso tempo, di concentrarsi riflessivamente sulla vicenda delle attiviste.

La caratteristica site-specific dello spettacolo inoltre, ovvero l’ambientazione nelle suite e stanze d’albergo “vere” e che cambia di volta in volta, gioca a favore della messa a punto del dispositivo di visione e di coinvolgimento fisico che rimanda ad uno dei topoi centrali della poetica di Motus: quell’occhio belva che invade l’intimità altrui, anche senza telecamera, ma che nello stesso tempo ingaggia i corpi delle attrici e degli spettatori tenendoli stretti in uno spazio condiviso, anche metaforicamente. Lo spettatore guarda ma è anche vicino. La quarta parete si rompe e ricompone: la storia va avanti indipendentemente da noi ma succede di ricevere un fiore da Jean, ad esempio, ed è allo spettatore che sempre Jean si avvicina per giustificare l’uccisione dell’ostaggio come un errore…

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Che poi, in realtà, la relazione con lo spettatore inizia prima, nella hall dell’albergo quando le Raffiche ti vengono a prendere. Officianti del rito teatrale ti fanno varcare la soglia, entrare nello spazio liminale, sacro-separato, da cui usciranno alla fine sconfitte, permettendosi per una volta il «lusso della debolezza». Il che consola anche te.

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Le immagini come esperienza incarnata. Die Zauberflöte secondo Fanny & Alexander

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Con l’allestimento de Il flauto magico, Fanny & Alexanderdal 16 al 24 maggio al Teatro Comunale di Bologna – non solo si confronta con l’opera di Mozart – dimostrando ancora una volta come le compagnie del teatro di ricerca siano in grado di affrontare la tradizione e di fornirle, diciamo così, nuova linfa – ma coglie l’occasione di “onorare la discendenza del nostro nome” – come scrive Luigi De Angelis nelle note di regia – con un tributo a Ingmar Bergman regista, a sua volta, nel 1975 della versione di Die Zauberflöte per la televisione svedese.

Affidandosi ad una storia “altra” rispetto alla propria ricerca e ai propri di temi di riflessione, Fanny & Alexander sfrutta la qualità e le caratteristiche oniriche e fiabesche del Flauto magico per lavorare sul dispositivo della visione che lega il teatro all’audiovisivo (cinema e televisione) per arrivare poi a trattare queste fantastiche macchine per l’immaginario dal punto di vista dell’immersività – o meglio dell’esperienza delle immagini attraverso il corpo – ottenuta attraverso l’apparato di immagini in 3D sviluppato da ZAPRUDERfilmmakersgroup.

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La visionarietà della vicenda del Flauto magico e dei suoi personaggi è garantita dal pensiero drammaturgico di Fanny & Alexander che rivendica ed esplicita il carattere illusorio del teatro. Per farlo opera su diversi piani di realtà: a cominciare dai due bambini – Fanny e Alexander appunto – che guardando la platea dal video e sporgendosi tridimensionalmente verso il pubblico sono lì a ricordare come a teatro il raddoppiamento di realtà, e perciò lo svelamento dell’inganno, richiedano un atteggiamento di apertura alla finzione e alla sua bellezza.

E non è un caso che proprio sull’ouverture i due bambini in video giochino con un modellino di teatro che diventa un diorama – medium visivo antecedente del cinema – e una citazione del film di Bergman ambientato in un teatrino barocco.

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Anche lo spettatore viene continuamente guardato mentre guarda, così come succede nel film che si apre proprio con la ripresa dei volti degli spettatori di Die Zauberflöte.

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Uccelli, foglie, calle, statuine di animali, un dinosauro giocattolo che fa da drago sono i contenuti delle immagini in video che insieme alla scenografia definiscono gli ambienti dell’opera insieme alla scenografia di De Angelis e Nicola Fagnani.

Pannelli colorati che si aprono e chiudono come diaframmi – ecco un altro dispositivo visivo questa volta fotografico – e quinte illuminate da luci colorate quasi a ricordare l’importante tradizione del teatro immagine ma anche, allo stesso tempo, rimando e citazione all’arte visiva, ad esempio James Turrell, altra cifra di sempre della compagnia.

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Dal canto loro le immagini tridimensionali, da guardare indossando a comando gli occhialini bi-colore, si fanno pratica e metafora di quell’idea di realtà aumentata che riguarda, sì, le affordance (le possibilità) tecnologiche ma che qui viene “espansa” in funzione meta teatrale utilizzando l’intero teatro con i personaggi che entrano da dietro, che si affacciano dalle balconate, dalle maschere del Comunale vestite come il coro…

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A tutto questo naturalmente va aggiunta la musica, con la direzione di Michele Mariotti, il canto, la bravura degli interpreti adulti e bambini, i costumi immaginifici progettati da Chiara Lagani… insomma tutto l’impianto spettacolare nel suo insieme. Di un’opera d’arte totale resa ancora più totale dalla capacità di Fanny & Alexander di attraversare l’opera di un (altro) artista bambino e il messaggio d’amore che contiene per indagare l’immaginario, l’illusione, il regime scopico novecentesco e la corporeità.

Raddoppiamento di realtà. Il Santo Genet della Compagnia della Fortezza

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(foto GBA)

Con Santo Genet la Compagnia della Fortezza diretta da Armando Punzo porta al Festival Volterrateatro2014 (in prima nazionale ma anticipato nel 2013 come possiamo leggere qui e qui) e nel carcere come suo ambiente ideale, l’opera e la poetica di Jean Genet.

