Quanti sono i piani di riflessività che uno spettacolo come Before Your Very Eyes di Gob Squad & Campo mette in campo? Intanto quello più evidente del contenuto generazionale: sette giovanissimi performer belgi sono chiamati – dalla voce fuori campo che fa un po’ potremmo dire da coscienza collettiva – a pensare a sé, a rivedersi in un prima (il prima dei laboratori da cui nasce lo spettacolo ad esempio) rispetto al presente, che li vede già cambiati, e a pensarsi nel futuro. E così il confronto fra le aspettative di queste vite ancora in erba e quello che potrebbe essere da qui in avanti viene messo in relazione a quello che sanno, che possono conoscere e rappresentare, anche per gioco, del mondo adulto, quello che si può fare da piccoli e quello che si può fare da grandi. Fino al pensiero della morte che poi, come si è avuto modo di capire in giro e come si sa per il solo fatto di parlare di prodotti dell’immaginario, continua a essere il movente più o meno patente del lavoro artistico.
Ma ci vedrei anche, in una chiave più sociologica, il problema della contingenza del moderno, che i giovani incarnano come apertura alle possibilità ma che poi il sociale traduce nell’equivalenza di queste possibilità. A meno che, e sembra che poi la voce dall’alto cerchi di sollecitare in questa direzione e che anche i ragazzi ancora un po’ ci credano, l’identità in costruzione non si risolva in scelte per l’individuazione cioè per la differenza di valore da attribuire alle possibilità che si sceglierà di percorrere.
Dal punto di vista formale la consapevolezza mediologica – che già abbiamo avuto modo di cogliere in Gob Squad Santarcangelo 2010 – permette la messa a tema del tempo che assume il valore di spazio: fra il dentro e il fuori. E’ la composizione della scena a permetterlo grazie alla struttura fatta di specchi all’interno della quale i ragazzi agiscono e interagiscono fra di loro e con gli spettatori che da là fuori li osservano e partecipano alle loro storie, con meccanismi proiettivi di cui solo singolarmente potremmo dare conto. Come sintetizza Massimo Marino (@minimoterrestre) in un tweet efficacissimo:
Noi allo specchio dell’invecchiamento della delusione della fine, nel gioco crudele di un gruppo di bambini, regia Gob Squad.
Ma oltre a questo c’è un altro punto.
L’altro punto è che questo teatro si fa dispositivo dello sguardo sul tempo. Il meccanismo dentro/fuori, che è anche un avanti e indietro, entrata e uscita, realtà e finzione, passaggio dalla presenza in video a quella fisica sul palco, è garantito dall’uso della telecamera in scena e dagli schermi posti ai due lati della gabbia dove l’oscillazione dentro/fuori, che è il contenuto, è resa visibile dal video che è usato come andrebbe sempre usato per essere sensatamente drammaturgico.
Così come dall’immaginario mediale – che non è fatto solo di immagini iconografiche – si costruisce una colonna sonora adatta al rinforzo della dimensione emotiva di cui lo spettacolo non è certamente sfornito: da un inno intergenerazionale come Don’t stop me now dei Queen (che già all’inzio dà letteralmente vita allo spettacolo con i ragazzi che ballano) o qualcosa dei Led Zppelin che mi pare di aver riconosciuto a un certo punto, per passare a una versione maschile (Brel, Brassens? Boh) di No, Je ne regrette rien di Edith Piaf fino a brani di certo più recenti, che io poi ho scoperto solo lì, come Boring di The Pierces o Wolves di Phosphorescent usati in altri momenti a rinforzo dell’intera performance.
La cosa che mi colpisce di più è il patto neotelevisivo che creano con lo spettatore: dentro una scatola/schermo in cui i performers/bambini agiscono sapendo di essere visti ma senza vedere il pubblico, si propone un reality show che ci accompagna dalla vita alla morte.
La quarta parete non viene mai messa in discussione: loro sono sotto il nostro sguardo, controllati da una “voce”, meccanica astrazione, cui sono soggiogati. Solo in un momento dello spettacolo uno dei performers esce dalla scatola ma più che rivolgersi al pubblico guarda dentro lo schermo gli altri rimasti. Non c’è fuoriuscita dal meccanismo novecentesco dello sguardo schermico e dal disaccoppiamento fra vedere ed essere visti.
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