A sproposito di donne. Letture domenicali

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Leggevo questa mattina dalla sempre utile newsletter di Exibart che l’artista Corrado Sassi presenterà a Milano una performance dal titolo Shot Vanessa. Un gruppo di 36 belle donne in tailleur, stile donna in carriera, stanno in piedi in uno spazio delimitato e bevono vodka finchè, ubriache, non sono più in grado di stare ferme al loro posto.

La metafora: la donna forte ma anche fragile, si lascia andare perdendo nei fumi dell’alcool i freni inibitori in una sorta di “baccanale mitologico” (vedi nella foto quella che naturalmente si scopre una tetta).

Leggo ancora: la performance fa riflettere sui ruoli nella società e sul “lato della donna ferino e incotrollabile da sempre nell’arte associato alla donna”.

La cosa più divertente è quando dice che ad una lettura più approfondita appare evidente il riferimento a Vanessa Beecroft… più approfondita??

E ancora, sintetizzo: uscendo dalla natura morta e dalla dittatura dell’artista (questo passaggio poi non mi dispiace fiinché non si aggancia a quello successivo) le donne ubriache e imbruttite sono più reali e libere delle impassibili e perfette donne dei lavori di Beecroft. Il lavoro di Sassi comunica così pensieri diversi sulla condizione femminile nella società.

Non ce l’ho con chi ha scritto l’articolo, però un po’ sì perché ci poteva pensare un po’ di più. Mi sembra che il lavoro della Beecroft vada in una direzione ben più interessante e raffinata di così. Anche di lettura sulla condizione femminile. Non dimentichiamo che la Beecroft è anche una donna e che un lavoro al maschile che cita un’artista “in voga” per farle il verso mi sembra di una banalità e di una tristezza agghiaccianti. Ci sono tutti gli stereotipi più beceri: la donna in carriera, il ruolo che costringe, il bisogno di tornare allo stato di natura… boh. Continuo a preferire di gran lunga la Beecroft e sull’immaginario del femminile tornerei ai fondamenti.

Attraversamenti e forme dell’abitare ma sempre in Motus

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Motus è già di per sè metafora del flusso, della ricerca verso l’esterno, verso il “fuori”. Nella teoria e nella pratica del vissuto stesso della compagnia e dei suoi fondatori – Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande – tutto questo diventa: viaggio.

Un viaggio che, pur con l’intenzione di ragionare sulla produzione più recente, è partito da Catrame perché il punto di partenza sta nel riflettere sulle forme del fare spettacolo, per stare dentro al teatro visto con gli occhi (e con il corpo) del cinema. L’attraversamento poi è quello della filosofia e della letteratura, Deleuze, Ballard e molto altro, ma soprattutto dei linguaggi mediali. La messa in scena dello sguardo, delle forme del guardare e dei punti di vista.

E’ ancora la questione della problematizzazione dello spettatore ad essere centrale. Costretto ad un lavoro, percettivo e cognitivo, lo spettatore è messo nella condizione di scegliere perciò di ridare valore alla differenze, che è poi una cosa che vale per la vita: riflessività della performance. La fase è quella del video in scena, dell’interrogarsi sul “come far interagire un essere vivente (un’espressione che noi amiamo per simpatie bio-cognitive!) con lo spazio/tempo teatrale. Il che ha portato a Twin Rooms e alla stanza digitale.

Si chiedono cosa sia il teatro, e pur non amandolo, ne esplicitano la funzione: come istanza che si confronti con il reale e con il contemporaneo. Dove quest’ultima è l’altra, anzi la vera, parola chiave dei due incontri (l’altro con Silvia Bottiroli) e del corso che li ospita.

Poi c’è lo sguardo contemporaneo di Pasolini, figura emblematica di un paradosso: il vissuto personale che fa i conti con il ruolo dell’intellettuale e dell’artista chiamato a svelare le ombre della società italiana del boom economico per ritrovarne, nella nostra appunto, dei residui ancora attivi. Il lavoro sta per Motus nell’oscillare dalla necessità di essere didascalici e puntuali, per omaggio e rispetto (mi pare) ai riferimenti teorici, e licenza creativa (prendere e rielaborare suggestioni, permutare e ricombinare in forme nuove). Dal testo Petrolio allo spettacolo Come un cane senza padrone, da Teorema il film fino a L’ospite con la sua macchina scenica imponente. Trasformare la letteratura in altre forme. Ad esempio nel video e nella grafica: dal Beckett di A place [that again] e Rumore Rosa, a Le lacrime amare di Petra Von Kamp di Fassbinder. L’urgenza espressiva è quella di liberarsi per un po’ dalla sovrabbondanza e dalla saturazione percettiva del video per tornare alla grafica.

