
Macello è il lavoro di Pietro Babina e Giovanni Brunetto basato sulla collezione di poesie di Ivano Ferrari (Mantova 1948), pubblicate da Einaudi nel 2004 ma scritte all’età di 26 anni quando lavorava nel mattatoio della sua città. Babina, inizialmente interessato a costruire un percorso sulla memoria dei campi di concentramento nazisti per indagare i processi che inducono gli esseri umani allo sterminio di altri esseri umani, ha trovato nel testo poetico di Ferrari un potente strumento analogico, capace di ricostruire in forma di metafora un’indagine sulla riproduzione meccanica della morte e sull’attività di sterminio normalizzata che riguarda gli animali e che, guardando bene, permea in maniere più o meno evidenti molti ambiti del sociale. Non ultimo quello artistico e teatrale.
Si tratta di un esempio puntuale di quel teatro riflessivo che intercetta le istanze del presente per trattarle drammaturgicamente, che pensa lo spettacolo come strumento di osservazione e occasione estetica. Se, da un lato, questa tendenza ha assunto negli ultimi anni la forma del teatro documentario, con casi esemplari e memorabili, attingendo a storie e testimonianze ritrattate in chiave teatrale, in questo lavoro, dall’altro lato, sembra emergere una tensione di tipo diverso. Attraverso il testo poetico, che di per sé rifugge la didascalia e la forma documentaristica, insieme alla messa a punto di una precisa partitura sonora e visiva, lo spettacolo fa emergere, o forse richiama, alcune sensibilità sul rapporto con il mondo animale che, se prima riguardavano quasi esclusivamente la cultura animalista, oggi si diffondono a diversi livelli di attenzione e consapevolezza mettendo in discussione lo specismo e il supposto rapporto gerarchico fra noi (che stiamo “sopra”) e gli animali (che starebbero “sotto”). Una cultura che, passando per le riflessioni relative agli allevamenti intensivi e alla macellazione in serie, si estende a un ragionamento politico più generale, relativo alle derive capitaliste e neo-liberali che si riflettono, appunto, anche sul nostro senso di superiorità rispetto agli altri esseri viventi.

Lo spettacolo è costruito come una jam session a cui i due autori hanno lavorato parallelamente per produrre un’azione poetica che vede, da un lato, Pietro Babina declamare in scena il testo, e gestire una complessa e precisa partitura per parole, voci e suoni frutto del lavoro drammaturgico sui testi originari in collaborazione con Jonny Costantino. Dall’altro lato della scena, dalla sua postazione, Brunetto gestisce la parte visiva dello spettacolo: un montaggio live di immagini fotografiche, realizzate dallo stesso Brunetto, proiettate da macchinari vintage – come quello per le diapositive e i lucidi su un insieme di schermi, vintage anche loro, raccolti e disposti a comporre una parete frammentata. Il che riporta, sul piano compositivo al formato estetico dei Teatri Novanta, di cui Pietro Babina e Giovanni Brunetto sono stati fra gli esponenti più importanti, attraverso una raffinata e soltanto apparente artigianalità.
Durante l’incontro che si è svolto il 25 gennaio 2020 in occasione della presentazione di Macello nell’ambito de La Stagione dei Teatri al Teatro Rasi di Ravenna, questi aspetti sono stati efficacemente chiariti da Babina e Brunetto permettendoci di cogliere i passaggi del processo di costruzione del lavoro, la connessione fra testo, corpi e immagini.
Macello punk
«Questo lavoro è stato un po’ un tuffo nel passato perché quando ero più giovane io stesso ho partecipato attivamente a gruppi animalisti, punk, anarchici, attivisti che facevano azioni e manifestazioni per la liberazione degli animali. Perciò quando ho letto il testo ho avuto un attimo di smarrimento e di angoscia perché è un testo molto forte che mi ha riportato anche a quelle esperienze del passato vissute direttamente. Per me è stato un lavoro molto punk, riportato alle origini. Io e Pietro abbiamo lavorato insieme per tanti anni, con i video. Negli anni passati non ho realizzato dei lavori di immagini con Pietro, però ho acquisito tante competenze e un immaginario che ho condiviso con lui. Quindi è stato anche un bel modo per ritrovarsi, lavorare insieme dopo tanti anni» (Giovanni Brunetto).
Immaginario fanzine
«Sul lavoro delle immagini mi sono basato su un’intuizione e una pratica riprese dall’esperienza dei lavori punk facendo una sorta di collage di immagini con luci e proiezioni di diapositive, fotografie seguendo il processo che usavamo per le fanzine. Si è trattato di un’intuizione che ho ritrovato sentendo Ivano che raccontava come anche lui prima di scrivere poesie lavorasse con dei collage di immagini… quindi c’è stata una sorta di feeling analogico. Io ho compreso nel lavoro di Ivano questa sensibilità come “collage di immagini”. Le immagini che avete visto nella performance sono tutte immagini che ho fatto io con la macchina fotografica a pellicola. Non ho voluto prendere niente dal lavoro di altri. Per me la fotografia è diventata una sorta di terzo occhio, vedere il mondo sotto un certo aspetto.
Abbiamo lavorato in modo parallelo costruendo lo spettacolo insieme pian piano: io con tutti questi macchinari strani e complicati seguendo la mia anima analogica. Quando Pietro è in scena non lo vedo quasi mai ma sento le parole ed è stato quello che ci ha legato: il verbo, la parola, il ritmo del testo, della musica perché ovviamente ogni tanto guardo cosa succede ma più che altro lo sento ed è come una sorta di compagnia uditiva che mi fa stare più concentrato sulle immagini che tento di riprodurre e che sono diverse ogni sera. Ho una sequenza di azione però è sempre modificata ogni sera perché non è una cosa ripetitiva e uguale a se stessa. È un montaggio dal vivo. Un montaggio di immagini che segue la traccia del testo e la voce di Pietro ma ho anche una certa libertà di sperimentare le cose che magari la sera prima non ho fatto» (Giovanni Brunetto).
