La realtà contro. Un tram che si chiama desiderio per Antonio Latella

Un tram che si chiama desiderio – uno dei classici non solo del teatro ma dell’immaginario legato al film del 1951 con Marlon Brando per la regia di Elia Kazan – acquista nella messa in scena di Antonio Latella (al Teatro Storchi di Modena) quel senso di attualità che non c’entra niente con il tempo storico di una piéce ma piuttosto con la capacità del teatro, e dell’arte in generale, di attualizzarne le possibilità espressive, di forma e di significato.

Senza contare poi il fatto, non meno importante, che la grandezza di Tennessee Williams vada rintracciata proprio nel modo in cui

svuotando i suoi testi da un contesto storico ha reso i personaggi memorabili, enormi ed universali, sembrano a tratti eroi ed eroine delle grandi tragedie greche, dove l’eroe quesa volta accetta la decadenza del vivere quotidiano senza sfidare gli dei, ma lottando con le proprie ossessioni (Antonio Latella, Appunti di regia).

La storia si svolge nella New Orleans degli anni ’40 e racconta del ménage coniugale tra il rude Stanley Kowalsky (Vinicio Marchioni) e la ragazza di buona famiglia americana, Stella (Elisabetta Valgoi), compromesso dall’arrivo di Blanche (Laura Marinoni) – “la protagonista del nostro testo, troppo ammalata di vita per riuscire a vivere” (Latella, Appunti di regia) – che cercando rifugio dalla sorella a causa della vita dissoluta e tormentata, irrompe nella vita dei due, dell’amico Mitch (Giuseppe Lanino) fino a quando l’escalation di eventi drammatici non la porterà al manicomio.

Fra il mobilio “sagomato” che compone la scena si muovono i personaggi introdotti e seguiti, sempre meno nello scorrere dello spettacolo, da un narratore/dottore che scandisce e dà i tempi alla sceneggiatura (Rosario Tedesco) e da una figura maschile sui tacchi (l’infermiere, Annibale Pavone) che commenta, sottolinea gli eventi, così da rendere esplicito il meccanismo dentro/fuori della finzione teatrale, anche attraverso l’uso del microfono da parte degli attori, al di là e al di fuori di qualsiasi principio realistico. Un gesto viene detto e non necessariamente eseguito, ad esempio, fornendo alla scena una dinamica particolarmente potente attraverso gli attori che, soprattutto in certe fasi emergono dal buio grazie alla luce dei fari che abbagliano la platea.

Ed è proprio l’uso delle luci un elemento drammaturgico particolarmente potente. Da un lato, quando i fari sono puntati contro di noi, perché viene ribaltato il dispositivo dello sguardo. Come dire: è il teatro a guardare noi, come pubblico implicato come testimone e complice del dramma. Dall’altro lato, quello della scena, le lampade in mano agli attori ritagliano le figure, le rendono più sinistre, costruiscono lo spazio mentre i rumori e la musica servono a sottolineare dei momenti di stacco e a “caricare” emotivamente scena e sala (ad esempio con Whole lotta love dei Led Zeppelin).

A ben vedere, o meglio volendo vedere le logiche mediali che danno forma all’esperienza del mondo, anche di quello artistico, è come se ci trovassimo di fronte ad una pagina ipertestuale, costruita per “finestre” collegate fra di loro e abitate dai personaggi che sono sempre in scena anche quando non tocca a loro.

E così se Blanche ama la vita tanto da raccontarla diversa da com’è, allora il potere demistificatore del teatro sta nel suo paradosso, ossia nel parlare della realtà attraverso la finzione e i molti linguaggi che ha a disposizione.

Lo spettacolo del dramma. Sanremo 2012 e l’entrata di Celentano

L’entrata di Adriano Celentano a Sanremo non può che essere un esempio di come lo scenario catastrofico e della paura collettiva facciano da sfondo alla resa contemporanea del dramma sociale, della situazione di conflitto in cui innegabilmente stiamo vivendo.

La spettacolarizzazione – fra video e scena dal vivo confusi per lo spettatore televisivo dal lavoro di regia – è il linguaggio ideale per la messa in forma di una performance che, nella ritualità laica dell’intrattenimento, cerca di mettere insieme tutto: il divertimento con l’efficacia messi nelle mani di un uomo di spettacolo che si comporta da santone.

Facebook e la scrittura performativa di Angelo Pretolani

È da tempo che ho per le mani il libro di Angelo Pretolani Sotto il selciato c’è la spiaggia (Fiorina Edizioni, Pavia) che prende il titolo dalla serie di performance – e prima ancora direi anche dal film di Helma Sanders – che dal 2008 esegue quotidianamente su Facebook ed è dallo stesso tempo che vorrei metterne in luce alcune questioni. Lo faccio ora.

L’aspetto interessante di questa operazione sta nel mettere insieme il paradigma scrittura-lettura con quello della performance, del comportamento. Ambito artistico nel quale Pretolani è attivo dagli anni ’70, prima ancora che la body art diventasse il fulcro di quella gamma di arti performative incentrate sull’uso del corpo.

Ne deriva – come leggiamo nella prefazione al volume – una scrittura performativa che è il riflesso dell’atto eseguito altrove dallo stesso Pretolani. In ottica mediologica potremmo dire che la performance dal vivo viene trasferita su una piattaforma diversa – Facebook in questo caso, il video in altre occasioni, acquisendo una dimensione autonoma.

La coerenza di questo tipo di ricerca, basata su un’idea e una pratica processuale dell’arte, è rintracciabile nel modo in cui Pretolani dichiara di “esporsi” più che di “esprimersi” e perciò sceglie il luogo ideale per questa esposizione cioè il social network più diffuso in Italia, nel quale agire in vista della relazione con i fruitori. E quindi con i like e con i commenti.

Prima quindi che la timeline di Facebook permettesse di storicizzare anche la “serie” Sotto il selciato c’è la spiaggia – mettendone quindi in evidenza anche la sua ibridazione con la logica televisiva del palinsesto e della serialità appunto – le performance sono state raccolte e “messe in fila” nella forma libro che, letto tutto insieme, permette di seguire una vicenda che è artistica ma anche umana, relazionale e molto interessante dal punto di vista della comunicazione. In certi passaggi conversazionali anche molto divertente.

Ad esempio quando Angelo risponde garbatamente al commento di una persona che gli suggerisce di vedere i lavori dei performer storici o quando sottolinea di non ricevere risposte a messaggi inviati oppure ancora quando in un commento si legge “ma perché non vieni ad aiutarmi in panificio?”.

Sebbene le scelte editoriali non rendano completamente merito all’operazione, facendo perdere di fatto l’immaginario di Facebook e la sua peculiarità visuale, il libro assume la forma di una specie di diario condiviso in cui possiamo ritrovare i contribuiti creativi degli utenti – ringraziati uno ad uno per nome nel volume – e perciò la vera essenza partecipativa che il web potenzia svelando, ancora una volta, la sua qualità performativa.