Istantanee #sant15 (4): Grande Madre Azdora

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Con Azdora l’artista svedese Markus Öhrn tratta l’arcaica figura della “reggitrice”, o come si legge nella descrizione del lavoro, della madre di famiglia, padrona del focolare, autoritaria ma mai distruttiva, riconsegnandole la sua parte oscura, ovvero l’ambivalenza dell’archetipo. Le azdore di Romagna coinvolte nel progetto diventano le protagoniste di una serie di rituali che coinvolgono, a diverso titolo i partecipanti. Preparate durante, l’inverno secondo un percorso visibile nei video proiettati nella prima sala dello spazio Seagi, le azdore sono le vere e uniche officianti dei rituali pagani, la cui resa – potente, diabolica e divertente – è potenziata dall’immersività dell’ambiente caldissimo e riempito delle sonorità elettroniche prodotte con la complicità di ?Alos (del duo OvO).

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Nello spazio liminoide di un evento teatrale – cioè di un’occasione di svago, da fruire nel proprio tempo libero – viene messo a punto un dispositivo capace di attingere alla potenza simbolica dei rituali liminali, di passaggio, trasformativi. Basti pensare al RITUAL #3 Eternal commitment (reservation is compulsory) dove ad una persona prescelta dopo una prova viene tatuato (per davvero) il nome dell’azdora che vuole ricordare.

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In un’occasione ad alto tasso partecipativo e di engagement come il progetto Azdora, quella che facciamo, in sintesi, è l’esperienza dell’efficacia simbolica, della partecipazione corpo/mente ad un evento che rientra a pieno titolo fra gli esempi dell’immaginario performativo, cioè dell’esperienza incarnata delle immagini.

Nord Est (In)felix. La società della prestazione nel teatro riflessivo dei Fratelli Dalla Via

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Sembra proprio che una certa parte del teatro contemporaneo italiano stia affondando in maniera esemplare le questioni sociali che, per lo meno da noi, ruotano intorno alla “semantica della crisi”.

Ne è un caso particolarmente riuscito Mio figlio era come un padre per me dei Fratelli Dalla Via, visto al Teatro Rosaspina di Montescudo il 16 febbraio scorso e spettacolo vincitore del Premio Scenario 2013.

In sintesi la storia racconta di due fratelli – in scena gli stessi Marta e Diego Dalla Via – provenienti da una famiglia arricchita del nord est italiano, padre imprenditore del legno e madre americana con un passato da Miss, che architettano l’omicidio per crepacuore dei genitori attraverso il loro suicidio. Ma non riusciranno nell’intento perché i genitori – come altri imprenditori a rischio di fallimento – decidono di farla finita per primi. Spiazzandoli e dimostrando, ancora una volta, come nel conflitto fra generazioni sia ancora quella più giovane ad avere la peggio.

Il modo migliore per uccidere un genitore è ammazzargli i figli e lasciarlo poi morire di crepacuore: era il nostro piano perfetto, ma papà e mamma ci hanno preceduto e si sono suicidati per primi. Ora ci tocca di seppellirli. Ora ci tocca di vestirli. Ora ci tocca rispettare le ultime volontà di due cadaveri. Hanno vinto loro, di nuovo. I morti sono i padroni di questa epoca (dalla scheda dello spettacolo).

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In scena i due fratelli coordinano le loro mosse seguendo una partitura fisica (ideata da Annalisa Ferlini) e si scambiano le battute in un italiano regionale che rende perfettamente il senso di un testo che varrebbe la pena di leggere, non fosse altro per come riesce a mettere insieme elementi del quotidiano e dell’immaginario vernacolare con quelli più universali, riconoscibili e pop.

Basti vedere la prima scena dove i due fratelli seduti su sgabelli fatti di cassette di plastica usati per le bottiglie, oggetti di scena che vengono spostati, smontati e rimontati a fini drammaturgici per tutto il corso dello spettacolo, scartocciano e mangiano boeri, sfidandosi in un gioco infantile mentre si scambiano idee per mettere a punto il loro piano. Conversazione inframmezzata dalla descrizione dello scenario che dà corpo a tutta la vicenda, il nord est, la matrice cristiana della cultura borghese, la biografia e i caratteri dei genitori ma anche riflessioni sul presente e sul futuro, la paura di ingrassare, gli Spriz da bere… Un panorama simbolico rinforzato dalla colonna sonora scritta da Roberto di Fresco per questo lavoro e da canzoni come Vivere e morire a Treviso e È colpa mia de Il Teatro degli Orrori.

