I contenitori del potere e della sua spudoratezza. La Leggenda del Grande Inquisitore fra letteratura, televisione, teatro e Ted Conference

Per parlare del potere e della sua spudoratezza, soprattutto nella sua versione contemporanea che, temendolo, tenta di incanalare il conflitto in binari sempre più innocui, torna ancora buona La leggenda del grande Inquisitore ovvero il capitolo centrale de I Fratelli Karamazov, quello del dialogo tra l’Inquisitore e il Cristo inserito a sua volta nel dialogo fra Ivan e Alyosha, riportato in scena da Umberto Orsini con Leonardo Capuano, per la regia di Pietro Babina. Al Piccolo Eliseo Patroni Griffi di Roma fino al 9 dicembre.

Si tratta di un dialogo dentro un dialogo (da G. Zagrebelsky) dove su un piano, quello tra i fratelli, l’oggetto è l’ingiustizia del mondo e l’insensatezza della vita mentre sull’altro – quello tra il Cristo e l’Inquisitore – il tema è quello della libertà, come salvezza o dannazione, e perciò il modo con cui gli uomini vengono governati. Se, come vorrebbe l’Inquisitore, rinunciare alla propria libertà è un modo per proteggersi dal male, allora bisogna accettare l’eterodirezione – un termine preso a prestito dalle teorie sulla comunicazione di massa per proiettare la questione del potere sui fronti più complessi dischiusi dalla modernità – o rinunciare alla propria vita, suicidandosi. Che è la posizione estrema di Ivan.

Il mondo religioso di Fëdor Dostoevskij espresso dalla parola FEDE dell’insegna al neon che campeggia fra intermittenze e interferenze sulla scena, emerge con tutto il suo carico di simbolico di vita e morte dal sottofondo sonoro scandito dai “bip” di un monitor dei parametri vitali.

Il dispositivo drammaturgico dello spettacolo rivela la “mano” tecnologica e l’immaginario scientifico che sono il segno e la cifra di Babina regista e che si avvale per la scenografia, come per alcuni lavori del passato di Teatrino Clandestino, di Federico Babina. Un meccanismo della scena che innesca perciò una particolare relazione fra lo spazio e il tempo. In una stanza sghemba simile a un obitorio o a una gabinetto scientifico l’Ivan Karamazov di oggi e il figlio/demone che lo tenta inscenano un corpo a corpo basato dapprima su una sequenza gestuale fatta di azioni che si susseguono e di rewind che la fanno ricominciare agganciando un gesto ad un altro. Ma poi le sequenze di azione vengono ripetute e integrate con le parole e con il dialogo.

E così, mentre la metafora del potere trova un’altra efficace metafora visiva nel drone telecomandato da Capuano/demone con l’iPad e nella verticalizzazione della scena, fino a quel momento concepita orizzontalmente, l’analogico e il numerico, il non verbale e il verbale, si ricompongono facendo riacquistare al testo la centralità che gli spetta e il coordinamento dei comportamenti senza parole trova il suo senso.

In un contenitore che racchiude le diverse stratificazioni del doppio, che il testo contiene e che il lavoro teatrale potenzia, non manca nemmeno il rimando esplicito a quell’Ivan Karamazov interpretato da Orsini nel celeberrimo sceneggiato diretto da Sandro Bolchi alla fine degli anni sessanta (ma anche la TV è un contenitore importantissimo per la nostra memoria culturale) e che qui serve a mettere in confronto l’anziano Ivan con la proiezione fantasmagorica del giovane Ivan (televisivo).

E si arriva così al monologo finale in cui il discorso sul potere e sulla sua affermazione usa il linguaggio edulcorato e il fare sorridente e sornione, imbonitore e subdolo che, mettendo in crisi il senso profondo di una fede che non chiede miracoli, mette a punto le sue strategie di seduzione.

Per farlo Babina ricostruisce l’ambiente della Ted Conference e il testo in 18 minuti, il tempo della soglia di attenzione quantificata dagli esperti della comunicazione. Il contenitore ora è quello del tempo breve di una conferenza che si diffonde viralmente nei territori del web, nuovo spazio della performance e della sua transmedialità.

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