Fèsta fluxus. Tracce nel Deserto Rosso #2

festa-rossa inizio deserto

Le hanno definite serate fluxus a causa della loro struttura dinamica data dal fluire di situazioni performative montate a compartimenti.

Sto parlando di Deserto Rosso (Ravenna 8-11 maggio), happening “seriale” in tre puntate – #1 Alba, #2 Tramonto, #3 Notte – ideato e coordinato da Marco Valerio Amico e Luigi De Angelis – nell’ambito di Fèsta14 rassegna di arti visive, danza, musica, performance e teatro con la direzione artistica delle quattro compagnie consorziate in e-production: ErosAntErosFanny & Alexander, gruppo nanouMenoventi.

festa marco nanou

Dal punto di vista formale si è trattato di un evento performativo a carattere site-specific allestito nello spazio dell’Almagià con una scena centrale, definita da un grande tappeto circolare e attraversata da una tenda sospesa, con intorno piccole stanze delimitate da porte e finestre sghembe, fasci di luce nel buio della sala, uno schermo da guardare come un tavolo su cui scorrono immagini tratte dal film che dà il titolo all’evento.

festa-schermo tavolo

Sullo sfondo, dietro una quinta trasparente, s’intravede la consolle per il dj set, dato che la dimensione sonora, fra le cifre espressive di De Angelis, è centrale come quella visiva, incentrata sull’estetica fotografica, di Amico.

festa-ruhena

Intorno al corpo centrale della scena sono allestiti angoli abitati dagli artisti o dedicati a “piccole” azioni d’interazione con il pubblico. Quest’ultimo, movente e artefice della resa dell’happening, è sollecitato ad appropriarsi di quello spazio, a seguire e inseguire le azioni che vi accadono, perfino a fotografarle.

festa lucciola

Sta di fatto che la connotazione spaziale di un lavoro come questo va vista in associazione con la variabile temporale e di flusso, appunto.

La performance, pensata come una serie di eventi senza soluzione di continuità, si sviluppa nell’arco di due ore raggiungendo picchi di concentrazione in cui gli artisti sono tutti presenti, s’incontrano e si incrociano mentre le perfomance si innestano l’una sull’altra, autonome e messe in connessione dalla visione spettatoriale, con effetti unici e irripetibili; in altri momenti le azioni sono rallentate e separate; ci sono situazioni intime e altre più spettacolari e collettive.

festa pugile di fronte a me

Dal canto suo lo spettatore gestisce da solo quasi tutto il tempo di fruizione delle diverse parti, salvo nei momenti in cui è possibile cogliere il lavoro di regia, quello che, sulla base di un patto teatrale che non può essere espunto, ci porta, noi spettatori, a fermarci tutti fatalmente in uno stesso punto, a guardarlo insieme per poi magari riprendere il nostro “giro”.

festa tel

Sono i momenti in cui, ad esempio in Deserto Rosso #2, Chiara Lagani e Marco Cavalcoli ri-vestiti i panni camouflage di T.E.L. eseguono insieme sulla pista centrale la loro danza dell’eterodirezione, oppure quando frammenti di Sport del gruppo nanou si sovrappongono con quelli del (coming soon) Discorso Celeste di Fanny & Alexander interpretato da Lorenzo Gleijeses.

festa lucciola e stesa

In generale sono belli gli incroci che producono effetti stranianti, soprattutto se e quando si riconoscono i lavori da cui quei frammenti di performance sono tratti, così come poter assistere alle pillole dei lavori delle compagnie: WRH e Shot del gruppo nanou, i Discorsi di Fanny&Alexander, L’uomo della sabbia di Menoventi, con Consuelo Battiston che bisbiglia alle orecchie dello spettatore che le si avvicina o con Gianni Farina che ci sfida a una partita a scacchi, Come le lucciole di ErosAntEros.

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Ed è così che i tempi di quei lavori, il posto che occupano nella biografia della compagnia oltre che della messa in scena in sé, collassano in un’unica e contingente unità spazio-temporale.

festa consuelo

Nel suo insieme Deserto Rosso trova il suo senso non solo come fenomeno emergente dalle poetiche delle compagnie e dei tanti performer coinvolti, ma come progetto resistente che porta avanti la ricerca, forse utopica, di pensare e agire il teatro come uno spazio-community per attori e spettatori.

Il Tabarin perturbante di Menoventi. Diario di una serata bella e sinistra

Se agli inizi del novecento il Tabarin era un locale adibito sia alle rappresentazioni sia al ballo degli spettatori – con un piccolo palco con ribalta e pista – diventato poi il sinonimo di dancing, night club o balera da noi fino a connotare un cabaret di basso livello, allora Menoventi con il suo Tabarin Citadin – la sera del 21 luglio al Dancing Tre Stelle nell’ambito del Festival di Santarcangelo – ha fatto centro.

Accolto all’entrata da attori/cassieri che decidevano quanto far pagare a ciascuno, il pubblico si ritrovava poi ad affrontare subito un altro spaesamento entrando sì nell’ambiente del dancing – buio con i divanetti, il bar, il palchetto… – ma dovendo anche attraversare un corridoio delimitato da dei nastri, e decidere di superarli, per sedersi sulle sedie distribuite nella pista/platea per seguire, di lì a poco quello che sarebbe stato il cabaret più sfasciato (uso la definizione di Consuelo Battiston) e inquietante che potessimo aspettarci.