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Ne emerge la spietata quanto riflessiva immagine della società della prestazione che esacerba la differenza fra le generazioni e il senso d’impotenza che la semantica della/delle crisi rende sempre più stringente. Forse anche più del dovuto.

E quando alla fine i due costruiranno, sempre con le cassette in una specie di danza funebre, le tombe dei genitori morti, ascolteremo le loro preghiere di commiato, quelle che abbiamo imparato a catechismo e che qui vengono riscritte e desacralizzate con giochi di parole e di senso a tratti esilaranti. Quasi a dirci che il senso “religioso” si è spostato da un’altra parte.

Ecco allora che quello dei Fratelli Dalla Via corrisponde ai caratteri del teatro riflessivo, agganciato alle istanze di una “realtà” che non viene rappresentata in senso stretto quanto osservata e quindi costruita. Il che vorrebbe dire che qui la “realtà” viene trattata attraverso una prospettiva “dall’interno” cioè esperienziale (che non vuol dire biografica però). Una prospettiva che a sua volta viene espressa attraverso una scrittura incarnata capace di tenere insieme il simbolico che è nel corpo (bios), quello della vita e della morte di cui il testo ci parla, con quello più astratto del linguaggio (logos) e che ancora ci serve per affrontare il mondo in cui viviamo.

Quando finisce l’amore

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L’amore è una normalissima improbabilità. L’ha spiegato bene Niklas Luhmann quando in Amore come passione, indagando i cambiamenti dell’amore come una particolare forma della comunicazione, fa notare come in epoca moderna il suo codice di funzionamento si sia incentrato su passione e sessualità.

L’amore quindi non viene trattato più come un sentimento ma come un codice simbolico che informa su come una comunicazione possa realizzarsi anche laddove di fatto è piuttosto improbabile.

L’amore è il medium della costruzione del mondo con gli occhi dell’altro e siccome, alla lunga, questo orientamento all’altro, come persona, al modo in cui vede il mondo, deve fare i conti con la singolarità del punto di vista di ognuno, l’amore come passione è destinato a essere infelice. O per l’appunto: improbabile.

È qui che possiamo rintracciare il senso e la forma di un lavoro come Clôture de l’amour, scritto e diretto da Pascal Rambert, che ha debuttato nel 2011 al Festival di Avignone e che abbiamo visto nella versione italiana (voluta e prodotta dall’ERT) interpretata da Tamara Balducci e Luca Lazzareschi (10 e 11 gennaio 2014 al Teatro degli Atti di Rimini).

Lo spettacolo si compone di due monologhi – o meglio di un dialogo su due uniche lunghe battute: prima lui poi lei che gli risponde – che si svolgono in una bianca e spoglia sala prove il cui passaggio di parola è permesso dall’entrata in scena di un coro di bambini che provano una canzone per poi tornare dietro le quinte e lasciare i due (un regista e un’attrice che hanno gli stessi nomi degli attori) a porre fine alla loro storia d’amore. Là dove l’improbabilità si trasforma in impossibilità di andare avanti, ma non prima di aver messo in moto le strategie comunicative di una razionalità un po’ delirante nella parte maschile e di un’emotività più lucida nella femminile.

Lui è il primo a parlare e vale la pena leggere il testo per capire che il suo monologo è ancorato ricorsivamente a qualcosa che riguarda il prima, che solo lei conosce e che lei ci chiarirà rispondendogli a tono. Lasciarsi insomma si fa discorso, crudele per forza (penso ad esempio a Lasciami di La Cecla), su uno schema comunicativo circolare come una danza ricorsiva che produce un dominio consensuale: ci lasciamo anche se io non sono d’accordo con te. Una danza che chiama costantemente in gioco il corpo: sia nel rimando al corpo d’amore che ritorna nel testo, sia nel modo stesso di essere in scena degli attori.