Ed è chiaro da subito che si tratta di un’operazione volta a rendere visibile, ma più ancora tangibile, quel processo di raddoppiamento di realtà che, riguardando prima di tutto il teatro (poi la nascita del romanzo e l’epoca moderna), ha insegnato allo spettatore come contemplare la realtà della finzione, a considerare del tutto normale l’intreccio fra osservazione e realtà, fra apparenza e autenticità.

Questa possibilità di tenere insieme diverse prospettive di osservazione si sostanzia nel caso di Santo Genet nel corto circuito tra due dispositivi: quello del carcere e quello del teatro in cui gli attori sono i detenuti, il palcoscenico è il carcere. Tutto lo spettacolo si svolge sotto lo sguardo incrociato della polizia penitenziaria, del pubblico, degli attori e la macchina drammaturgica è pensata per mettere a tema questa relazione in cui si guarda e si è continuamente/contemporaneamente guardati.

Il funzionamento di questo dispositivo, inoltre, è garantito dall’equilibrio, tutto drammaturgico, fra i vincoli di fruizione cui lo spettatore è sottoposto e la possibilità di attivare i suoi percorsi di partecipazione, anche molto personali, allo spettacolo che, almeno in questa versione, non si basa sulla visione frontale ma sul movimento degli spettatori lungo e dentro agli spazi della scena.

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Già dall’inizio infatti gli spettatori si trovano a varcare una soglia, vengono chiamati a entrare nella zona liminale della rappresentazione dalla maitresse/officiante (lo stesso Armando Punzo) che guarda e sorride dolcissima accompagnando il pubblico nel passaggio lungo un corridoio di statue umane. Una schiera di attori/marinai su un piedistallo che indossano pantaloni bianchi abbottonati davanti, t-shirt a righe con le maniche ripiegate all’interno e cappellino bianco, coerentemente con l’iconografia del marinaio omossessuale così come la riconosciamo in Fassbinder, in specie la versione cinematografica di Querelle de Brest, ma anche nell’immaginario più glamour della moda marinara di Jean Paul Gaultier. E così bellezza, ambiguità e crimine procedono insieme per esprimere non soltanto il ribaltamento esistenzialista dei valori sociali, il fascino della malavita e del delitto a sangue freddo, proprio della poetica di Genet, quanto, piuttosto, quel raddoppiamento di realtà che porta spettatori/liberi e attori/detenuti a condividere lo stesso intorno spazio-temporale in una situazione di contatto fisico e vicinanza non soltanto simbolica.

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Lo spettacolo si compone di tre parti: nella prima gli attori si dispongono nel grande e bianco spazio all’aperto fra archi cornici, sedute, piedistalli. I frammenti testuali danno parola al contesto poetico di Genet e introducono i personaggi. Come ad esempio Divine di Notre Dame de Fleurs interpretato da Aniello Arena. In questo spazio si torna per il finale con tutti gli 80 attori, con altri monologhi e l’ultimo saluto degli attori che imbracciano le statue di cartapesta che li ritraggono e corrono su è giù come in una parata rituale, come in una cerimonia religiosa e festiva dedicata a qualche santo protettore. Chissà forse quelle statue rappresentano anche (ancora) la metafora del rapporto fra realtà e finzione, fra l’essere uomini o maschere.

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La parte centrale dello spettacolo può essere descritta chiamando in causa il principio ologrammatico che nel pensiero complesso di Edgar Morin indica la compresenza tutto/parti e perciò non solo il tutto contiene la parte ma la parte contiene il tutto. Questa parte dello spettacolo infatti si svolge al chiuso in una sezione interna del carcere, fra un corridoio centrale pieno di specchi e le celle-palcoscenico ai lati in cui si svolgono le azioni: gli attori entrano ed escono insieme al pubblico, recitano i loro monologhi in contemporanea, tanto che spetta allo spettatore scegliere dove fermarsi ma ogni frammento (parte) ripropone, in piccolo, la struttura per monologo dello spettacolo nel suo complesso (tutto).

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Costumi e scenografie collaborano a dare forma estetica all’immaginario da bordello e omossessuale, coloratissimo e perturbante marcato dal fatto che gli attori recitano guardando in faccia e attraverso gli specchi ora uno ora l’altro spettatore, ammiccando fra loro e con il pubblico. Una vicinanza fisica che fa sentire la presenza dei corpi e per dare corpo ad un’esperienza che non può essere soltanto neo-corticale, ma più profonda ed efficace. Non è un caso infatti che proprio all’apice della con-fusione, intrappolati nella ressa di persone provocata dalla macchina registica, parta un valzer finale, una festa e un abbraccio di tutti con tutti.

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Un lavoro quindi che pone la questione riflessiva al centro. Prova evidente di come il teatro sappia riappropriarsi del rapporto fra vissuto e rappresentazione per costruire livelli di realtà sempre possibili altrimenti e di come proprio in casi come questi la finzione teatrale produca conseguenze molto concrete nella comunicazione. Quelle che ogni spettatore si porta a casa per prendere le distanze dal “mondo reale”, per guardarlo “da fuori”, grazie ad un universo che sa essere realista e fittizio allo stesso tempo e perciò efficace.