Dalla presentatrice costretta a bere (Rita Felicetti), e che sul finale verrà presa a sputi dalla “collega” (Chiara Verzola) che ha interrotto con proposte improbabili l’andamento della serata (tipo: giocare a uno/due/tre stella, raccogliere soldi tipo questua, ecc.), fino alla serie di sketch che ha visto avvicendarsi i dialoghi cinici di Quotidiana.com, la performance paradossale di un pugile che si dà i pugli da solo (Mauro Stagi), gli insulti al pubblico di un gruppo di fantasmi (Kinkaleri), la follia surreale e intrigantissima di Astorri e Tintinelli. Il tutto in un sottofondo musicale di Vokodo altrettanto potente e straniante.

(Paola Tintinelli, foto dalla pagina FB di Vokodo)

(Chiara Verzola e Rita Felicetti, foto dalla pagina FB di Vokodo)

In un’atmosfera velatamente lynchiana un certo senso di paura, una specie di sentimento sinistro, ci si trovava a provare una strana mistura di tranquillità (verso una situazione che si sapeva di conoscere) e fastidio (verso qualcosa che però non si riconosceva del tutto), o meglio di quell’insieme di familiare ed estraneo che caratterizza il perturbante ossia quel particolare sentimento di spaesamento analizzato da Freud grazie soprattutto all’opera di Hoffman, L’uomo della sabbia.

E così pare naturale ritornare a L’uomo della sabbia. Capriccio alla maniera di Hoffman (da leggere qui e qui), cioè al lavoro teatrale di Menoventi in programma al Festival (per l’appunto ispirato all’opera che ha ispirato il saggio sul perturbante) e chiudere lo “strano anello” che fa da linea guida per la poetica cibernetica di Gianni Farina e compagni.

La prima volta di Rete Critica

Il progetto di Rete Critica, al quale anche questo blog partecipa, ha avuto come merito indubbio quello di costruire una rete di blog e siti dedicati al teatro. Così facendo ha reso questa rete prima di tutto visibile a se stessa. Ha gettato le basi per definire delle relazioni, nello spirito del networking e del supporto digitale che lo permette.

E quel che più conta, mia pare, è che tale messa in relazione parta dalla reputazione che evidentemente per i promotori dell’iniziativa – Massimo Marino, Oliviero Ponte di Pino, Anna Maria Monteverdi, Andrea Porcheddu – gli autori dei blog e delle testate online si sono guadagnati sul campo, al di là del circuito tradizionale della critica teatrale.

Il processo è stato avviato con il censimento di blog e siti di informazione teatrale. Si è proceduto con l’invito a partecipare, con le prime discussioni – penso allo scambio di idee con Teatro e Critica – per poi passare alle candidature. Infine le votazioni primarie e il ballottaggio fra i due finalisti “espanso” su Facebook e ai contributi di chiunque volesse dire la sua così come su Twitter.

Nel frattempo Il Tamburo di Kattrin ha aggiornato le sue pagine integrando la rassegna stampa dei nostri post, mentre il passa parola offline ha fatto il resto. Un’attività che si è conclusa oggi con la diretta su Radio 3 con la vittoria della compagnia Menoventi, già nella mia rosa di candidati. Evviva! (o come direbbero loro “è viva”!).

Perdere la faccia a Santarcangelo41. Ovvero l’irresistibile fake di Menoventi/Daniele Ciprì.

[Spoiler Alert] Attenzione questo post contiene uno spoiler, cioè una rivelazione sul lavoro di cui tratta. Non leggetelo se volete la sopresa.

Già dalla pagina dedicata dal catalogo di Santarcangelo41 al lavoro presentato dalla compagnia Menoventi sono state ordite le trame di un fake teatrale cioè di un falso. Un termine legato alla semantica di Internet e che arte e pubblicità utilizzano come strategia creativa e come metafora della finzione cui siamo sempre sottoposti. Diventa perciò sempre più stimolante osservare le derive della comunicazione e il modo in cui il teatro, dal vivo, se ne (ri)appropri.

Presentato come un cortometraggio frutto di una nuova esperienza cinematografica del gruppo, in collaborazione con il regista Daniele Ciprì, cui poi sarebbero dovuti seguire i “dibattiti” sui temi Una questione di prospettiva e Una prospettiva sulla questione (!), Perdere la faccia svela ben presto lo stile ironico, surreale e tragico di Menoventi.

Qualcuno lo chiama ironico-surreale (anche qui),  qualcun altro rimanda al teatro dell’assurdo. Sta di fatto che il film ovviamente non c’è e in scena i due attori non possono fare altro che continuare a reiterare la presentazione del film, uscendo e rientrando tutte le volte che il film non parte (loop), fino ad essere interrotte da una figura che esplicitando la dimensione meta-teatrale, interagisce con il pubblico e che spezza quella ripetizione, crea incidenti di percorso che fanno ridere ma che non fermano le due marionette-robot che continuano fino alla fine, nonostante tutto, a presentare il “loro” film. Il tutto in un crescendo che diventa tragico e che ancora una volta, cioè ancora una volta rispetto a quello che ho visto in questi giorni, chiama in causa il corpo ferito e protagonista della body art – ad esempio quello di Consuelo Battiston provato dalla cipolla sfregata vicino ai suoi occhi – che riporta l’attore in carne e ossa e al lavoro dello spettatore al centro del teatro.