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I due stanno agli estremi della diagonale del palco in modo che il parlante sia visto di fronte mentre chi ascolta e incassa è di schiena al pubblico. Presente con il suo corpo in una specie di coreografia del dolore che rende più evidente il rapporto fra comunicazione verbale e non verbale, dove la seconda è quella che ci dice più cose sulle relazioni e sugli effetti emotivi.

Come autore eclettico e a vocazione trans-mediale Rambert rappresenta dagli anni ’80 una delle figure di spicco della scena contemporanea. È autore, coreografo, regista teatrale e cinematografico il che porta alla costante operazione di trasferimento e traduzione di un lavoro da un supporto e da un linguaggio a un altro. Lo stesso Clôture de l’amour è la versione scritta di un film intitolato Car Wash, ad esempio, mentre certe sue coreografie sono estensioni di pièce teatrali e viceversa.

Un’attitudine all’attraversamento dei linguaggi che in Clôture de l’amour riguarda anche il lavoro di traduzione nelle lingue dei luoghi che ospitano lo spettacolo – oltre l’Italia, Russia, Stati Uniti, Giappone, Croazia, ecc. – e un ruolo attivo e autoriale per gli attori che sono chiamati ad adattare il testo su di sé, come individui e performer, e sulla propria lingua di origine.

A questo proposito gli attori, incontrati con il pubblico dopo lo spettacolo di venerdì 10 gennaio, hanno messo in luce una serie di aspetti interessanti e che riporto parzialmente di seguito. Il resto merita di essere lasciato là dove si è prodotto. Fra applausi, risate, battute con il pubblico e perciò intraducibile e unico.

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Il testo mette a confronto delle prospettive di osservazione su diversi livelli, due sguardi sulla propria storia d’amore che sta per finire, su un piano, ma anche delle diverse coppie di attori che hanno lavorato su quest’opera nelle versioni “locali”. Potete raccontarci la storia di questa pièce, delle sue traduzioni e il modo in cui vi siete avvicinati alle vostre parti?

Pascal ha allestito questo lavoro in diverse parti del mondo e in lingue diverse e sta portando avanti uno studio antropologico sul linguaggio e su che cosa significa lavorare con gli attori nella loro lingua. Clôture ha la struttura e la drammaturgia uguale in tutti i paesi ma cambiano delle piccole cose a seconda di dove viene allestito. Pascal ci raccontava che in Giappone a teatro non si può usare la parola amore per cui fare uno spettacolo come questo senza dire “ti amo” è stato difficile eppure hanno trovato il modo di farlo. Oppure nella versione moscovita gli attori, che sono molto “stanislavskiani”, si sono rifiutati di usare i loro nomi per evitare di confondersi in un’immedesimazione troppo forte con i personaggi. Tamara Balducci

L’approccio a questo testo è stato un po’ diverso dal solito perché intanto quando Pascal ci ha presentato il testo era scritto come l’Ulisse di Joyce, cioè erano pagine intere senza punteggiatura, senza maiuscole… erano parole, una sorta di flusso di coscienza sul quale bisognava intervenire per ricreare una punteggiatura, un insieme. Però lui l’ha scritto così. Il testo come avete visto è pieno di riferimenti alla lingua parlata, alla lingua bassa, parole in inglese di uso comune, ed è così anche in francese. Ed è un altalenarsi continuo di scrittura alta e di scrittura bassa, di parlato e anche di mondo letterario. Sono due personaggi che si chiamano Luca e Tamara in questo caso, ma che possono chiamarsi in mille altri modi. Certamente due intellettuali, due artisti. Un regista e un’attrice o un coreografo e una ballerina quindi il linguaggio si riflette anche nella biografia di Rambert che è un regista, un intellettuale con tutte le finezze intellettuali francesi, filosofo peraltro. L’approccio a tutto questo è stato abbastanza traumatico. Innanzi tutto per la lunghezza. I due monologhi, come spesso ripetiamo, sono due lunghe battute di un dialogo perché in realtà voi avete un visto un dialogo in cui il personaggio passivo passivo non è visto che a teatro l’essere passivi richiede un’energia. Per ricevere bisogna essere attivi e quando Tamara ed io siamo lì a ricevere questo vomito di parole e di emozioni si assorbe e assorbire è un’attività non è una morta passività. A me non è mai capitato di interpretare un testo che si fonde così con la biografia, anche la mia personale e, credo, con quella di molti ed è anche per questo che il testo risulta essere così forte e d’impatto. Credo vada a colpire la pancia di molti perché tratta cose in un modo che probabilmente molti di noi conoscono. È stato un bel lavoro di training anche psicologico, molto interessante. Luca Lazzareschi