Schermi vintage e visione per frammento
«Io sono un accumulatore seriale di attrezzatura vintage e ho comprato negli anni questi “schermetti” che compongono la parete per proiettare le immagini. Non volevamo lavorare su uno schermo piatto ma su uno schermo che fosse però sezionato e sezionasse a sua volta le immagini e creasse delle profondità differenti. Secondo me questa è stata una scelta molto azzeccata perché comunque rende molto la scomposizione di quello che si vede. Questo non è un lavoro piatto ma è una tavola molto frammentata» (Giovanni Brunetto).
Parallelamente, il lavoro sul testo realizzato da Babina consiste nel permutare e ricombinare le poesie secondo un montaggio nuovo, che senza seguire l’ordine cronologico originario, così legato all’esperienza diretta del poeta, costruisce un percorso narrativo per un personaggio che, nelle intenzioni di Babina, agisce nel presente e parla di una condizione che riguarda l’attualità evitando la scorciatoia del passato. Allo stesso modo Babina costruisce una punteggiatura sonora che, diversamente dal lavoro molto accurato e preciso sul testo, ha seguito un procedimento compositivo più istintivo, ritmico e ipnotico. Diversamente da Brunetto, Babina non improvvisa in scena ma segue uno spartito preciso.
Un montaggio testuale per un personaggio
«Quando ho cominciato a lavorare sul testo ho cominciato a vederci delle trame, delle azioni e talmente tante cose che hanno fatto sì che dovessi trovare una drammaturgia. L’ordine delle poesie, così come sono nel libro, è un ordine cronologico, così come Ivano Ferrari le ha scritte nel tempo, su dei quaderni che possiede e che teneva con sé nel macello dove lavorava.
Ho cominciato a individuare dei temi e la cosa che mi è sembrato necessario per andare in scena è che ci fosse la creazione di un personaggio, che nel corso del tempo attraverso le parole si incarnasse una figura. Mi interessava che a un certo punto avessimo un personaggio davanti e non solo un dicitore delle poesie. Questo presupposto ha guidato la logica di costruzione che comincia con delle cose molto personali tipo “qualcuno si chiede se io ami”, “se durante il giorno…”, “io sono quello che stabilisce la commestibilità dei vostri miasmatici cibi”. Il personaggio è tutto rivolto a se stesso, fa prima un quadro di sé poi entra nel lavoro.
Diversamente dalla struttura del libro, ho radunato dei temi che ho intuito esserci per creare dei macro gruppi che guidassero nel momento della macellazione, del personale, dei compagni che lavorano, il momento politico della manifestazione fino al momento degli umori e dei coltelli che sono dei personaggi a loro volta perché agiscono come delle marionette che compiono delle azioni» (Pietro Babina).
Riflessività per il presente
«Ecco nel libro sono tutte sparse queste cose io le ho radunate in macro gruppi che effettivamente a mio parere funzionano perché in un momento così rapido e veloce tu riesci a focalizzare tutti i vari personaggi che partecipano, compresi gli umori, il sangue, lo sperma, il plasma, la merda… e non è una provocazione perché quello è il mondo. E poi ci sono gli uomini che sono vittime a loro volta, e che è la cosa che a me preme. La nostra società non solo macella queste bestie, ma macella anche tutti coloro che manda a fare questo lavoro. È evidente che chi lavora lì dentro per sopravvivere sviluppa delle forme mentali pseudo-naziste per così dire perché non puoi vivere in una condizione del genere avendo il peso che ha Ivano Ferrari. Infatti, per lui era devastante. Forse perché continuava a mantenere viva quella sensibilità mentre gli altri l’avevano ottusa completamente» (Pietro Babina).
Punteggiatura sonora
«Come sempre la musica è il mio punto di riferimento, ho cercato di costruire un lavoro musicale che seguisse delle logiche, per questo mi sono dato alla fine una partitura precisa. In questo lavoro l’aspetto di partitura musicale è nella scelta dei suoni e degli accostamenti a volte mimetici, a volte sentimentali ed è basata su un’idea musicale che in parte segue le suggestioni del testo, in parte le diverse cose che ascolto» (Pietro Babina).
Lo spettacolo inizia con Pietro nella sua postazione impacchettato come un pezzo di carne sottovuoto confezionato del supermercato. Un segno inequivocabile dell’estensione metaforica che viene data al lavoro che, attraverso l’oggetto esplicito che tratta, rimanda alla condizione generalizzata della violenza reale e simbolica. Un richiamo, attraverso il poeta e l’attore che si immolano, al tema del sacrificio che qui, mi pare, diversamente dall’idea del sacrificio e del capro espiatorio come fondamento del legame sociale (penso a Girard) assume, piuttosto una prospettiva biopolitica. Macello lancia un grido di dolore e di rifiuto «non solo strettamente della carneficina e della nostra attitudine specista, ma del massacro dell’artista di un certo tipo», ovvero di critica al sistema mercantile che condiziona il lavoro artistico in senso neo-liberale e che invece di assecondare la creatività «sta prosciugando i motori profondi, quelli più viscerali del fare questo tipo di attività». Un conflitto che lo spettacolo non ha la pretesa di sanare ma che permette di osservare riflessivamente, senza mai «cercare la pancia dello spettatore» (si veda a proposito anche l’intervista a Pietro Babina di Laura Budriesi), il mondo che siamo.