L’immaginario – come comunicazione per immagini – va visto attraverso l’incursione estetica nel sociale che questo tipo di teatro elabora e rielabora. Ma l’urgenza del contemporaneo è anche quella dei suoi temi.

E’ la tappa di Ics (X). Racconti crudeli della giovinezza e di Crac, azzeramento per rimettersi in moto. Ne abbiamo parlato diverse volte in relazione alla problematica generazionale e rimando a quei post. Qui c’è da sottolineare il metodo di lavoro che consiste nel coinvolgimento degli attori nella realizzazione stessa dell’idea drammaturgica. E questo riporta alla messa a tema e alla sua necessità di essere “reale”. Non riproduzione fedele di qualcosa che può essere solo osservato e costruito come risultato dell’osservazione, ovvio, ma come sguardo dall’interno: come dire, e semplifico moltissimo, parlare delle nuove generazioni, attraverso la lente di un adulto, viene meglio se al giovane è data voce.

Nella strada, nei centri commerciali, negli scenari urbani, dei marciapiedi, che prendono il post delle strade del viaggio californiano, del deserto, dei motel. La fascinazione per le architetture delle periferie di centri urbani (Valence, Halle… ) non solo rimanda alla dimensione estetica e dell’arte visiva, che pure è cifra importante dell’opera tutta di Motus e che ne qualifica l’immaginario (anche nei termini del contemporaneo tanto per dire), ma alla nuova geografia dell’abitare: i media, da un lato, e le periferie che sono più vitali di quel che pensiamo.

Uno spunto da Giovanni: si osserva lo spostamento dal centro della metropoli novecentesca con i suoi luoghi per l’intrattenimento (il cinema), centro anche della vita e dello sviluppo della civiltà moderna, alla periferia urbana di un centro che ha perso la sua funzione aggregatrice (per le idee, per la pubblica opinione). Che poi questo per noi vuol dire anche passaggio ai luoghi della rete per l’emergenza e l’elaborazione di idee, opinioni, discorsi, per la circolazione di contenuti nuovi.

Il contemporaneo intempestivo. La Sociétas raccontata da Silvia Bottiroli

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Una lezione sul senso del contemporaneo, quella di Silvia Bottiroli. Da Agamben e Nancy per cogliere nel lavoro della Sociétas quella forma del rapporto con il tempo anacronistica e inattuale da cui emerge lo spirito del tempo appunto e, nel caso del teatro, il rapporto con la propria disciplina. Così troviamo esplicitata la funzione sociale dell’arte come attualizzazione di possibilità rimosse, come luogo per comunicare osservazioni.

I miei appunti: il lavoro della Sociétas straborda dalle opere verso la creazione di contesti e formati di relazione con lo spettatore. Un teatro che si interroga sullo statuto dello spettatore come individuo e come comunità temporanea. Così come nella stessa scelta del nome: Raffaello Sanzio ovvero la bellezza che si associa a Società poi Sociétas, nome plausibile per lo stare insieme di una comunità di estranei – inconoscibilità reciproca (intrasparenza delle coscienze diremmo noi) – uniti da una visione. C’è una biografia affascinante che sa di arcaicità contadina, di dimensione familiare e di rigore tecnico-formale ma anche di rapporto con l’infanzia come realtà che mette nudo l’impossibilità della pedagogia (fine del paradigma trasmissivo finalmente!). Dice Silvia “Con il suo immaginario – la SRF – ha contagiato una generazione di spettatori, non necessariamente teatrali”. Una frase chiave per me.

Il valore della performance: teatro arcaico, sacro, pre-tragico, pre-prospettico. L’animale, maestro di presenza, rappresentazione del valore simbolico insieme al linguaggio e alle parole. Come la lingua “generalissima”.