Uno degli aspetti che il testo pare mettere in luce riguarda il modo in cui il punto di vista irriducibile dei due personaggi rimandi al rapporto, anche conflittuale, fra il maschile e il femminile. Cosa ne pensate?

Sebbene si tratti un aspetto che viene sempre messo in evidenza, io credo che sia un po’ uno stereotipo. Che siano due punti di vista sull’amore e come affrontarlo è vero… ci vuole coraggio in una relazione nel fare il primo passo, dire basta, stop “fare il lavoro duro”, come dice Luca, quindi sono due punti di vista che non si possono incontrare e il risultato è una perdita. Tutti e due perdono. E da una perdita, da un fallimento nascerà qualcos’altro. Però soprattutto per come sono le relazioni al giorno d’oggi, per come stanno andando penso che usare la distinzione fra maschile e femminile sia uno stereotipare la complessità delle relazioni… Sì è vero che nel mio personaggio c’è un voler tenere con sé qualcosa del rapporto, il ricordo, ma non sono convinta che siano modi dell’uomo o della donna ma di modi diversi di affrontare una cosa difficile come una separazione. Tamara

In una intervista Rambert sottolinea il ruolo del tempo nei suoi lavori e la scelta di trattare i momenti di passaggio, le soglie che segnano un cambiamento, quelli che chiama “i momenti cruciali delle relazioni umane”. Come avete affrontato, allora, la messa in scena di questo vostro finale d’amore?

Pascal inserisce tutto quello che c’è da fare in questo testo. L’essere obbligati a stare lì a ricevere, stando praticamente fermi, fa già avvenire nel tuo corpo tutto quello che deve avvenire per prepararti a quello che devi dire. Basta già lasciarsi attraversare da questo. Le parole agganciano alla nostra esperienza personale e quindi non c’è bisogno di andare a cercare troppo lontano. Sei tu sei permeabile in scena a seconda di quello che ti succede e dalle parole che dici ti conosci benissimo il resto va da sé e basta solo respirare per andare avanti. Tamara

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Mi veniva in mente quella canzone bellissima di Fossati che s’intitola La costruzione dell’amore perché qui avviene proprio la decostruzione mattone per mattone, chiodo per chiodo, della relazione. La parte maschile è quella razionale che maggiormente va incidere nei punti deboli… Io trovo invece che nel testo ci siano i due stereotipi del maschile e del femminile. Il maschile razionale va a smontare l’emotività femminile punto per punto e poi, naturalmente, quando il femminile contrattacca vince. E vince per due motivi. Primo perché arriva dopo e qui non c’è possibilità di replica però è anche un po’ così nella vita. […] La capacità femminile di andare nel profondo e di restituire un mondo interiore, come dice il personaggio di Luca, è certamente maggiore di quella maschile. Io credo che questo sia un testo di grande celebrazione del femminile. … La donna esce vincente basti pensare alla battuta finale “Spero che tu abbia una vita interiore”. Poi i grandi testi teatrali, e penso che questo sia un grande testo teatrale e di poesia, non a caso in Francia ha vinto moltissimi premi di drammaturgia e di letteratura, sono costruiti in modo anche curioso. Penso che Pascal ci dia l’autorizzazione a raccontare qualche aneddoto… Pascal Rambert vive a Parigi un po’ in periferia, al primo piano di un palazzo e ha preso nota nel suo studio di cose che sentiva per strada. Cioè molte delle cose che diciamo sono cose che ha sentito di persone che litigavano, che si lasciavano, che parlavano dei figli e le ha messe lì. È questo il grande autore, cioè colui che sa trovare la poesia anche da qualche cosa che l’orecchio di chi non è un autore o un poeta non riesce a percepire. Lui lo riesce ad acchiappare e trasformare in un evento drammaturgico. Poi avrà preso anche sicuramente dalla sua storia personale. Ritengo però che sia un testo il cui equilibrio è molto squilibrato dalla parte del femminile. Io stesso che sono lì come Luca attore penso “ha ragione lei!”. Luca

