Raddoppiamento di realtà. Il Santo Genet della Compagnia della Fortezza

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(foto GBA)

Con Santo Genet la Compagnia della Fortezza diretta da Armando Punzo porta al Festival Volterrateatro2014 (in prima nazionale ma anticipato nel 2013 come possiamo leggere qui e qui) e nel carcere come suo ambiente ideale, l’opera e la poetica di Jean Genet.

Ed è chiaro da subito che si tratta di un’operazione volta a rendere visibile, ma più ancora tangibile, quel processo di raddoppiamento di realtà che, riguardando prima di tutto il teatro (poi la nascita del romanzo e l’epoca moderna), ha insegnato allo spettatore come contemplare la realtà della finzione, a considerare del tutto normale l’intreccio fra osservazione e realtà, fra apparenza e autenticità.

Questa possibilità di tenere insieme diverse prospettive di osservazione si sostanzia nel caso di Santo Genet nel corto circuito tra due dispositivi: quello del carcere e quello del teatro in cui gli attori sono i detenuti, il palcoscenico è il carcere. Tutto lo spettacolo si svolge sotto lo sguardo incrociato della polizia penitenziaria, del pubblico, degli attori e la macchina drammaturgica è pensata per mettere a tema questa relazione in cui si guarda e si è continuamente/contemporaneamente guardati.

Il funzionamento di questo dispositivo, inoltre, è garantito dall’equilibrio, tutto drammaturgico, fra i vincoli di fruizione cui lo spettatore è sottoposto e la possibilità di attivare i suoi percorsi di partecipazione, anche molto personali, allo spettacolo che, almeno in questa versione, non si basa sulla visione frontale ma sul movimento degli spettatori lungo e dentro agli spazi della scena.

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Già dall’inizio infatti gli spettatori si trovano a varcare una soglia, vengono chiamati a entrare nella zona liminale della rappresentazione dalla maitresse/officiante (lo stesso Armando Punzo) che guarda e sorride dolcissima accompagnando il pubblico nel passaggio lungo un corridoio di statue umane. Una schiera di attori/marinai su un piedistallo che indossano pantaloni bianchi abbottonati davanti, t-shirt a righe con le maniche ripiegate all’interno e cappellino bianco, coerentemente con l’iconografia del marinaio omossessuale così come la riconosciamo in Fassbinder, in specie la versione cinematografica di Querelle de Brest, ma anche nell’immaginario più glamour della moda marinara di Jean Paul Gaultier. E così bellezza, ambiguità e crimine procedono insieme per esprimere non soltanto il ribaltamento esistenzialista dei valori sociali, il fascino della malavita e del delitto a sangue freddo, proprio della poetica di Genet, quanto, piuttosto, quel raddoppiamento di realtà che porta spettatori/liberi e attori/detenuti a condividere lo stesso intorno spazio-temporale in una situazione di contatto fisico e vicinanza non soltanto simbolica.

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Lo spettacolo si compone di tre parti: nella prima gli attori si dispongono nel grande e bianco spazio all’aperto fra archi cornici, sedute, piedistalli. I frammenti testuali danno parola al contesto poetico di Genet e introducono i personaggi. Come ad esempio Divine di Notre Dame de Fleurs interpretato da Aniello Arena. In questo spazio si torna per il finale con tutti gli 80 attori, con altri monologhi e l’ultimo saluto degli attori che imbracciano le statue di cartapesta che li ritraggono e corrono su è giù come in una parata rituale, come in una cerimonia religiosa e festiva dedicata a qualche santo protettore. Chissà forse quelle statue rappresentano anche (ancora) la metafora del rapporto fra realtà e finzione, fra l’essere uomini o maschere.

gruppone e cinesi fiore

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La parte centrale dello spettacolo può essere descritta chiamando in causa il principio ologrammatico che nel pensiero complesso di Edgar Morin indica la compresenza tutto/parti e perciò non solo il tutto contiene la parte ma la parte contiene il tutto. Questa parte dello spettacolo infatti si svolge al chiuso in una sezione interna del carcere, fra un corridoio centrale pieno di specchi e le celle-palcoscenico ai lati in cui si svolgono le azioni: gli attori entrano ed escono insieme al pubblico, recitano i loro monologhi in contemporanea, tanto che spetta allo spettatore scegliere dove fermarsi ma ogni frammento (parte) ripropone, in piccolo, la struttura per monologo dello spettacolo nel suo complesso (tutto).

valzer mosso con negretto

Costumi e scenografie collaborano a dare forma estetica all’immaginario da bordello e omossessuale, coloratissimo e perturbante marcato dal fatto che gli attori recitano guardando in faccia e attraverso gli specchi ora uno ora l’altro spettatore, ammiccando fra loro e con il pubblico. Una vicinanza fisica che fa sentire la presenza dei corpi e per dare corpo ad un’esperienza che non può essere soltanto neo-corticale, ma più profonda ed efficace. Non è un caso infatti che proprio all’apice della con-fusione, intrappolati nella ressa di persone provocata dalla macchina registica, parta un valzer finale, una festa e un abbraccio di tutti con tutti.

parata finale

Un lavoro quindi che pone la questione riflessiva al centro. Prova evidente di come il teatro sappia riappropriarsi del rapporto fra vissuto e rappresentazione per costruire livelli di realtà sempre possibili altrimenti e di come proprio in casi come questi la finzione teatrale produca conseguenze molto concrete nella comunicazione. Quelle che ogni spettatore si porta a casa per prendere le distanze dal “mondo reale”, per guardarlo “da fuori”, grazie ad un universo che sa essere realista e fittizio allo stesso tempo e perciò efficace.

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