Un filo rosso per l’immaginario attraverso una serie di spettacoli scelti per noi: La discesa di Inanna, mito sumerico che celebra il femminile, aspetto rituale e antropologico, ma anche politico visibile nella deflagrazione fra l’immagine dell’icona sacra e la soldatessa; Santa Sofia e rimandi a Piero della Francesca, bidimensionalità bizantina, aprospettica. L’orizzonte estetico che porta verso Amleto e la ricerca, attraverso l’autismo, sul linguaggio (che viene scarnificato) e sulla presenza dell’attore. Giulio Cesare: i corpi per parlare della parola (scritta). Genesi (1999) che già per me ha segnato un passaggio (efficacia) è l’opera che chiude e apre un ciclo. Esplora il concetto di creazione e ricreazione (luciferina). Un’opera insomma che non fa piazza pulita ma che mette una pietra tombale sul prima. Colpa dell’artista (palco-colpa), la sua presunzione nei confronti di Dio. Se la parte dello spettacolo che mette in scena i bambini e crea un’atmosfera stranamente ovattata e sospesa, rimanda ad Alice per rappresentare i campi di concentramento è perché il punto sta nello scardinamento rispetto al modo “solito” di pensare e vedere. Riflessività della performance. E poi ancora Eva e il nutrimento, Caino e Abele, rapporto vittima e carnefice (che torna nel Purgatorio), l’uccisione rituale del fratello (la specie e le nuove generazioni).

La Tragedia Endogonidia (2002-2004). Sganciamento dalla replicabilità attraverso le Crescite: fase di ricerca della compagnia che poi diventa un piccolo formato performativo in sè: come “riprodursi della materia” breve, 10 minuti, in spazi non teatrali, da vedere in piedi, entrando da una parte e uscendo da un’altra (attraversamento). Creazione permanente, velocità e geografiaper la Tragedia: 11 spettacoli per 10 città europee e Cesena, ognuna con il suo numero di codice. Endogonidia – che mi fa pensare all’autopoiesi – deriva dalla microbiologia e riguarda il meccansimo con cui appunto dei micro-organismi si autoriproducono. La linearità della tragedia attica, il suo meccanismo (climax tragico, apice, caduta) viene rotta così come il rapporto fra azione e coro. Gli spettacoli cono solo episodi perchè viene a mancare la comunità, il coro. E così le città servono per la rappresentazione dell’identità di un popolo e della sua storia collettiva. Creazione dello spettatore episodico, consapevole di essere tale, di essere contesto, dispositivo di visione: parzialità, teoria dello sguardo rovesciato come quando vediamo la nuca di un personaggio che guarda… come il bambino vittima e poi carnefice del Purgatorio. Guardarsi guardare è l’operazione su cui già lo stare dentro il mondo online ci ha fatto pensare.

Per finire passaggi su La Divina Commedia, Hey Girl, Mantica per ragionare sulla separazione dei percorsi e non solo all’interno della compagnia, ancora attraverso immagini e citazioni. Troppo per un post che già ha tagliato con l’accetta. E Silvia ha preso il treno più tardi. Per noi. Grazie.

Loro vivono nelle cose. Motus e Sociétas da me

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Qualcuno mi ha detto – in realtà uno – che il mio blog ha un taglio troppo professionale. Ma che ci posso fare se per me personale e professionale sono così collegati? Basti pensare all’emozione e il sentimento di gratitudine, nonché di amicizia, che provo per i miei prossimi ospiti al corso di Teorie e Pratiche dell’Immaginario Contemporaneo. Gli avvisi professionali, appunto, li ho fatti altrove per cui visto che mi si rimprovera qua la metto sul personale. Sempre nei miei limiti però.

Per quanto riguarda Motus, martedì 13 alle 10, la contentezza è data dal fatto che ci sono voluti 6 anni per replicare il memorabile incontro di Urbino. Nel frattempo l’evoluzione del loro lavoro – fra suggestioni di contenuto e la particolarità formale – sono diventati per me dei punti di riferimento per lo studio sull’immaginario contemporaneo di cui, come disse qualcuno, sono dei veri catalizzatori (dalla letteratura, al cinema, all’arte visiva…).

“Uscire dal teatro equivale a mettersi in viaggio”, scrivono Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande, nell’introduzione del loro volume Io vivo nelle cose. Appunti di viaggio da “Rooms” a Pasolini e questa frase la sento molto vicina, lega anche me al mio lavoro e alle cose mie.

Ma prima, il 12 stessa ora, ci sarà Silvia Bottiroli e il tema il teatro della Sociétas Raffaello Sanzio. So che mi/ci aiuterà a penetrare il mondo simbolico, a me verrebbe da dire di assoluta profondità antropologica, che si traduce in in quella ‘espressività per immagini che è una delle cifre caratteristiche del lavoro della compagnia. Secondo me.

Silvia Bottiroli è giovane ma “vive nelle cose” della cultura e dall’arte da molto e da dentro. Un esempio per me e, ci scommetto, per gli studenti.