Lo spettacolo mette a punto una drammaturgia stratificata e circolare che sembra mettere a tema proprio la questione teatrale e categorie come la quarta parete. Nel testo sentiamo spesso frasi come “se ci fosse il pubblico a sentirci”, “se ci fossero coppie in sala”, come vanno intese?

Sono trucchi drammaturgici molto interessanti, di rottura della quarta parete e servono per chiamare in causa il pubblico. Le reazioni che vediamo spesso dimostrano che questi “trucchi” siano molto efficaci. C’è sempre questo gioco speculare tra quello che si dice qui e quello che viene percepito in sala. Luca

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Allo stesso modo mi sembra interessante la circolarità degli sguardi punti di vista e del rapporto fra il linguaggio perché è la dimensione testuale, pur essendo centrale in questo lavoro, rimanda continuamente alla corporeità. Il corpo è costantemente evocato dal vostro stare in scena ma anche dalle cose che dite, all’amore come questione che coinvolge il corpo e la sessualità. Come si realizza questa circolarità dal vostro punto di vista?

Questo un testo sul linguaggio. Non solo sul linguaggio fra due amanti ma sul linguaggio in generale. Una delle tante cose importanti che si dicono nel testo è che il linguaggio deflagra. Tamara a un certo punto dice “le parole sono come cadaveri, uno qua e uno là” e questo è molto vero. Quando un amore finisce o comincia lentamente a consumarsi il linguaggio è la prima cosa che decade, il linguaggio comune. Forse la cosa più bella soprattutto all’inizio è la scoperta di un linguaggio comune, di alcuni nessi fra due entità che scoprono di avere una lingua e un linguaggio comune. Poi questo linguaggio comune diventa uno solo e poi lentamente, a volte, le parole, purtroppo, come accade in questa storia, cominciano a decadere, a non avere più il senso che non avevano prima. I due soggetti cominciano a non capirsi eppure dicono sempre le stesse cose ma evidentemente alle parole si danno significati diversi, gli si mettono degli abiti diversi e in questi non si riconoscono più. Credo che questo, in questo testo, sia l’elemento poetico più deflagrante e bello, dal mio punto di vista. Il testo è secondo me va a rispecchiare esattamente questo aspetto, cioè quello che può accadere nella fisiologia di un rapporto che finisce, nella patologia di una storia d’amore. Quando la fisiologia diventa patologia, i tessuti non si riconoscono più e le cellule cominciano a farsi la guerra pur essendo composti della stessa sostanza. Luca

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Qual è la funzione del coro e come avviene il reclutamento, la scelta della canzone cantata dai bambini? So che ad esempio nella versione statunitense la scelta è ricaduta su un pezzo di  Whitney Houston…

In ogni piazza viene reclutato coro di bambini che propone la canzone in base al proprio repertorio. In Italia, in genere, i bambini cantano Bella di Jovanotti. È molto pop come canzone ma ha un effetto pazzesco perché dopo tutto il monologo di Luca, con la sua pesantezza, l’arrivo di questi bambini tutti colorati che provano una canzone allegra crea una lacerazione. Il contrasto dovrebbe fare male, mettere in evidenza lo scarto con quello che è avvenuto prima e che avverrà dopo. Tamara

Ecco allora che la fine dell’amore è un modo per trattare la dimensione del tempo e di quelle fasi di passaggio che marcano i cambiamenti nella vita degli individui e delle collettività. Forse è qui che si trova il significato non solo estetico del finale quando Luca e Tamara indossano un copricapo di piume blu guardandosi per l’ultima volta.

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Gli attori ci hanno divertito e incuriosito sugli aneddoti legati a questo finale e su come sia stato oggetto di discussioni e revisioni da parte del regista, di come gli attori russi si siano rifiutati di metterli non riconoscendone il senso drammaturgico e di come in America non siano passati alla dogana…

Ma quello che ci resta, a ben vedere o almeno per me, è un’immagine abbastanza chiara di un rituale di abbandono, di una danza fra combattenti, fra due rivali, che dà l’avvio o chiude un conflitto ovvero il dramma sociale che è all’origine della vita, della performance e del teatro.

Remember Thomas

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Vorrei essere anche io oggi al Velvet, fra quelli che saluteranno Thomas Balsamini.

Come molti di noi, al di là dell’essersi conosciuti di persona ed essere stati amici per un po’, ho un debito di riconoscenza nei suoi confronti. Lo Slego era un luogo dell’anima e la musica il centro dei nostri raduni settimanali. Dei nostri rituali liminoidi. Efficaci e di svago allo stesso tempo e tutto questo non può non occupare un posto importante nella memoria, individuale e collettiva.

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Pensando a quel periodo, che sono gli anni ottanta, diventa difficile separare il vissuto dall’osservazione più puntuale sulla connotazione di un territorio – quello riminese – che, come Fabio ha sottolineato in un commento ad un mio status su FB – se per lo meno rispetto al resto dell’Italia, non si è mai percepito come una frontiera di provincia lo deve soltanto a certi personaggi.

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Come Thomas Balsamini, appunto. Ragazzo della cultura e che ha giocato un ruolo cruciale nel farci capire e sperimentare mondi altri, aprendoci al passato (anche dell’industria culturale) – il mod, la Motown e la Kent, il beat… – e al presente – che era ad esempio rappresentato dal garage ma Thomas ci faceva ballare anche il primo Sting solista.

La formazione passa anche attraverso la messa a punto del gusto, segna delle fasi di appartenenza generazionale sensiva e tattile, non necessariamente ideologica e mentale, identificazione e individuazione, scelta, selezione. Insomma: senso.

La Reality della scrittura

Reality di e con Daria Deflorian e Antonio Tagliarini – ieri sera ai Teatri di Vita – è uno spettacolo basato sulla vicenda di Janina Turek, scoperta grazie al reportage di Mariusz Szczygie!, una donna polacca che per oltre cinquant’anni ha annotato su 748 quaderni ritrovati dopo la sua morte dalla figlia i micro avvenimenti della sua vita. Un catalogo minuzioso di dati fatti di telefonate ricevute (38.196); di incontri casuali di persone salutate con un “buongiorno” (23.397); di appuntamenti fissati (1.922), regali fatti, a chi e di che genere (5.817); di partite a domino (19); di programmi televisivi visti (70.042).

Il significato di questo lavoro – che fa parte di un progetto più ampio – può essere ricavato dalle parole dello Mariusz Szczygie! esplicitamente richiamate da Deflorian e Tagliarini:

Nella routine quotidiana succede sempre qualcosa. Sbrighiamo un’infinità di piccole incombenze senza aspettarci che lascino traccia nella nostra memoria, e ancor meno in quella degli altri. Le nostre azioni non vengono infatti svolte per restare nel ricordo, ma per necessità. Col tempo ogni fatica intrapresa in questo nostro quotidiano affaccendarsi viene consegnata all’ oblio. Janina Turek aveva scelto come oggetto delle sue osservazioni proprio ciò che è quotidiano, e che pertanto passa inosservato (dalla cartella stampa dello spettacolo).

Ecco allora che il riscontro con la “realtà” assume la forma, nelle intenzioni degli autori, di un “reality senza show, senza pubblico. Essere anonimi e unici. Speciali e banali. Avere il quotidiano come orizzonte”.

Perciò l’ordinario viene reso straordinario dal codice dell’arte che fa rientrare nelle sue operazioni un rituale nevrotico. Un processo che non essendo funzionale ad un progetto artistico volontario – come potrebbe essere per una come Sophie Calle che viene in mente subito – ha bisogno che qualcosa cambi il segno/senso di un comportamento apparentemente soltanto eccentrico di una casalinga di Cracovia.

Nell’intento dei due attori – bravi e capaci di credibile ironia – “non si tratta di mettere in scena o di fare un racconto teatrale attorno a lei, ma di dialogare con quello che sappiamo e non sappiamo di Janina e di creare una serie di corto circuiti tra noi e lei e tra noi e il pubblico attorno alla percezione di cosa è la realtà”.

In questo senso proprio l’uso della scrittura diventa la cifra utile a cogliere il valore della memoria, individuale, che Janina affida ai testi, e che Deflorian e Tagliarini trasferiscono sul tumblr Reality/Diario associato al progetto per dare la parola a “quello che già era janinesco” in loro e forse un po’ in tutti noi.

Tuttavia, sul piano drammaturgico, lo spettacolo non riesce a superare il tratto narrativo che pure nelle intenzioni vorrebbe evitare e in definitiva la dimensione meta-teatrale pesa sull’andamento complessivo del lavoro. Le aspettative create all’inizio, giocate anche sull’ironia di cui i due sono evidentemente capaci, non sono risolte e alla fine la nevrosi di Janina invece di “portarci dentro” diventa un po’ noiosa.

La festa dei morti e altri esorcismi. Dal rituale alla riflessività in Kapusvētki di Alvis Hermanis e New Riga Theatre, VIE2011

Nella tradizione lettone Kapusvētki (Graveyard Party) è la festa dei morti. Lo spettacolo di Alvis Hermanis e del New Riga Theatre (Vie – Scena contemporanea festival 2011 a Modena) potrebbe essere visto come la rappresentazione di una forma rituale che a teatro vede trasformare la sua efficacia simbolica in un’occasione per la riflessività. Per tutti noi che nel racconto ironico e poetico di una tradizione che non ci appartiene abbiamo a disposizione un modo per confrontarci con i “nostri” modi collettivi, e magari individuali, dell’elaborazione della perdita e dell’idea della morte.

Questa possibilità è fornita dal gruppo di attori che insieme al regista porta avanti da anni una sorta di ricerca etnografica sulla società lettone, quindi sulla propria (come focalizza una bella recensione su Altre Velocità), basata sulla ricerca di storie vere da ricomporre in chiave drammaturgica e formale visto che in scena gli attori si dispongono in fila sul palco, a garanzia di una visione frontale, per interpretare la parte dei suonatori delle bande funebri (ma suonano davvero perché hanno imparato a farlo per questo spettacolo) che si raccontano aneddoti, vicende e delusioni dovute, come per tutte le cose, a quei processi di “modernizzazione” che vedono impallidire le tradizioni. Come ad esempio la musica suonata dal vivo ai funerali, secondo le passioni e i gusti del morto (esilarante per me la versione banda funebre di Yesterday dei Beatles) sostituita dal micidiale sintetizzatore…

Scopriamo perciò, grazie anche al corredo di immagini in bianco e nero del cimitero di Riga del fotografo Martins Grauds, che la festa dei morti è un’occasione di incontro, dove si mangia e si beve all’aperto, si sta insieme mentre si sistemano le tombe, e che una celebrazione simile è la Dìa de los Muertos in Messico, con le foto a colori del cimitero di Città del Messico.

E così per noi, spettatori, una performance culturale con la sua funzione celebrativa e simbolica centrata com’è, com’era, sui corpi dei vivi e dei morti viene resa teatro cioè dispositivo dello sguardo. Non per questo meno vivo o dimentico dei morti.

Il piacere della differenza. Una piccola mostra di maschere africane la può fare

Sono belle e simbolicamente pregnantissime le maschere africane e gli altri oggetti rituali delle popolazioni stanziali dell’Africa. Parlano di archetipi e di mitopoiesi, cioè dei processi necessari al mantenimento delle forme comunitarie delle società primitive a struttura segmentaria, laddove la struttura clanica, a seconda delle zone, poteva essere patri o matrilineare, dove la gerarchia dei poteri dipendeva dall’età, da lì quindi il senso dei riti di passaggio ad esempio. Ci parlano del rapporto con il sacro e con la natura, della rigida distinzione dei generi dove l’uomo lavorava i materiali duri e la donna quelli morbidi, uno costruiva e l’altra decorava perché depositaria del “bello” ma dove capiamo anche che i riti di circoncisione ed escissione sono serviti per segnare la differenza in esseri inizialmente ermafroditi. Si vedono, nelle maschere e negli oggetti, i segni del maschile e del femminile, gli animali e gli oggetti che li rappresentano da cui gli artisti “moderni” hanno attinto. Questi oggetti, bellissimi, non sono opere d’arte, se non per una ricostruzione ex post tutta della comunicazione, poiché il loro valore dipendeva dall’uso. Efficacia simbolica. Una volta compiuto il loro compito infatti venivano “disattivati” e dispersi nella foresta dove potevano cedere la loro energia e farla rientrare nel circolo della natura e del tempo cosmico.

Queste alcune cose che mi restano in mente dopo aver visto – e aver parlato un po’ con la bravissima curatrice – quasi per caso (anzi non ne avevo neanche tanta voglia là per là) una piccola mostra che si chiama animAfrica al Palazzo del Turismo di Riccione, fino al 24 giugno allestita in concomitanza con il premio Ilaria Alpi che quest’anno titola La realtà senza schermo.

Ma mi resta soprattutto la differenza con il paesaggio riccionese da sabato sera orario aperitivo nel quale le mie amiche ed io ci siamo ritrovate con un certo senso di disagio all’uscita dalla mostra. Quando i fenomeni vivi ti fanno capire il significato dei concetti che pratichi nel tuo mestiere. Poi, visto che Morin ha sempre ragione, sono andata a cena con gli amici e mi sono divertita.

La Passione oltre la fede per la conoscenza. Un appuntamento mancato

Per chi ha avuto, come me, una buona educazione religiosa il pensiero della fede non è residuale. Per cui, nonostante tutto, ci sono degli eventi cerimoniali ai quali provo ancora a partecipare. La Messa della Passione di Cristo è uno di questi. E così oggi sono andata nella Cattedrale di Rimini per seguire e sentire un momento importante per cercare di rinsaldare qualcosa che in me, visti tra l’altro gli ultimi fatti che riguardano la Chiesa, è sempre più scialbo. La lettura di Giovanni, grazie al coro ammirevole, non è bastato però al cospetto di un’omelia che non mi ha soddisfatto procurandomi, piuttosto, una certa (ma ormai solita) insofferenza.

Il Vescovo, credo fosse lui, dimenticando quale sia il senso del rituale, della sua qualità ripetitiva fatta di ridondanza e varietà, cioè di ripetizione utile a riproporre il senso dell’evento e all’appartenenza a quel particolare credo rinnovandolo, ha richiamato i fedeli a resistere alla sensazione di assuefazione che nel tempo la partecipazione alla messa o al risentire letture arcinote può procurare. Lasciarsi andare alla commozione per chi è morto per tutti e per ogni singolo individuo, amico o nemico che sia, è lo sforzo che si deve fare per non essere spettatori passivi del dolore.

Ora: il valore del rituale sta appunto nella ripetizione che per i partecipanti – che oggi non sono coerciti ma volontari – rinsalda qualcosa che onguno per motivi suoi ha dentro di sè e che non può essere valorizzato da un’ingiunzione paradossale del tipo: devi commuoverti. Se poi “lo spettacolo del dolore” degli altri ci rende un po’ più immuni non è detto che di fronte alla Passione non si pensi al senso dell’umanità del Cristo. Che, a mio avviso, è il vero mistero e fascino del cattolicesimo.

Questi sacerdoti non sanno più parlarci, c’è poco da fare. Le banalità che sfoderano non possono rispondere alle domande teologiche che le persone si pongono. Allora ben venga quell'”armata branecaleone” oggetto del libro di Chiaberge, Lo scisma, che ho sentito presentare qualche tempo fa a Pesaro e che dà voce a coloro i quali, nel quadro del sentimento cattolico, svicolano dai dogmi. L’Autore rispondeva alla mia domanda sulla capacità perturbativa di questi personaggi richiamando un possibile Concilio Vaticano terzo (?). Io mi accontenterei di un po’ di profondità in più.

A noi, impiegati dell’Università, si chiede, giustamente, qualità della ricerca e della riflessione ma forse questa richiesta dovrebbe essere diffusa ad altri settori della società.